Vitalizi dei parlamentari ed autodichia: alcune considerazioni a margine dell’ordinanza n. 18265/2019 della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18265 pubblicata lo scorso 8 luglio, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto in sede di giudizio da un ex deputato. Petitum del ricorso pendente presso il Consiglio di Giurisdizione della Camera era l’annullamento della deliberazione n. 14/2018 dell’Ufficio di Presidenza.
Oggetto di tale atto – al quale ha fatto seguito un analogo provvedimento del Consiglio di Presidenza del Senato – è, come noto, la revisione delle norme in materia di trattamento di quiescenza dei deputati. In entrambi i casi si adotta, anche per i trattamenti in essere – rideterminandoli – un criterio di calcolo di tipo contributivo. La già ravvisabile tendenza del sistema ad evolvere in senso previdenziale riceve così un sostanzioso contributo, tanto che ormai appare quasi improprio l’uso del termine vitalizio.
Non si tratta dunque di una pronuncia di merito, anche se tale l’hanno fatta apparire alcuni primi commenti politici. Inoltre, leggendola, si vede come essa rilevi, forse, più sul versante dell’autodichia del Parlamento, vero quid disputandum, che non su quello dei vitalizi dei parlamentari. In ordine a questi, vengono comunque in evidenza i significativi richiami con i quali la Cassazione sembra “parlare a nuora perché suocera intenda”, quasi un memento per chi sarà poi chiamato ad entrare nel merito della controversia.
Viene ricordato, infatti, che «nella disciplina costituzionale e ordinaria» l’indennità, per i suoi diversi «presupposti» e «finalità», è altra cosa rispetto alla retribuzione propria del pubblico impiego. Distinzione, questa, che ne costituisce il trait d’union con l’istituto dei vitalizi, rendendoli solo in minima parte assimilabili agli ordinari trattamenti di quiescenza.
Presupposti e finalità che si riassumono nella necessità di assicurare non solo il libero esercizio del mandato, ma anche l’effettiva universalità dell’elettorato passivo. E se la Cassazione evidenzia che l’art. 69 Cost. rappresenta una novità rispetto allo Statuto albertino, sarebbe anche da ricordare che questo già prevedeva l’accesso di tutti alla carica elettiva. Diposizione rimasta, però, pura enunciazione di principio fino a quando la l. n. 665/1912, con la previsione di rimborsi spese, non rese possibile l’effettivo superamento delle logiche censitarie. La stessa originaria stesura dell’art. 69 formulata in seno all’Assemblea costituente – meno scarna di quella poi adottata – prevedeva per i deputati «un’indennità nella misura fissata dalla legge per garantire loro in ogni caso l’indipendenza economica e il doveroso adempimento del mandato».
È prevedibile che attorno alla questione della lesività dei diritti e dei principi, primo fra tutti quello del legittimo affidamento, eventualmente determinata dai recenti provvedimenti di riforma, ruoterà il thema decidendum del giudizio pendente presso la Camera. Tematica non secondaria è quella dell’ammissibilità di modifiche retroattive in peius dei rapporti di durata, non negata in linea di principio dalla giurisprudenza costituzionale che, però, la subordina ad una serie di condizioni. Tra queste, ad esempio, il ricorrere di finalità mutualistiche, la necessità di garantire la sostenibilità finanziaria del sistema, il carattere temporaneo dei provvedimenti. Il tutto ricondotto a quei criteri di «non irragionevolezza» e di non sproporzione da seguire, come indica la sentenza n. 250/2017 della Consulta, per il bilanciamento dei principi costituzionali in gioco.
Il Giudice delle leggi, che in materia non manca di richiamare la giurisprudenza della CEDU, trae da questa, nella sentenza n. 250, il principio che la norma che incide su diritti quesiti non è di per sé lesiva, ma tale diviene quando ne deriva un «onere esorbitante». Se ciò accade, è da valutare, per i trattamenti di quiescenza, «se vi sia o non vi sia il sacrificio del diritto fondamentale alla pensione». E da qui – artt. 25 e 21della CDFUE – si è riportati al «diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente», senza discriminazioni, compresa quella fondata sul patrimonio.
Non meno prevedibile del contenzioso che le nuove norme regolanti i vitalizi avrebbero determinato era, in ragione dell’atto fonte adottato, l’inevitabile riaprirsi delle questioni che attengono all’autodichia del Parlamento.
Il che puntualmente avviene con la recente ordinanza n. 18265/2019. In essa, in linea con la sentenza n. 10775/2018, si consolida, in materia di autodichia delle Camere, un indirizzo di “resa” alle “statuizioni” della sentenza n. 262/2017 della Corte costituzionale.
Antefatto di questa pronuncia sono le sentenze n. 154/1985 e n. 120/2014, con le quali, alla luce della riconosciuta autonomia del Parlamento, si affermava l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari e degli atti ad essi equiparati. Diveniva così inammissibile il ricorso incidentale di legittimità costituzionale per tutte le fattispecie che ne costituissero l’oggetto. La 120 suggeriva però un altro rimedio, quello del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, rivendicando la Consulta come proprio compito la tutela del confine che separa il valore dell’autonomia delle Camere da quello della «legalità-giurisdizione».
Sembrava di poter buscar el levante por el poniente e, dunque, la Cassazione sollevava due conflitti di attribuzione, quello nei confronti del Senato in relazione alle norme regolamentari in materia di tutela giurisdizionale dei propri dipendenti. Ma la sentenza n. 262 avrebbe precluso anche questo percorso, traducendosi in un quasi dogmatico atto di fiducia della Corte nell’autodichia del Parlamento. Definita come una forma sostanziale di giurisdizione, di fatto essa è un ircocervo nel quale solo il requisito oggettivo della funzione giudicante ha pieno diritto di cittadinanza. Quanto al requisito soggettivo della presenza del giudice, a scongiurare il configurarsi di una giurisdizione in senso proprio, se ne ribadiva il carattere meramente contingente, da riconoscersi al solo fine di conferire agli organi di autodichia la qualifica di autorità rimettente.
Ma si può affermare, come fa il Giudice delle leggi nella 262, che vi sia garanzia di effettiva tutela? Lo fa dubitare se non altro, non potendosi parlare di una giurisdizione speciale, la preclusione del ricorso al rimedio del co. 7 dell’art. 111 Cost. Inoltre, si può avere la certezza di un giusto processo, di cui è garanzia il primo comma dell’art. 111 Cost, quando aleggia l’ombra dell’immedesimazione organica? O gli organi giudicanti della Camera non sono forse composti di soli deputati? Al Senato, poi, effettiva terzietà e indipendenza devono confrontarsi anche con il rapporto di servizio, da riferire alla presenza, nell’ organo di primo grado, di dipendenti dell’Amministrazione. Concatenando i ragionamenti, è un caso allora che, quanto al rito, che pure ricalca quello civile, non sia contemplata la possibilità di ricusare il giudice?
Ciò nonostante era però inevitabile che, di fronte alla netta presa di posizione della Consulta, prevalesse, in un contesto di «norme di “diritto singolare”», emanazione dell’autonomia del Parlamento, la riaffermazione della competenza degli organi di autodichia. Spetta solo a loro conoscere delle controversie in materia di provvidenze erogate ai parlamentari e agli ex parlamentari. Non vi è dunque difetto assoluto di giurisdizione a fronte dello svolgimento di funzioni sostanzialmente giurisdizionali, essendo inoltre riconosciuta «in linea teorica l’utilizzabilità del regolamento preventivo di giurisdizione.
In tale quadro, cui fa da cornice la presenza di un giudice a quo, garanzia di tutela effettiva dei diritti, la Cassazione non ritiene ammissibile il ricorso «per l’assorbente ragione che non si profila l’eventualità che l’organo di autodichia», per la natura del conflitto, «possa non decidere la controversia e che quindi l’attività già svolta […] possa risultare inutile».
Ad aggirare questo ulteriore bastione posto a presidio dell’autodichia, si intravede però un’altra strada, quella della proposizione diretta del conflitto di attribuzione da parte dei parlamentari. Questo ove si ritenga la materia riservata, se non alla legge, quantomeno all’autonomia dell’intero Parlamento e non di suoi singoli Uffici. Verrebbe così fatta salva la prerogativa del singolo parlamentare ad essere parte, nella sua sfera di autonomia, del processo decisionale attraverso la discussione e l’approvazione di un testo legislativo o di un regolamento maggiore.
Rileva in tal senso che la Consulta abbia assunto di recente – ordinanza n. 17/2019 – una posizione ancor più netta di quella che emerge dalla sua precedente giurisprudenza. Ai parlamentari si riconosce ora, uti singuli, la qualifica di «organi-potere titolari di distinte quote o frazioni di attribuzioni costituzionalmente garantite». Il che apre all’ammissibilità, ove prenda forma una lesione delle loro attribuzioni, del ricorso diretto al Giudice delle leggi.
Infine, affiorando a tratti nella giurisprudenza costituzionale un certo indirizzo che vede il requisito soggettivo del conflitto posto in secondo piano rispetto a quello oggettivo, non appare del tutto infondato pensare che anche per gli ex parlamentari si possa aprire una riflessione intorno ad una loro abilitazione ad adire il sindacato della Consulta.