“What would Ruth have said?”: il governo repubblicano dell’Arkansas rilancia la sfida in materia di aborto alla rinnovata Corte Suprema statunitense
Il 9 marzo 2021, nel perdurare dell’emergenza sanitaria da CoVid-19, il Governo repubblicano dell’Arkansas ha approvato a larga maggioranza una legge (Act 308 – Arkansas Unborn Child Protection Act) di modifica dell’esistente – e già fortemente limitativa – disciplina in materia di aborto vigente nello Stato. Il Governatore Hutchinson ha difatti apposto la sua firma ad un pressoché divieto totale di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, se non per il caso eccezionale del pericolo per la salute fisica della gestante ovverosia per la circostanza residuale in cui l’intervento abortivo sia giustificato dalla necessità di salvare la vita della donna. L’emergenza medica, così rigidamente delineata, dunque, come unica scriminante.
Le preclusioni in materia erano invero già molteplici, come ricordato negli stessi considerando iniziali al succitato Act ove il legislatore esplicitamente fa riferimento alle norme entrate in vigore nel 2015, 2017 e 2019 a riprova dello spirito e della volontà del popolo dell’Arkansas di salvare le vite dei non-nati. Per non contare poi l’Emendamento 68 alla stessa Costituzione statale che ribadisce come la politica di Little Rock sia quella di tutelare la vita di ogni embrione dal momento del concepimento fino alla nascita e che i fondi pubblici non dovrebbero essere impiegati per pagare alcun tipo di intervento di IVG, eccezion fatta per quelli necessitati dal salvare la vita in pericolo della madre. Peraltro, già il 26 febbraio 2013 era entrato in vigore il Pain-Capable Unborn Child Protection Act con cui è stata vietata la possibilità di ricorrere all’aborto oltre le venti settimane a contare dal momento della fertilizzazione dell’ovulo. Nel corpo della norma, erano chiaramente esclusi i casi di pericolo di vita o di rischio grave per la salute fisica della donna, non rivestendo comunque alcuna rilevanza la condizione psicologica o emotiva della stessa. La legge si chiudeva poi con un’emergency clause con cui il legislatore motivava il proprio intervento in ragione della volontà di preservare la pace e la salute pubblica, ripristinati dalla impossibilità di praticare interventi di IVG su concepiti capaci di provare dolore. Stando infatti alle considerazioni iniziali al testo di legge, a 20 settimane dalla fertilizzazione, il feto avrebbe già sviluppato i recettori del dolore che – sovrastimolati dagli anestetici impiegati per operare gli interventi interruttivi – causerebbero dolore nell’abortendo.
Ad otto anni di distanza, pertanto, continuando sull’onda lunga della precedenti restrizioni e approfittando del clima generale rilevabile trasversalmente nel Paese (per due vicende di analogo tenore si rimanda qui), il governo dell’Arkansas ha deciso di tornare nuovamente sull’argomento, in maniera ancora più restrittiva.
E il novero di precedenti recenti analoghi non è affatto parco. Solo pochi giorni prima, infatti, il 18 febbraio, in South Carolina, erano state approvate le modifiche al South Carolina Fetal Heartbeat and Protection from Abortion Act del 1976. L’intervento normativo ha comportato l’aggiunta dell’art. 6 al testo di legge, con cui è stato introdotto l’obbligo di controllare se sia rilevabile il battito cardiaco del feto prima di poter procedere all’IVG. Qualora il battito sia effettivamente rinvenibile e udibile, l’aborto diviene impraticabile, eccezion fatta – anche in questo caso – per l’eventualità di dover effettuare tale operazione poiché necessitata dal pericolo di morte per la gestante. Ulteriori deroghe previste dalla legge sono poi quelle della gravidanza come risultato di incesto, stupro (fattispecie non contemplate invece dalla catoniana legge dell’Arkansas) ed anomalia del feto, posto altresì che nei primi due casi è obbligo del sanitario performante l’aborto informare le forze dell’ordine della notizia di reato entro ventiquattro ore dall’operazione. Previsione questa dal carattere e potenziale sicuramente detrattivo per tutte quelle donne non intenzionate a riportare l’accaduto e a denunciare il reato di cui sono state vittima. Peraltro, se l’intervento sta per essere compiuto su una donna incinta da almeno otto settimane, è ora compito del personale medico informare la paziente della possibilità di ascoltare il battito cardiaco del proprio feto; potenzialità dal chiaro impatto sulla sfera emotiva e psicologica della gestante.
In misura crescente, appare dunque palesarsi un pullulare di interventi normativi sempre più in aperto contrasto con i principi costituzionali e con la loro interpretazione rilevante fornita oramai da anni dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in materia di aborto, estrinsecantesi sia in previsioni statali fortemente restrittive – fino al limite dell’interdittivo – sia nei cosiddetti trigger bans, ovverosia divieti non vigenti ma pronti esserlo nel momento in cui la Corte cambiasse il proprio orientamento rovesciando il precedente fornito dalla landmark decision Roe vs Wade (sul punto vedasi ad esempio).
La sfida aperta ai giudici di Washington traspare peraltro apertamente anche nell’incipit dell’Act 308 dell’Arkansas, ove il legislatore si premura di chiarire come l’intento della legge non sia solo quello di abolire l’aborto e salvaguardare le vite dei feti, quanto anche quello di capovolgere i precedenti vincolanti in materia. Nello specifico, si legge come “sia arrivato il tempo – per la Corte Suprema – di dover correggere la grave ingiustizia e il crimine contro l’umanità perpetuato a causa delle decisioni Roe v. Wade (1973), Doe v. Bolton (1973) and Planned Parenthood v. Casey (1992)”, sentenze con cui i giudicanti federali avevano invece strenuamente difeso ed affermato – nonché plasmato – il diritto all’IVG negli Stati Uniti.
In verità, i movimenti della società civile e i governi statali di ispirazione pro-choice parrebbero ora trovare la sponda giusta per levare appelli e nutrire rinvigorite speranze nella Corte Suprema nella sua rinnovata composizione, a seguito della scomparsa della giudice Ginsburg nel settembre 2020. Gli effetti della sostituzione di quest’ultima con la giudice Barrett, su nomina dell’ex Presidente Trump, e lo spostamento degli equilibri interni al consesso giudiziale in materia di aborto si sono invero già palesati nel gennaio 2021.
Dopo diversi mesi di tentennamento, la Corte Suprema si è difatti espressa sulla richiesta di sospensiva legata al caso Food and Drug Administration v. American College of Obstetricians and Gynecologists, estrinsecando la frattura ideologica interna in tema di IVG. La controversia era sorta lo scorso anno in merito alla somministrazione del mifepristone, un medicinale impiegato per indurre aborti farmacologici entro le dieci settimane di gravidanza. Stando ai regolamenti della FDA, il farmaco deve essere necessariamente ritirato dal paziente presso una struttura sanitaria o ospedaliera, pur potendo poi essere ingerito anche presso le abitazioni private. In ragione della delicata situazione socio-sanitaria legata al CoVid-19 nel 2020, tale condizione era stata considerata dai ricorrenti come ostativa all’esercizio del diritto di aborto; argomentazioni che erano state accolte dall’interpellato Tribunale di primo del Maryland che aveva proibito alla FDA l’implementazione del requisito della consegna in presenza, potendosi procedere piuttosto alla spedizione del farmaco per posta. La sentenza era stata naturalmente appellata dall’Amministrazione soccombente, fino ad arrivare alla Corte Suprema, chiedendo di poter sospendere l’esecuzione della sentenza del tribunale nelle more del procedimento di merito di secondo grado, rappresentando – ad esempio – il persistere della possibilità per le gestanti di ricorrere all’aborto chirurgico al posto di quello farmacologico, tale per cui alcuna violazione del diritto in questione poteva essere censurata. Pur non dovendosi dunque pronunciare nel merito della vicenda, i giudici hanno in parte svelato quello che molto probabilmente è da ritenersi l’orientamento della Corte in materia, accogliendo a larga maggioranza la richiesta della FDA (6:3) e dunque autorizzando l’applicazione del requisito della somministrazione in presenza. Nella sua opinione dissenziente la giudice Sotomayor ha tuttavia sottolineato come tale condizione rappresenti un unnecessary, irrational and unjustifiable undue burden sulle donne che vogliano esercitare il loro diritto all’aborto in considerazione della situazione pandemica.
Ancora più recente, è poi la decisione di non decidere – o meglio di posporre la decisione – resa lo scorso 29 marzo dalla Corte in merito al controverso Gestational Age Act, vigente in Mississippi dal 2018, che vieta in pressoché la totalità dei casi il ricorso all’IVG dopo le quindici settimane di gravidanza. Ebbene, i giudici hanno nuovamente riascoltato il caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization (per un’analisi di un precedente rilevante il richiamo è qui), rimandando però la scelta se procedere alla revisione della legge anti-abortista del Mississippi o meno.
Stando così le cose, paiono dunque oramai lontani i tempi in cui la giudice Ginsburg assertivamente dissentiva in nome della piena realizzazione femminile tramite il controllo sul proprio corpo e sulla propria vita riproduttiva. Un cambio di rotta della Corte in materia di aborto – con un rovesciamento dei binding precendents tra cui Roe vs.Wade auspicato dal legislatore dell’Arkansas – non pare ora infatti così implausibile, soprattutto se le voci dei giudici Sotomayor, Kagan e Breyer non riusciranno a far presa sull’opinione pubblica, prima ancora che a persuadere la maggioranza conservatrice intestina.