Trump v. Anderson e il patchwork della giustizia americana sul candidato insurrezionalista
Con una pronuncia collegiale (per curiam), il 4 marzo 2024 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha cassato la sentenza con cui la Corte Suprema del Colorado il 19 dicembre 2023 aveva ritenuto Donald Trump squalificato dalla competizione elettorale per la carica di Presidente, avendo questi – secondo i giudici statali – partecipato all’insurrezione del 6 gennaio 2021 ed essendo quindi incorso nella fattispecie delineata dalla Sezione 3 del XIV Emendamento della Costituzione (in avanti, “Sezione 3”).
Alla pronuncia dei giudici del Colorado avevano poi fatto seguito decisioni simili adottate in Maine e in Illinois, anch’esse ora travolte dalla decisione Corte Suprema. I singoli Stati – scrivono i giudici di Washington – non hanno il potere di dar autonomamente seguito alla citata Sezione 3 nei confronti di uffici federali, men che meno nei confronti di candidati alla carica di Presidente degli Stati Uniti.
L’arresto della corte federale, pressoché scontato, è stato raggiunto all’unanimità, ma con due significative concurring in the judgement.
Passaggi principali della pronuncia collegiale sono i seguenti:
1) È possibile dare attuazione a quanto previsto dalla Sezione 3 solo a livello federale. segnatamente da parte del Congresso, e non a livello statale. Questo perché:
a) decisioni come quelle sottese alla squalifica di ufficiali federali devono essere prese da organi espressivi della popolazione nel suo complesso (federal officers “owe their existence and functions to the united voice of the whole, not of a portion, of the people”):
i) ciò non solo per i possibili diversi esiti nel merito che nei vari Stati si potrebbero raggiungere su una stessa vicenda, ma anche per le diverse regole processuali che potrebbero governare tali decisioni (The “patchwork” that would likely result from state enforcement would “sever the direct link that the Framers found so critical between the National Government and the people of the United States” as a whole);
i) singoli Stati possono al più squalificare coloro che sono titolari o che sono candidati a un ufficio di carattere statale;
b) così impone il rinvio, contenuto nella Sezione 5, al Congresso quale organo chiamato a dare attuazione, by appropriate legislation, alle previsioni del XIV Emendamento;
c) così si dovrebbe dedurre anche dall’ultima previsione della stessa Sezione 3, che permette appunto al solo Congresso di rimuovere un’ipotetica squalifica;
d) non risulta alcuna tradizione storica o prassi applicativa che sia andata nel senso di permettere ai singoli Stati di applicare la Sezione 3 a ufficiali federali o candidati a cariche federali.
2) Solo il Congresso potrebbe dare applicazione alla Sezione 3 e nel far ciò deve comunque muovere dall’assunto che, trattandosi di limitare e punire condotte individuali, la disciplina deve riflettere congruence and proportionality tra necessità di prevenzione e necessità di porre rimedio. Questo a maggior ragione quando è in gioco l’ufficio di Presidente degli Stati Uniti.
Le due concurring opinion – una firmata dalla sola giudice Barrett, l’altra congiuntamente dalle giudici Sotomayor, Kagan e Jackson – aderiscono sostanzialmente al solo punto 1.a.i) della predetta argomentazione. Entrambe le opinioni, ma la seconda con maggiore vis polemica, ritengono infatti che la Corte si sarebbe dovuta limitare a dichiarare soltanto la competenza federale sulla materia: tanto bastava per chiudere un caso che, secondo le giudici, “gridava judicial restraint”.
Non c’era invece alcun bisogno di aprire (e soprattutto di chiudere) la questione dell’individuazione del soggetto istituzionale chiamato a dare attuazione alla previsione della Sezione 3, né quella sulle modalità con cui farlo: e questo fondamentalmente perché tali questioni non erano parte del thema decidendum.
Ai fini di un inquadramento critico della pronuncia si possono appuntare le seguenti osservazioni.
In primo luogo, in nessun punto della pronuncia o delle concurring viene contestata la qualificazione di “spergiuro insurrezionalista” (oathbreaking insurrectionist) attribuita a Trump dalla Corte Suprema del Colorado, anzi, nell’opinione firmata da Sotomayor, Kagan e Jackson si ricorre con frequenza a questa espressione; né vengono in alcun modo affrontate le conclusioni raggiunte dai giudici del Colorado secondo cui Trump avrebbe commesso un attentato alla costituzione il 6 gennaio 2021.
In nessun punto della pronuncia o delle concurring viene poi discussa la tesi, pur sostenuta dai legali di Trump in Colorado, secondo cui il Presidente non sarebbe tecnicamente “un ufficio degli Stati Uniti”, e quindi non sarebbe soggetto alla previsione della Sezione 3. Non è chiaro se la tesi sia stata ritenuta, come fa gran parte della dottrina, semplicemente senza senso. Di certo, la pronuncia collegiale pone molta enfasi sulla peculiarità della Presidenza, esplicitamente ritenuta un federal office, soprattutto nel sottolineare come la decisione se limitarne o meno l’accesso sulla base della Sezione 3 non possa che essere presa a livello centrale.
La tesi secondo cui gli Stati potrebbero squalificare dalla competizione elettorale ai sensi della Sezione 3 solo funzionari statali ma non quelli federali, secondo Graber (autore del più recente studio in materia), non ha alcun fondamento nel testo costituzionale o nella storia costituzionale americana, non prevedendo il XIV Emendamento procedure diverse per la rimozione dei funzionari federali rispetto a quelle utilizzate per la rimozione dei funzionari statali.
L’argomento secondo cui è la “voce unitaria” della federazione a dover legittimare (e quindi se del caso squalificare) un ufficiale federale, soprattutto se questi ricopre la carica monocratica deputata a rappresentare l’unità nazionale per eccellenza, non viene poi minimamente posto a raffronto col fatto che proprio le elezioni presidenziali negli Stati Uniti non sono tecnicamente nazionali, dal momento che ogni Stato stabilisce proprie regole per lo svolgimento di tali elezioni, a cominciare dalle primarie (fase da cui era appunto partita la controversia giudiziaria in Colorado). È anzi nota – e spesso critica – la differenza tra voto popolare e collegio elettorale (c.d. Electoral College), tanto che si può dire che la legislazione elettorale sul punto sia già abbondantemente un patchwork. Una trama che invero la Corte Suprema sembra ora contribuire a infittire ancora di più.
L’argomentazione circa la competenza federale a dare attuazione alla Sezione 3 lascia infatti molti dubbi già tra le giudici che firmano le due opinioni concorrenti, ma anche tra i primi commentatori del caso, e questo sia per quel che riguarda l’esclusività della titolarità di tale competenza in capo al Congresso che, soprattutto, per quel che riguarda la sua estensione:
– Quanto al primo aspetto, ad esempio, non è chiaro se ora uno Stato della federazione possa rifiutare di inserire nella scheda elettorale il nominativo di un candidato al Senato o alla Camera del Congresso (queste, sì, cariche espressamente citate dalla Sezione 3) quando quello Stato stesso abbia ritenuto la persona inidonea a ricoprire un ufficio federale ai sensi della Sezione 3.
– Quanto al secondo e più critico aspetto, da quello che scrivono le giudici concorrenti sembrerebbe che la pronuncia collegiale abbia voluto impedire al Congresso di adottare una qualunque misura volta a squalificare ufficiali federali sulla base della Sezione 3 fino a quando il Congresso stesso non avrà approvato una specifica “legislazione di attuazione” di quella previsione costituzionale. Non sarebbe quindi possibile squalificare un ufficiale federale tramite atti non legislativi come, per esempio, il rifiuto delle due Camere di convalidare – on Section 3 grounds – il conteggio dei voti durante la seduta comune del prossimo 6 gennaio 2025.
Tanto almeno si evincerebbe da alcuni passaggi delle opinioni concorrenti come quelli in cui Sotomayor, Kagan e Jackson scrivono che secondo la maggioranza il Congresso must enact legislation under Section 5 prescribing the procedures to ascertain what particular individuals should be disqualified, e come quello in cui scrivono che con questa pronuncia di fatto the majority shuts the door on other potential means of federal enforcement. In un ulteriore commento, anche Graber (in particolare dal min. 30’) legge nella sentenza l’invenzione da parte della Corte Suprema di una regola, priva di basi storiche, secondo cui solo il Congresso può squalificare ufficiali federali tramite apposita legislazione.
Invero la pronuncia della maggioranza, pur riferendosi sempre e comunque al Congresso quale attore competente e pur ritenendo critical il potere del Congresso di dare attuazione alla Sezione 3 con l’appropriate legislation di cui alla Sezione 5, da un lato non chiarisce mai cosa intenda con critical, ma dall’altro e soprattutto non sembra contenere un’indicazione così precisa e vincolante sulle modalità di azione del Congresso (legiferando appunto), il che ha lasciato supporre (ad esempio a Lederman, punto 7) che le giudici abbiano basato la loro concurring su una precedente versione della decisione collegiale, più netta in quel senso, prima di una successiva, più generica riscrittura.
Resta comunque un’importante ambiguità circa le modalità con cui, secondo la Corte Suprema, il Congresso potrà legittimamente agire – e in particolare squalificare un candidato alla Casa Bianca ritenuto insurrezionalista – ai sensi della Sezione 3.
Chiusa pur con queste incertezze la vicenda della candidabilità di Donald Trump ai sensi della Sezione 3 del XIV Emendamento, in punto di cronaca giudiziaria, l’agenda dell’ex Presidente resta comunque molto fitta, essendo ancora coinvolto in svariati processi.
A livello statale, il 25 marzo 2024 nello Stato di New York inizierà il processo sull’utilizzo dei fondi elettorali per pagare Stormy Daniels affinché tacesse sulla loro relazione. Sempre nello Stato di New York è stata di recente emessa la sentenza che condanna Trump a pagare una multa da 454 milioni di dollari per aver alterato i valori delle sue proprietà al fine di ottenere condizioni favorevoli sui prestiti richiesti e, per proseguire con il ricorso in appello, Trump dovrebbe versare una cauzione per l’intera somma. Ancora a livello statale, è in corso in Georgia il processo sul tentativo da parte di Trump di alterare i risultati del voto del 2020 in quello Stato, ma è stata chiesta la ricusazione di Fani Willis, la procuratrice che ha istruito il caso, e il processo potrebbe slittare dopo le presidenziali.
A livello federale, il procuratore Jack Smith ha avviato due processi che riguardano, rispettivamente, il ruolo di Trump nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 e la sottrazione da parte di Trump di documenti segreti dalla Casa Bianca. Trump ha fatto ricorso contro entrambe le accuse, sostenendo che in qualità di ex Presidente avrebbe diritto all’“immunità assoluta” per gli atti compiuti durante il mandato e che quindi non potrebbe essere sottoposto a procedimenti penali. Il giudice di primo grado e la Corte distrettuale d’appello di Washington avevano decisamente respinto questa tesi. Il 28 febbraio 2024 la Corte Suprema ha accettato di rivedere il caso, precisando, in un breve comunicato, che il suo esame sarà limitato a decidere whether and if so to what extent does a former President enjoy presidential immunity from criminal prosecution for conduct alleged to involve official acts during his tenure in office. Contestualmente la Corte ha respinto la richiesta avanzata dai legali di Trump di annullare cautelativamente i predetti pronunciamenti delle corti federali.
Le udienze sull’immunità presidenziale davanti alla Corte Suprema inizieranno il 22 aprile 2024, giusto alla fine del term in corso, lasciando suppore che la decisione potrebbe arrivare a fine giugno. Tuttavia, secondo alcuni commenti, anche laddove l’immunità venisse definitivamente disconosciuta, sarebbe molto difficile riprendere i processi istruiti da Smith e arrivare a una sentenza entro il giorno delle elezioni presidenziali. E in tal caso, se Trump le vincesse, da Presidente potrebbe poi far cancellare, nominando un nuovo procuratore federale, i procedimenti a suo carico; e questo anche perché, stando una direttiva del 1973 risalente all’amministrazione Nixon, il Justice Department non incrimina i Presidenti in carica.
I possibili scenari – legati anche all’andamento dei processi statali che un Presidente non avrebbe il potere di bloccare – restano comunque numerosi e incerti. Corrispettivamente – e nello smarrimento generale del diritto costituzionale statunitense (ma i segnali in questo senso erano stati dati già vent’anni fa) – le prospettive di un inasprimento della crisi istituzionale si fanno sempre più concrete.
La campagna elettorale di Trump procede in ogni caso spedita. Dopotutto, il tema delle responsabilità dell’ex Presidente non sembra aver scalfito il suo elettorato, che lo ha ampiamente confermato candidato presidenziale del Partito Repubblicano.