La direttiva in materia di salari minimi adeguati nella Unione europea

Il tema della retribuzione è centrale nel dibattito nazionale ed europeo.
La Commissione Europea, nell’ottobre del 2020, ha avanzato una proposta di direttiva volta a garantire ai lavoratori dei Paesi dell’Unione un trattamento retributivo che sia equo e adeguato, in conformità alle numerose fonti internazionali ed europee tra cui l’art. 4 della Carta sociale europea, l’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la convenzione O.I.L. n. 131 del 1970, nonché a dare attuazione al principio 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali e a quanto previsto nelle direttive 2006/54/CE e 2000/78/CE rispettivamente in materia di pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne nell’occupazione e nell’impiego e di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
In merito è stato, inoltre, raggiunto un accordo politico provvisorio tra il Consiglio e il Parlamento europeo il 7 giugno 2022.
Il testo è stato recentemente approvato dal Parlamento Europeo il 14 settembre 2022, nonché dal Consiglio il 4 ottobre 2022. La direttiva entrerà in vigore trascorsi venti giorni dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e i Paesi membri avranno due anni per conformarsi.
La direttiva in esame rappresenta il primo intervento d’iniziativa legislativa in materia retributiva, essendovi state in precedenza solo raccomandazioni europee sul contenimento delle dinamiche salariali.
Tutto ciò poiché l’art. 153 par. 5 del TFUE esclude l’intervento diretto dell’Unione sul livello delle retribuzioni.
Sono però ammessi, secondo l’art. 153 par 1 lett. b) del TFUE, interventi di coordinamento tra le varie discipline nazionali in relazione alle condizioni di lavoro.
In passato la Corte di Giustizia ha già ricompreso i livelli retributivi in predetta categoria ricorrendo al principio di non discriminazione.
La previsione non è, infatti, volta all’istituzione di unico meccanismo di determinazione salariale ma lascia, invece, i diversi Stati membri liberi di scegliere le modalità di attuazione con cui garantire tale trattamento minimo adeguato quali la contrattazione collettiva e il salario minimo legale.
La finalità di un simile intervento è quella di contrastare il diffondersi dei bassi trattamenti retributivi e del dumping salariale in ambito europeo.
Tale fenomeno risulta essere maggiormente diffuso, secondo la relazione allegata alla proposta, nei Paesi in cui sono previsti salari minimi legali nazionali.
Infatti, nel testo si evidenzia come in molti Stati membri la retribuzione fissata per legge risulti essere «inferiore al 60% del salario lordo mediano e/o al 50% del salario loro medio», al contrario gli Stati membri caratterizzati da una copertura della contrattazione collettiva elevata hanno percentuali inferiori di lavoratori con basse retribuzioni e salari minimi più elevati.
Come anticipato, però, i diversi Paesi potranno conseguire gli obiettivi previsti sia con il ricorso alla determinazione legale del salario minimo che con la contrattazione collettiva.
La direttiva prevede che i Paesi in cui è presente un salario minimo legale debbano adottate misure necessarie atte a garantire criteri stabili e chiari per la determinazione e l’aggiornamento del trattamento retributivo minimo, anche con la partecipazione delle parti sociali.  Con l’accordo del 7 giugno 2022 il Consiglio e il Parlamento europeo hanno stabilito, inoltre, che i salari minimi legali dovranno essere aggiornati al massimo ogni due anni (quattro anni laddove i paesi utilizzino un meccanismo di indicizzazione automatica).
In merito alla contrattazione collettiva la proposta originariamente riteneva sufficiente una copertura della contrattazione collettiva pari ad almeno il 70% dei lavoratori, tale soglia, a seguito dell’accordo intervenuto il 7 giugno 2022, è stata alzata all’80%. È previsto, inoltre, che il mancato raggiungimento della soglia comporti la definizione di un piano d’azione pubblico volto alla sua promozione, sentite le parti sociali.
Le tutele ivi previste saranno rivolte a tutti coloro che rientrino nella definizione di lavoratore per il diritto nazionale e stante la giurisprudenza della CGUE in materia (C-256/01). Rimarrebbero, pertanto, esclusi i lavoratori autonomi.
Gli Stati membri, al fine di dare effettiva attuazione a quanto stabilito nella direttiva, dovranno adottare misure idonee a garantire l’accesso dei lavoratori alla tutela, anche attraverso meccanismi di ispezione e controllo così da perseguire eventuali inosservanze (art. 8 della proposta della proposta di direttiva), nonché garantire il diritto di ricorso del lavoratore in caso di violazioni (art. 11 della proposta di direttiva) e sanzioni effettive proporzionate e dissuasive (art. 12 della proposta di direttiva). Con l’accordo del 7 giugno 2022 il Consiglio ed il Parlamento europeo hanno concordato ulteriori misure volte a garantire l’accesso effettivo alla misura quali controlli da parte degli ispettorati del lavoro nazionali, informazioni riguardanti la tutela che siano facilmente accessibili e lo sviluppo delle capacità delle autorità responsabili dell’applicazione di perseguire i datori di lavoro non conformi.
Come anticipato, il dibattito circa l’adeguatezza dei salari ha interessato anche l’ordinamento interno. Nel corso degli ultimi anni sono numerosi i disegni di legge che si sono susseguiti in materia.
L’art. 36 Cost. sancisce il principio della giusta retribuzione secondo cui il lavoratore ha diritto ad essere retribuito proporzionalmente alla quantità e qualità del suo lavoro e sufficientemente in modo da garantire a lui e alla sua famiglia una vita libera e dignitosa. La norma non stabilisce, però, in quale modo questo debba principio essere perseguito.
Attualmente un ruolo centrale è svolto dalla contrattazione collettiva di diritto comune. Seppur con i limiti dovuti alla mancata applicazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. e un livello di sindacalizzazione che si attesta circa al 33-35% il livello di copertura dei contratti collettivi è intorno all’80% (S. Leonardi, Salario minimo e ruolo del sindacato: il quadro europeo fra legge e contrattazione, in LD XXVIII n. 1, 2014, pag. 202), risultando, pertanto, coperto dalle tutele, non solo retributive, di detti accordi un numero considerevole di lavoratori. Tutto ciò è dovuto a numerosi interventi sia da parte della giurisprudenza che del legislatore in favore della contrattazione, come l’utilizzo quale parametro presuntivamente adeguato ex art. 36 Cost. dei minimi tabellari in questa presenti ovvero l’obbligo di assumere come base di calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale una retribuzione non inferiore all’importo delle retribuzioni dei contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (art. 1, co. 1, d.l. 9.10.1989, n. 338, conv. con mod. dalla l. 7.12.1989, n. 389).
Tale sistema non è, però, privo di problemi, tra questi certamente vi è l’insufficienza degli interventi giurisprudenziali ex art. 2099 c.c. e il loro soggettivismo, nonché la diffusione di contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali di dubbia rappresentatività che sfruttano il principio di libertà sindacale al fine di ridurre in modo significativo le tutele, economiche e non, presenti nella contrattazione portata avanti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative.
Pertanto, ci si è interrogati circa la possibilità di introdurre in Italia un salario minimo legale ovvero dotare di un’efficacia generale i minimi tabellari presenti nei contratti collettivi.
Un qualsiasi intervento in tal senso, però, rischierebbe, se non accuratamente valutato, di violare il principio di libertà sindacale sancito dal co. 1 dell’art. 39 Cost.
Infatti, qualora si optasse per la determinazione legale della retribuzione da parte del legislatore questo non potrebbe non tener conto della mancanza di categorie predeterminate dalla legge, individuate ad ora dagli stessi contratti collettivi, né del rischio di privare la contrattazione collettiva di una sua fondamentale funzione.
Nel caso in cui, invece, si optasse per un’estensione di efficacia della retribuzione presente negli accordi stipulati dalle parti sociali ovvero una loro partecipazione nella determinazione del salario minimo legale si porrebbe il problema dell’identificazione delle associazioni sindacali e datoriali a ciò deputate.
Infine, in assenza di maggior controlli e sanzioni effettive non verrebbe in ogni caso risolto il problema relativo al c.d. lavoro nero.
Come è possibile evincere da questa breve analisi, l’adozione della direttiva non risolverebbe allo stato attuale il problema. Questa, infatti, tralascia di definire parametri volti a valutare quali contratti collettivi garantiscano una retribuzione adeguata, prevedendo una semplice presunzione di adeguatezza al superamento della soglia di copertura. In Italia, una simile lacuna, come evidenziato anche dal CNEL, comporterebbe l’applicazione di contratti collettivi stipulati da organizzazioni di scarsa rappresentatività i cui trattamenti salariali siano molti bassi.