Yves Mény Democrazia: l’eredità politica greca. Miti Potere Istituzioni, Ariele, Milano, 2022
L’ultimo libro di Yves Mény è un invito a riscoprire quel serbatoio politico che è la tradizione greca e a beneficiarne. Nelle parole dell’Autore il lavoro si presenta come una “lettura delle rappresentazioni (mitiche, artistiche, letterarie, politiche) e delle istituzioni fino al loro impatto attuale, avvalendosi del diritto che ogni generazione ha di leggere con i suoi occhi e gli interrogativi del suo tempo i testi immortali ricevuti in eredità” (p. 36). In effetti, se dovessi descrivere quest’Opera direi che si tratta di un lemmario di mitologia politica; “mito”, infatti, è una delle parole chiave del volume, un volume che ci offre un’analisi puntuale di una serie di categorie e concetti che sono parte dell’eredità della tradizione politica dell’antica Grecia.
Come ricorda Mény “[L]a mitologia greca ci rinvia a un’umanità al tempo stesso sublimata, esacerbata, spinta ai limiti estremi delle sue possibilità. Ogni personaggio dei miti incarna una passione umana. Alcune fanno parte della sfera dell’intimità o delle semplici relazioni umane. Ma molte stanno al cuore stesso della politica” (p. 31).
Il libro è strutturato in ventidue voci distribuite in tre capitoli dedicati, rispettivamente, all’“uomo nella città”, a “potere e dominazione” e, infine, alle “istituzioni”. Ai capitoli appena citati si aggiungono un’introduzione e una sezione conclusiva.
Non si tratta di un lavoro, per così dire, “nostalgico”, dato che ogni riferimento al passato viene filtrato attraverso un sapiente lavoro critico e di contestualizzazione, nella consapevolezza della natura complessa dei fenomeni analizzati.
Del resto, l’immagine dell’antica Grecia che Mény propone è tutt’altro che idealizzata; al contrario, vengono evidenziate anche le pecche e le degenerazioni che la caratterizzarono. Si tratta, del resto, di un universo tutt’altro che omogeneo, frammentato in visioni diverse del mondo. Del resto, scriveva Camus che “les mythes n’ont pas de vie par eux-mêmes. Ils attendent que nous les incarnions” (A. Camus, Prométhée aux enfers in L’Été, Gallimard, Parigi, 1954) e questo libro ce lo ricorda. Particolarmente emblematica di tale eterogeneità è l’impressione che suscita il corpo di voci del primo capitolo, in cui spicca il lemma “cittadino”, da cui emergono le differenze fra Sparta e Atene, descritte come “modelli alternativi delle possibili scelte politiche” (p. 88). Il secondo capitolo procede – in gran parte, almeno – per coppie concettuali (“sorvegliare e punire”, “l’astuzia e la forza”, “recinti e labirinti”), mentre il terzo capitolo permette all’Autore di cimentarsi con i temi della sua produzione scientifica di lungo corso – basti pensare alle voci “democrazia” e “buon governo”. Gli ultimi due lemmi richiamano poi un altro ambito di ricerca a cui Mény ha contribuito moltissimo: gli studi europei. Si tratta delle due voci “ermafroditismo (istituzionale)” (che richiama la nota immagine usata da Amato), ed “Europa”. In entrambe emergono la particolarità genetica e strutturale dell’Unione europea e il suo carattere incompiuto, nonostante le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona; novità che non sono riuscite, però, a plasmare una vera solidarietà transnazionale.
In generale, ogni voce è un itinerario a sé, ricco di spunti e con bivi ideali che permettono al lettore di intuire la mole di studi necessaria per scrivere un libro come questo. Si tratta di un’Opera, quindi, che ci invita a fare i conti, senza retorica, con il mondo dei classici. La metafora del viaggio torna in più punti: per esempio quando l’Autore, nella ricca introduzione, parla delle “vie della seduzione greca” o, ancora, nell’ultima pagina del libro, dove si ricorda che “la mitologia ci offre uno specchio incantato, non ci dà alcuna garanzia; ma almeno ci offre le eterne lezioni per guidare il viaggiatore” (p. 238).
“Seduzione” è, con “fascinazione”, la parola con cui si descrive l’attrazione che il nostro mondo prova per quello richiamato da Mény. Del resto, la Grecia antica è letteralmente “la fonte indiscussa dei mille ruscelli attraverso cui la democrazia contemporanea si è costituita nel tempo” (p.34). Ma perché siamo attratti ancora da questo mondo, nonostante esso non abbia forse mai conosciuto le forme che siamo soliti attribuirgli? Le ragioni sono ovviamente molteplici, ma una di esse è il suo spingerci a superare le false dicotomie che spesso incontriamo nella realtà attuale, così polarizzata, che si alimenta di fratture e divisioni e che ne produce continuamente di nuove. Leggere questo volume è essenziale per scoprire, ad esempio, i molteplici significati assunti dall’idea di “democrazia, anch’essa così polimorfa, mutevole e variabile” (p. 34). Scavando nella tradizione greca si ha conferma, per esempio, della natura elitaria della democrazia di Platone e Aristotele, del loro scetticismo verso la democrazia “pura”, elementi che rappresentano un potente antidoto ai veleni della democrazia radicale talvolta propugnata anche ai nostri giorni, una democrazia che non conosce il senso del limite suggerito da quel “metodo prudenziale” (M. Loughlin, The Idea of Public Law, Oxford University Press, Oxford, 2004) che è il costituzionalismo. Non è un caso che talvolta costituzionalismo e democrazia siano stati letti in chiave antitetica da una certa letteratura, un esempio per tutti è quello rappresentato dal libro di Negri sul potere costituente, secondo cui “il costituzionalismo è la negazione della democrazia” (Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Manifestolibri, Roma, 2002), perché finisce per creare catene e imbrigliare la sovranità popolare. Se politologi e giuristi sono in genere abituati a descrivere contesti in cui democrazia e costituzionalismo si alimentano a vicenda – perché la democrazia è anche protezione delle minoranze e rispetto dello Stato di diritto – per i populisti, invece, vi è un’insanabile tensione fra questi due ideali. In questo le costituzioni vengono spesso viste dai populisti come irragionevoli gabbie, vere e proprie camicie di forza.
Naturalmente – visti i fondamentali studi dell’Autore in questo campo – non mancano dei passaggi dedicati al populismo, le cui rivendicazioni “semplicistiche” hanno “tuttavia il merito di mettere in luce le derive e i falsi pretesti dei sistemi democratici e la difficoltà per gli elettori di far passare i loro messaggi, le loro rivendicazioni e le loro proteste” (p. 194).
In conclusione, leggendo questo importante libro si ha conferma del fatto che non esiste “la democrazia senza aggettivi”. Troppo ambigua è la storia di questo concetto, come ha ricordato fra gli altri Salvadori enfatizzandone “i molti volti” (M. Salvadori, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, Donzelli, Roma, 2016). In effetti, la grandezza del dibattito che stiamo riscoprendo in questa fase cruciale consiste, come hanno scritto Ginsburg e Huq, nel rendersi conto del fatto che “an effort to understand democratic decline must start with a threshold question that is more difficult than first appears: What, precisely, do we mean by democracy?” (T. Ginsburg, A.Z. Huq, How to Save a Constitutional Democracy, University of Chicago Press, Chicago, 2018).