You can even do what I do. L’annullamento di atti delle istituzioni comunitarie per violazione di diritti fondamentali nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia
Uno dei tradizionali cavalli di battaglia dei critici della Corte di giustizia riguarda la riluttanza di quest’ultima ad annullare atti delle istituzioni comunitarie per lesione dei diritti fondamentali. Omissione ritenuta tanto più grave, quanto più invece la Corte non ha mai mancato di colpire, per la stessa ragione, gli atti degli Stati membri. Ed anche se questa riluttanza è stata spiegata con la difficoltà di invalidare atti promananti da organi che offrivano una sponda “istituzionale” all’opera di progressiva comunitarizzazione dei diritti nazionali, essa non poteva non esporre i giudici comunitari all’accusa di ipocrisia avanzata da tanta parte della dottrina (“don’t do what I do, do what I tell you to do”, secondo la formula di Joseph Weiler, ma con lui v. anche Mancini, Pinelli e Cartabia).
In ogni caso, se un orientamento del genere poteva ancora comprendersi in una fase in cui la tutela dei diritti non aveva assunto, almeno formalmente, un’autonoma consistenza rispetto alle finalità dei Trattati, esso si rivela difficilmente difendibile in una fase in cui, parafrasando la celebre formula di Bogdandy, i diritti si insediano nel cuore dell’ordinamento comunitario.
Ed infatti, la giurisprudenza successiva alla “prima” proclamazione della Carta di Nizza ha visto crescere i casi di annullamento di atti comunitari, in particolare del Consiglio, allorché questi sono stati ritenuti in contrasto con i variegati standard comunitari in tema di diritti.
Il pensiero non può non andare alle diverse sentenze con cui prima il Tribunale di primo grado nel caso Modjahedines (T-228/02), poi con maggiore decisione la Corte in Kadi (C-402/05), hanno annullato in parte qua le decisioni e i regolamenti antiterrorismo adottati dal Consiglio in applicazione delle risoluzioni ONU. Casi sicuramente rilevanti, ma nei quali l’esito dell’annullamento appare in larga misura dovuto, più che non alle capacità del diritto comunitario di generare dal proprio interno (ed in primo luogo dalla Carta di Nizza, all’epoca priva di carattere vincolante) adeguati strumenti di tutela, al combinato disposto di alcuni diritti chiave del sistema CEDU (in primis art. 6 e art. 1, prot. 1) e di norme di diritto internazionale generale. Nulla di strano, si potrà obiettare, tenuto conto del regime peculiare degli atti adottati nell’allora PESC e della loro più evidente connessione con un ambito di operatività delle garanzie che guardava “all’esterno” del sistema comunitario. Ma è altrettanto vero che, proprio per queste caratteristiche eccezionali, il filone giurisprudenziale in questione non può essere rappresentato come il pieno e definitivo superamento di quel comportamento ambiguo di cui la Corte ha dato prova in passato.
È solo con l’entrata in vigore della Carta di Nizza, invece, che la Corte di giustizia comincia a muovere i suoi primi passi verso uno scrutinio più severo nei confronti degli atti delle istituzioni comunitarie. La prima avvisaglia di un cambio di passo rispetto al passato si ha con la sentenza della Grande Sezione del 9 novembre 2010, Volker e Markus Schecke e Hartmut Eifert (C-92/09 e C-93/09), in cui i giudici comunitari annullano, per violazione degli artt. 7 e 8 della Carta, alcuni regolamenti del Consiglio che imponevano la pubblicazione di informazioni sui beneficiari dei finanziamenti provenienti da fondi comunitari nel settore agricolo. Significativa, nella sentenza, la circostanza che il richiamo alla Carta come parametro per la soluzione della questione sia stato effettuato in autonomia dai Giudici comunitari, visto che il giudice rimettente, considerando evidentemente non applicabile la Carta siccome non in vigore all’epoca dei fatti, aveva invocato la violazione solamente delle corrispondenti norme della CEDU.
Che non si sia trattato di un episodio isolato lo dimostra, da ultimo, la recente sentenza della Grande Sezione del 1° marzo 2011, Association belge des Consommateurs Test-Achats (C-236/09), in cui la Corte ribadisce e consolida l’orientamento interpretativo fatto proprio in Schecke. Qui la questione pregiudiziale, sollevata dalla Cour constitutionnelle belga, concerneva direttamente la validità dell’art. 5, n. 2, del regolamento del Consiglio 2004/113/CE che, derogando al principio della equiparazione piena tra uomini e donne nei servizi di assicurazione, consentiva agli Stati di differenziare i premi assicurativi in base al sesso, ove quest’ultimo fosse stato determinante, sulla base di dati attuariali e statistici, nella valutazione dei rischi intrapresi dall’assicuratore.
Anche qui, il giudice rimettente non lamentava la violazione di espresse disposizioni della Carta di Nizza, ma solamente del principio di non discriminazione così come ricompreso nell’art. 6, n. 2, del TUE in quanto espressivo di una generale esigenza di tutela dei diritti nell’ordinamento dell’Unione. Ed anche in questo caso, è la Corte ad individuare sua sponte il parametro proprio negli artt. 21 e 23 della Carta, fondandosi sui quali essa afferma che tutto l’impianto della direttiva sub iudice, sebbene in linea di principio non contrario ad una valorizzazione del diverso peso del rischio assicurativo quando questo riguarda una donna, deve essere letto alla luce dell’obiettivo, mutuato dai principi antidiscriminatori della Carta, di garantire un servizio unisex. Di conseguenza, la disposizione comunitaria impugnata – per il fatto di consentire “agli Stati membri interessati di mantenere senza limiti di tempo una deroga alla regola dei premi e delle prestazioni unisex” – viene dichiarata invalida in quanto incompatibile con i citati artt. 21 e 23 della Carta.
È interessante sottolineare il fatto che la Corte si sia spinta ad invocare la tutela dei diritti non soltanto come argomento a sostegno di una interpretazione adeguatrice della normativa contestata (secondo quanto avvenuto, ad esempio, in Sturgeon, C-402/07 e ancora più chiaramente in Salahadin Abdulla, C-175/08), ma come elemento capace di ribaltare la lettura dell’impianto normativo sottoposto alla sua attenzione, fino ad invalidare la norma ritenuta discriminatoria. Quest’ultima, seppur eccezionale rispetto all’obiettivo della direttiva di garantire un servizio assicurativo unisex, rispondeva infatti all’evidente esigenza di adeguare il rischio delle imprese assicurative ai maggiori oneri che, secondo le risultanze attuariali, possono derivare dai contratti stipulati dalle donne. E proprio tali maggiori oneri vengono addotti dalla Commissione e dagli Stati intervenienti per dimostrare quella “differenza di situazioni” in grado di giustificare la “diversità di regole”. Senonché alle ragioni di una simile diversità, tutte interne alla logica imprenditoriale della fornitura del servizio, non viene riconosciuto alcun valore autonomo ma, al contrario, esse vengono subordinate dalla Corte al perseguimento della piena eguaglianza tra i sessi, ormai imposta dalla Carta dei diritti con un rilievo che non può essere eluso neanche dal legislatore comunitario.
La sentenza, quindi, merita attenzione perché costituisce un ulteriore tassello dell’attuazione giurisprudenziale della Carta, sul versante questa volta dei rapporti interni all’Unione. Certo non stupisce, per chi è a conoscenza del dinamismo interpretativo dei giudici di Lussemburgo, la sostituzione d’ufficio del parametro rispetto a quello evocato dal giudice rimettente, così come l’applicazione della Carta ad una fattispecie sorta prima della sua entrata in vigore. Entrambe queste circostanze, sullo sfondo dell’esito finale della sentenza Test-Achats, dimostrano tuttavia sino a che punto una Corte di giustizia assistita da uno strumento forte come la Carta possa in futuro dimostrarsi più aggressiva proprio nei confronti del complessivo sistema di law-making comunitario. Se infatti molto si è discusso, prima della entrata in vigore della Carta, della sua capacità di riassestare su un terreno più sicuro e meno arbitrario del passato l’attività interpretativa della Corte in tema di diritti, non altrettanto si è riflettuto sull’accrescimento dei suoi poteri nei confronti di quelle istituzioni che, fino a quel momento, ne avevano coperto l’attivismo in tema di diritti, beneficiando di una sorta di indennità dal suo sindacato. Come dimostrano le sentenze prese in esame, l’entrata in vigore della Carta sembra infatti rafforzare la posizione e il ruolo della Corte in primo luogo vis-à-vis le altre istituzioni comunitarie, private della precedente rendita di posizione e quindi destinate d’ora in poi a subire un controllo sul rispetto dei diritti fondamentali che, in presenza di un testo scritto e vincolante, dovrebbe svolgersi in linea di principio senza le remore dimostrate in passato.
Un controllo rafforzato nell’intensità, per le ragioni dette, ma che per un altro verso non sembra destinato a perdere il tradizionale dinamismo, se è vero che l’evoluzione del significato dei diritti si manifesterà non solo sul terreno “letterale” dell’interpretazione della Carta, ma anche sulle interrelazioni che da questa discenderanno nei rapporti con gli altri “principi generali” che la Corte ha costruito con gli anni, desumendoli come noto dalle tradizioni costituzionali comuni e, soprattutto, dalla CEDU. Sia le une che l’altra, si sa, sono state fatte salve sia dall’art. 6 del TUE-Lisbona che dall’art. 52, nn. 3 e 4, della Carta di Nizza e il senso della loro sopravvivenza come fonti cui attingere “principi generali” può ben essere ricondotto, come ha efficacemente detto la nostra Corte costituzionale nella sent. n. 80 del 2011, «al fine di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si tratta, cioè, di evitare che la Carta “cristallizzi” i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate». Se tutto questo, oltre che nei confronti degli Stati membri, sarà fatto valere anche nei confronti delle istituzioni dell’Unione, come le sentenze appena discusse fanno presagire, la tutela dei diritti ad opera della Corte potrebbe assumere, anche sotto questo aspetto, tutte le sembianze di un pieno ed effettivo judicial review.