Whole Woman’s Health v. Jackson 595 (US) 2021. Brevi osservazioni a margine.
Con la decisione Whole Woman’s Health v. Jackson 595 (US) 2021, depositata il 10 dicembre 2021, la Corte suprema americana è tornata a pronunciarsi sull’ultima controversa legge texana in materia di aborto, meglio nota come Texas Heartbeat Act.
La sentenza era molto attesa in ragione della ben nota conflittualità che circonda storicamente la questione dell’aborto consenziente negli Stati Uniti, conflittualità aumentata esponenzialmente (e tristemente) durante il periodo della Presidenza Trump; ma ancor più alla luce della decisione Whole Woman’s Health v. Jackson 594 risalente soltanto a settembre 2021, con cui i giudici della Corte suprema hanno respinto – con una maggioranza più che mai frammentata (di soli 5 a 4) – il ricorso presentato dagli abortion providers texani finalizzato a ottenere l’immediata sospensione della normativa.
Prima, dunque, di analizzare quanto statuito dai giudici della SCOTUS con la pronuncia Whole Woman’s Health v. Jackson 595 (US) 2021, conviene spendere qualche parola sulle modifiche alla disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza introdotte dal Texas Heartbeat Act.
Quest’ultimo, infatti, àncora la liceità dell’aborto all’assenza di attività cardiaca del feto, previamente certificata dal personale medico, vietando sostanzialmente l’accesso delle donne ai servizi interruttivi dopo le prime sei settimane di gestazione (anche laddove l’instaurazione di quest’ultima sia conseguenza di una violenza sessuale), momento a partire dal quale diventa invece teoricamente possibile rilevare il battito cardiaco del concepito, ma quest’ultimo – come noto – è ancora lontano dall’essere “viable”.
Non solo, mediante una previsione definita dagli stessi giudici costituzionali «unprecedented.», o molto più aspramente – riprendendo le parole della sola giudice Sotomayor – «unteneable», l’heartbeat bill texano pone a presidio dell’attuazione della legge, dunque a garanzia del rispetto del divieto, non funzionari statali, ma piuttosto privati cittadini liberi di adire in giudizio «any person who performs or induces an abortion» o «knowingly engages in conduct that aids or abets the performance or inducement of an abortion» in violazione degli stringenti parametri individuati dalla legge. Tra questi soggetti rientrano, verosimilmente, il personale medico e sanitario impiegato negli abortion providers e, più in generale, tutti coloro che fuori dai requisiti stabiliti dalla legge decidano di facilitare l’accesso delle donne all’interruzione della gravidanza, facendosi, ad esempio, carico dei costi dell’eventuale intervento interruttivo, o, semplicemente, favorendo (indirettamente) la realizzazione dell’intento abortivo della donna anche solo aiutandola con una prenotazione o offrendole il servizio di un mezzo di trasporto, come nel caso di un tassista.
In una società, quale quella statunitense, caratterizzata da un anti-abortismo fondamentalista e radicale e dalla congiuntura, da più parti individuata, tra quest’ultimo e la destra antigovernativa; è chiaro che l’affidamento di un tale potere ai privati cittadini- “gentilmente spinti” a esercitarlo dalla previsione, in caso di vittoria, di un risarcimento pari almeno a 10.000 dollari e, in caso contrario, dall’esenzione dal pagamento delle spese processuali- è destinata a inasprire ulteriormente la polarizzazione intorno alla questione dell’aborto, complicando nell’effettività l’accesso delle donne ai servizi interruttivi più di quanto già non faccia la condizione dell’assenza comprovata di attività cardiaca del concepito.
Ciò è ben evidenziato da quanto prontamente riportato, anche in sede giudiziale, dagli abortion providers; questi ultimi osservano, infatti, come, in ragione dei nuovi criteri di liceità dell’aborto consenziente posti dalla legge texana, si sia assistito a una diminuzione netta delle operazioni abortive praticate giornalmente, passate bruscamente da una media di venticinque a una di cinque, con l’esclusione dall’interruzione volontaria di gravidanza, nei soli primi quindici giorni di vigenza del Texas Heartbeat Act di oltre cento donne che ne avevano fatto espressa richiesta e con il conseguente incremento del cosiddetto “turismo abortivo”.
Alla luce del quadro descritto sinora, non stupisce che sia gli abortion providers sia il Governo federale abbiano considerato la questione del Texas Heartbeat Act un caso di indubbio interesse pubblico, e deciso di richiedere nuovamente un intervento della SCOTUS, utilizzando questa volta lo strumento processuale del certiorari before judment, con il quale, come noto, è possibile eccezionalmente domandare l’intervento preventivo -prima cioè della definizione della questione in sede giudiziale- dei giudici supremi.
Nel caso di specie, gli abortion providers invocano il certiorari before judgemnt, in seguito alla decisione della Corte d’appello del quinto circuito di non sospendere la normativa texana nelle more del giudizio di secondo grado; analogamente, il governo federale ricorre al certiorari before judgemnt dopo la scelta della Corte d’appello, interpellata dallo Stato del Texas, di annullare invece il sopravvenuto provvedimento di sospensione del Texas Heartbeat Act adottato nel mentre da un giudice statale, successivamente alla decisione settembrina della Corte Suprema.
Rifiutate le istanze governative con un “unsigned order”, i giudici supremi si soffermano invece sulle richieste provenienti dagli abortion providers. La risposta della SCOTUS, tuttavia, delude nuovamente le aspettative di quanti speravano in una pronuncia di segno contrario rispetto a quella risalente a solo qualche mese prima. Nonostante la Corte suprema abbia cura di specificare nella propria opinione di maggioranza, espressa dal giudice Gorsuch, che la decisione non rappresenta un giudizio di legittimità costituzionale del Texas Heart Bill, – forse anche per stemperare il timore di un overrulling di Roe v. Wade (1973) e Planned Parenthood v. Casey (1992) -, essa decide di non intaccare l’efficacia della nuova disciplina texana sull’interruzione volontaria di gravidanza, mantenendola dunque in vigore, con tutto quello che ciò sembra comportare, si è visto, sul piano della garanzia dell’effettivo accesso delle donne texane ai servizi abortivi.
Le ragioni espresse a sostegno di tale decisione dall’opinione di maggioranza sono essenzialmente di natura processuale. Ciò che viene, principalmente, contestato ai ricorrenti è di aver agito in giudizio anche contro giudici e cancellieri dei tribunali statali, impugnando le disposizioni della legge texana che attribuiscono a questi ultimi, su impulso di terzi privati cittadini, il potere di sanzionare il personale sanitario impiegato presso gli abortion providers laddove sia accertata la violazione, da parte di questi ultimi, del Texas Heartbeat Act.
A detta della maggioranza della SCOTUS, assecondare la richiesta rivolta dai privati ai giudici federali di ordinare, da subito, ai giudici distrettuali la non applicazione di una legge statale ritenuta in contrasto con la legge federale, significherebbe assimilare l’attività di questi ultimi, e dei cancellieri che li affiancano, a quella posta in essere dai funzionari pubblici tenuti a dare diretta attuazione alla legge statale, non considerando, invece, che l’attività giudiziale va intesa come la risoluzione – che presuppone dunque l’attuazione della legge medesima – di «disputes between parties». Inoltre, la posizione di terzietà dei giudici rispetto alla decisione di ciascun caso, riconosciuta dai giudici supremi anche in capo ai cancellieri – non senza qualche forzatura, come opportunamente segnalato dalla giudice Sotomayor e dal Chief justice Roberts – impedisce che sia rispettato il criterio (elastico) dell’adversary. Se ci sono, allora, dei funzionari statali, contro i quali gli abortion providers possono impugnare le disposizioni dell’Heart bill texano, questi ultimi, a detta dei giudici della SCOTUS, vanno individuati soltanto tra quei funzionari pubblici che si occupano, specificamente, del rilascio delle licenze mediche. Solo questi ultimi potrebbero, effettivamente, lamentare la violazione della nuova legge texana e far valere la responsabilità dei ricorrenti, sebbene al momento della decisione da parte della Corte le azioni legali poste in essere dagli abortion providers contro il Texas Heart bill risultassero più numerose di quelle da questi ultimi temute, come fa notare nella propria opinion (non senza una certa ironia)- lasciando, dunque, intendere ancora una volta il proprio posizionamento ideologico in merito alla vicenda abortiva- il giudice Thomas, già redattore nel 2018 della nota e discutibile opinione di maggioranza nel caso National Institute of Family and Life Advocates v. Becerra.
In generale, dunque, la Corte non entra nel merito della vicenda preferendo soffermarsi su argomentazioni processuali dal tenore più astratto, tra le quali, tuttavia, come rilevato dalla dissenting opinion della giudice Sotomayor, non viene fatto alcun riferimento a quelli che si presentano come veri e propri aggravamenti processuali, contemplati però dal Texas Heart Bill soltanto a carico degli eventuali trasgressori, quali, ad esempio, la circostanza per cui questi ultimi possono trovarsi a rispondere della medesima condotta in differenti contee dello Stato, anche diverse da quelle in cui si è consumata la violazione; o, ancora, la mancata previsione del rimborso delle spese processuali da questi ultimi sostenute e, al contrario, la possibilità riconosciuta in capo ai querelanti di non sopportare mai i costi del giudizio, nemmeno in caso di soccombenza.
D’altra parte, l’espressa considerazione dell’“undue burden” a cui rischiano di essere sottoposti in sede processuale gli abortion providers, e della portata deterrente di quest’ultimo, avrebbe forse se non impedito, quantomeno complicato, la scelta dei giudici di maggioranza di riservare alla legge texana un trattamento diverso rispetto a quello a cui la Corte è stata solita, invece, sottoporre le altre cosiddette “TRAP laws”. (cfr. sul punto quanto osservato da L. Pelucchini, https://www.diritticomparati.it/whole-womans-health-v-hellerstedt-la-corte-suprema-statunitense-torna-sul-diritto-allaborto/).
Ciononostante, trincerandosi dietro argomentazioni solo apparentemente neutrali quali, nel caso di specie, quelle processuali, la Corte suprema segna una distanza significativa dai propri precedenti e tra tutti, in primis, da Roe v. Wade (1973); distanza ben evidenziata dalla scelta della SCOTUS di preservare l’attuazione di una legge quale quella texana, chiaramente lesiva di un diritto costituzionalmente tutelato e, soprattutto, di non scoraggiare tra i legislatori statali la promozione nella sfera riproduttiva di «facially uncostitutional» laws. (in merito alla proliferazione delle leggi statali antiabortiste degli ultimi anni indirizzate a superare Roe v. Wade (1973), cfr. L. Pelucchini, https://www.diritticomparati.it/se-roe-cade-nello-stato-del-pellicano-il-futuro-incerto-del-diritto-allaborto-negli-stati-uniti; C. De Santis https://www.diritticomparati.it/people-v-roe-negli-stati-uniti-londata-antiabortista-non-si-arresta-e-punta-dritta-verso-washington-d-c).
L’attenzione, allora, non può che essere rivolta alla prossima decisione della Corte suprema sulla legge del Mississippi, la quale ancora una volta in aperto contrasto con Roe v. Wade (1973) e Planned Parenthood v. Casey (1992), vieta l’interruzione volontaria di gravidanza dopo la quindicesima settimana di gestazione, in una fase in cui il feto non è ancora in grado di sopravvivere autonomamente al di fuori del ventre materno.
Se, complice l’impostazione del ricorso, i giudici della SCOTUS sceglieranno in questo caso di affrontare il merio della questione, questa potrebbe essere forse l’occasione per capire se pronunce quali Whole Woman’s Health v. Jackson 595 (US) 2021 vadano considerate sentenze non prive di ambiguità, ma tuttavia episodiche, e non piuttosto, come appare, il preludio di un ribaltamento giurisprudenziale, ai danni del diritto all’aborto delle donne statunitensi, oramai già in atto.