Violazioni dei diritti d’autore online e legittimità del filtraggio in upload: la Corte di Giustizia si esprime sull’Articolo 17 della Direttiva CDSM
Una tortuosa saga giudiziaria si è conclusa lo scorso 26 aprile 2022 con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) nella causa C-401/19 Repubblica di Polonia contro Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione Europea. Fulcro dell’intera vicenda è la questione della legalità dell’Articolo 17 della Direttiva (UE) 2019/790 (cosiddetta Direttiva CDSM, Copyright in the Digital Single Market), una norma dal potenziale rivoluzionario per quanto riguarda la gestione dei contenuti online. Dopo ferventi dibattiti parlamentari, giudiziari e dottrinali, la CGUE ha dichiarato respinto il ricorso avanzato dalla Polonia, che a pochi mesi dall’adozione della Direttiva denunciò una violazione del diritto fondamentale alla libertà di espressione ed informazione, richiedendo l’annullamento parziale o in toto dell’Articolo 17. Sebbene la sentenza rappresenti un punto di arrivo fondamentale nell’interpretazione di tale norma, si prospettano sviluppi controversi sia nella fase di trasposizione della Direttiva negli ordinamenti nazionali (in alcuni Stati Membri ancora in corso), sia nella sua applicazione nel concreto.
Articolo 17 Direttiva CDSM: di cosa tratta
Sin dagli albori della sua prima versione proposta nel 2016, la Direttiva CDSM ha esternato l’intenzione del legislatore europeo di espandere l’armonizzazione e svecchiare le normative nazionali a tutela del diritto d’autore in UE. L’Articolo 17 guarda in particolare alle piattaforme di condivisione, anche dette piattaforme di hosting, grazie alle quali gli utenti possono autonomamente caricare e rendere accessibili contenuti, talvolta in violazione dei diritti d’autore altrui. Un esempio classico di applicazione della norma è la realtà di YouTube: gli utenti nutrono la piattaforma a suon di upload ed essa si limita ad ospitare i contenuti ed intervenire perlopiù ex post in caso di illeciti.
La regolamentazione di questo tipo di piattaforme ha messo a dura prova le normative nazionali negli ultimi decenni. Sotto l’egida dell’Articolo 14 della Direttiva E-Commerce, gli Stati Membri sono tenuti a concedere un safe harbor alle piattaforme di mero hosting, esentandole da ogni tipo di responsabilità sui contenuti che violano diritti d’autore altrui, purché ignare e non coinvolte in tale violazione (v. Angelopoulos). L’Italia è un esempio eclatante di come tale “favor” nei confronti degli intermediari digitali abbia facilitato la loro espansione sul mercato a tal punto da fare riemergere profili di responsabilità civile nel diritto vivente. La giurisprudenza italiana in merito si contraddistingue, ad esempio, per la consolidata differenziazione tra piattaforme “attive” e “passive”, che guarda nel dettaglio al tipo di attività svolte in merito alla selezione, gestione e commercializzazione dei contenuti degli utenti (v. Englisch/Priora).
L’Articolo 17 della Direttiva CDSM introduce una grande novità a tal proposito, non solo portando uniformità tra le varie interpretazioni nazionali, bensì rovesciando in toto l’approccio normativo. Viene infatti introdotta una responsabilità diretta in capo ai prestatori di servizi di condivisione di contenuti online (OCSSPs, Online Content Sharing Service Providers) rendendoli attori di un vero e proprio atto di comunicazione al pubblico dei contenuti, seppur caricati dai propri utenti. Ciò implica che le piattaforme rientranti in suddetta definizione debbano, in prima battuta, ottenere l’autorizzazione da parte dei titolari dei diritti d’autore per ospitare contenuti sui propri servizi. In mancanza di tale autorizzazione, intermediari quali YouTube rispondono delle violazioni dei diritti altrui avvenute tramite le proprie piattaforme, a meno che abbiano compiuto i massimi sforzi per ottenere debita autorizzazione o, quantomeno, per non rendere accessibili contenuti su cui hanno informazioni necessarie a tal fine e, in ogni caso, purché rimuovano prontamente contenuti segnalati dai titolari dei diritti, impedendone il loro caricamento in futuro sulla piattaforma (cd. notice and stay down).
La tutela della libertà di espressione e l’argomentazione della Polonia
Questa transizione normativa dal concetto di safe harbor ad un regime di responsabilità piena e diretta delle piattaforme per i contenuti condivisi dagli utenti online ha posto in essere numerosi dubbi sin dal suo nascere. Tra questi, la persistente frammentarietà delle culture giuridiche nazionali in merito alla definizione stessa di piattaforme di hosting e al perimetro delle obbligazioni imposte a loro carico. Tale disomogeneità è confermata dalle notevoli differenze già emerse in fase di implementazione nazionale della Direttiva (v. Mezei et al, Husovec/Quintais).
Ciò che ha attirato maggiore attenzione, tuttavia, è la rischiosità dell’Articolo 17 dal punto di vista della salvaguardia dei diritti fondamentali degli utenti di Internet (v. European Copyright Society, Quintais et al, Geiger/Jütte). L’obiettivo del legislatore europeo, come si legge dai Considerando 61 ss. della Direttiva CDSM, è duplice: assicurare adeguata protezione e remunerazione ai titolari dei diritti d’autore e, al contempo, promuovere il libero scambio di informazioni online. In particolare, l’Articolo 17 esplicita che lo scopo della disposizione non è in alcun modo quello di limitare la circolazione di contenuti online che non violano diritti di terzi. L’upload di contenuti autorizzati dai titolari, appartenenti al pubblico dominio o coperti dall’ambito di applicazione di eccezioni e limitazioni al diritto d’autore, quali gli usi per citazione e parodia, devono rimanere leciti e tecnologicamente possibili.
Ed è qui che sorge lo snodo protagonista del caso giudiziario: come rendere tutto ciò realtà? Il testo dell’Articolo 17 è stato criticato per i suoi eccessivi tecnicismi tanto da essere etichettato una disposizione “mostruosa” (v. Dusollier). La prospettiva di difficile attuazione della norma ha portato altresì alla pubblicazione di un documento di orientamento specifico da parte della Commissione Europea, che tuttavia non ha placato il fervente dibattito circa lo “smistamento” richiesto alle piattaforme tra contenuti leciti e contenuti illeciti.
Il ricorso di annullamento avanzato dalla Polonia si basa esattamente su questo punto. Secondo il governo polacco, le condizioni imposte alle piattaforme per sfuggire alla morsa della responsabilità ex Articolo 17 comportano inevitabilmente l’installazione da parte di queste ultime di meccanismi di filtri “censori” capaci di distinguere contenuti leciti (poiché autorizzati o non in violazione di diritti d’autore) da contenuti illeciti (non autorizzati o segnalati dai titolari dei diritti e non coperti da eccezioni). Questi filtri rappresenterebbero un’ingerenza sproporzionata nell’esercizio della libertà di espressione ed informazione degli utenti delle piattaforme, sancita dall’Articolo 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (CDFUE).
La legalità di (alcuni) filtri in upload
La CGUE ha analizzato i profili sollevati dalla Polonia e, in accordo con le conclusioni dell’Avvocato Generale Saugmandsgaard Øe, ha confermato la legalità dell’Articolo 17, non riscontrando un’ingiustificata violazione dell’Articolo 11 CDFUE. Pur ribadendo l’importanza e l’ampia portata del diritto fondamentale alla libertà di espressione e riconoscendo che l’Articolo 17 comporterebbe inevitabilmente l’utilizzo da parte delle piattaforme di filtri automatici in grado di riconoscere e bloccare contenuti illeciti, e quindi una limitazione della libertà di espressione degli utenti, la CGUE rovescia la linea interpretativa polacca reputando tale limitazione legittima. L’argomentazione della Corte si fonda sulla necessità di raggiungere un giusto equilibrio tra diritti fondamentali e, soprattutto, su quella che è la volontà stessa del legislatore europeo, ossia tutelare in maniera più efficace il diritto alla proprietà intellettuale sancito dall’Articolo 17(2) CDFUE.
Tuttavia, individuare nella sentenza un “nuovo safe harbor” per le piattaforme di condivisione contenuti sarebbe un errore. Secondo la Corte, l’installazione di meccanismi di filtraggio automatico dei contenuti in upload può essere giustificata solo quando (i) accompagnata da specifiche misure a tutela dei diritti degli utenti di Internet e (ii) non assimilabile ad un obbligo generale di sorveglianza da parte delle piattaforme. In altre parole, la possibilità di filtrare i contenuti in upload non giustifica qualsiasi tipo di filtraggio.
La CGUE non offre alcuna spiegazione specifica su quali filtri siano ammessi e quali siano ingiustificati. Si limita a ribadire che, come da dettato normativo, gli utilizzi leciti non possono essere ostacolati e, in aggiunta, mette in chiaro che le piattaforme di hosting non possono sostituirsi ai titolari dei diritti nel valutare la liceità degli utilizzi dei propri contenuti. Tali piattaforme devono, infatti, fare pieno affidamento sulle informazioni fornite loro da questi ultimi, in quanto “non possono essere tenut[e] a prevenire il caricamento e la messa a disposizione del pubblico di contenuti la constatazione della cui illeceità richiederebbe, da parte loro, una valutazione autonoma del contenuto alla luce delle informazioni fornite dai titolari di diritti nonché di eventuali eccezioni e limitazioni al diritto d’autore”.
Osservazioni finali
L’eclatante tentativo da parte del governo polacco di fermare una norma in grado di cambiare sostanzialmente il flusso di contenuti creativi online è stato vano. Tuttavia, la sentenza della CGUE si rivela un’occasione proficua per maturare tre considerazioni indicative del processo di modernizzazione del diritto europeo.
La prima è la centralità delle garanzie a tutela dei diritti degli utenti di Internet. L’enfasi riposta in tal senso dalla Corte nell’interpretare l’Articolo 17, in particolare nei suoi paragrafi 7 e 9, è molto significativa. Alla vigilia dell’adozione della Legge sui Servizi Digitali, il tratto distintivo del diritto europeo in merito alla regolamentazione delle piattaforme resta, più radicata che mai, la protezione dei diritti individuali dei loro utenti. Questo solleva profili interessanti anche dal punto di vista comparativo: Stati Membri che sposano o vorranno sposare culture giuridiche votate all’utilizzo più aperto di contenuti creativi, nei limiti permessi dal diritto d’autore europeo, potranno farlo anche nel mondo digitale; così come Stati più orientati a perfezionale la tutela della proprietà intellettuale non troveranno ostacoli normativi in tal senso.
La seconda considerazione guarda alla circolazione di Internet come sistema ordinato a sé stante nell’interpretazione di norme giuridiche europee. Seppur la CGUE voglia scacciare lo spettro della censura giustificando l’utilizzo di solamente alcuni tipi di filtri, la scrematura in entrata di contenuti digitali viene reputata un passaggio inevitabile in quanto prassi consolidata nel mondo online. Ciò rievoca quanto, in un precedente studio, ho ipotizzato essere più di una reciproca influenza, un esempio di interlegalità tra l’ordinamento giuridico europeo e le norme di funzionamento di Internet stesso, che sempre più spesso fanno breccia nella linea interpretativa della CGUE (v. Priora).
L’ultimo aspetto su cui è necessario riflettere è l’eccessiva fiducia nell’applicazione delle norme europee dal punto di vista tecnologico. A conseguenza diretta dell’approccio interlegale al diritto e l’Internet, la CGUE ripone eccessiva fiducia nei meccanismi di filtro e negli algoritmi che li opereranno, senza interrogarsi sui costi e rischi della loro installazione e funzionamento. Si può presumere che nell’immaginario di alcuni giudici della Corte vi fosse un sistema sofisticato ed estremamente oneroso come YouTube ContentID, capace di effettuare il famoso web scraping per identificare contenuti “piratati” o meno manifestamente in violazione di diritti altrui (una distinzione, peraltro, che fu proposta dall’Avvocato Generale, ma non accolta dalla CGUE) e provvisto di una supervisione umana da parte di moderatori di contenuti assunti ad hoc per tale incarico.
Anche a fronte di un immaginario tanto ottimistico, la scelta di delegare la decisione circa la liceità di innumerevoli utilizzi di contenuti digitali ogni giorno ad algoritmi e supervisori umani, per quanto sofisticati nelle proprie competenze, non può ignorare un’accurata analisi dei margini di errore di tale sistema. Come garantire il riconoscimento uniforme e conforme alla legge di una citazione, una parodia, un uso a scopo didattico? Come assicurare che la circolazione delle opere di pubblico dominio non venga rallentata dai sistemi di filtraggio? Come tutelare gli utenti, nell’era del velocissimo Internet, senza dover richiedere loro di compilare un modulo e attendere una risposta dalla piattaforma nel caso i loro diritti fondamentali siano stati violati? In merito a tali quesiti, in maniera decisa seppur sommaria, la Corte rimanda agli Stati Membri, raccomandandosi che Parlamenti e Corti nazionali rimangano memori della nozione di giusto equilibrio che deve guidare le loro trasposizioni ed interpretazioni nel merito.