Verifica sulla sussidiarietà vs. “dialogo politico”: il caso della proposta di regolamento dell’Unione europea sul diritto di iniziativa dei cittadini europei
Se a partire dalla redazione del Trattato costituzionale si è iniziato a discutere sistematicamente di “parlamentarizzazione” degli assetti istituzionali europei (P. Ridola, La parlamentarizzazione degli assetti istituzionali dell’Unione europea fra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, in P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2010, pp. 325-342 ) – sebbene qualche novità fosse già stata introdotta dal Trattato di Maastricht e soprattutto dal Trattato di Amsterdam -, soltanto con il Trattato di Lisbona si può dire che tale “parlamentarizzazione” sia stata davvero messa in pratica.
Per quanto concerne i Parlamenti nazionali, la loro partecipazione alla formazione delle decisioni europee (la c.d. “fase ascendente”), dopo il 1° dicembre 2009, non passa più soltanto per la mediazione del canale governativo. Al controllo e all’indirizzo parlamentare sulle attività dell’Esecutivo in materia europea, che persistono tuttora naturalmente e che giovano, secondo alcuni (E. Cannizzaro, Il ruolo dei parlamenti nazionali nel processo di integrazione europea: in margine ad uno scritto inedito di Leopoldo Elia, in Il diritto dell’Unione europea, 2009, p. 457-477), ad accrescere il grado di legittimazione esterna dei processi decisionali dell’Unione, si aggiunge anche un incremento della legittimazione interna degli stessi, dal momento che i Parlamenti degli Stati membri possono prendere direttamente parte alle diverse procedure di adozione delle decisioni europee, sia a quelle legislative che a quelle di revisione dei Trattati.
La procedura probabilmente più nota, anche per la mole di commenti ricevuti in dottrina (v., ex multis, A. Manzella, I parlamenti nazionali nella vita dell’Unione, in L’Unione europea nel XXI secolo. «Nel dubbio, per l’Europa», a cura di S. Micossi e G.L. Tosato, Bologna, 2008, p. 333-349), consiste nella verifica del rispetto del principio di sussidiarietà da parte dei Parlamenti nazionali. Tale procedura, però, a dispetto dell’attenzione attratta e del rischio talora paventato di blocco delle decisioni europee a causa dei Parlamenti, sul piano pratico produce effetti tutto sommato assai modesti.
Formalmente sono “controllate” dai Parlamenti degli Stati membri solo le proposte legislative rientranti nelle competenze concorrenti dell’Unione (quindi una piccola parte sul totale della produzione legislativa europea) ed entro il termine perentorio di otto settimane, che intercorre tra la trasmissione della proposta alle Camere nazionali da parte della Commissione europea e l’iscrizione della stessa all’ordine del giorno del Consiglio. Inoltre, perché l’attività dei Parlamenti (ognuno titolare di due voti in questa procedura, in modo da assicurare un voto a Camera nei sistemi bicamerali) produca una qualche conseguenza sul piano giuridico, occorre che un terzo dei voti complessivamente loro assegnati sia negativo (ossia 18 su 54!, che si riducono ad un quarto, quindi a 14, se la proposta riguarda la regolazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia). Tale “tentativo” di veto per violazione del principio di sussidiarietà può comunque essere superato dalla Commissione europea, che motivando, può mantenere la proposta così com’è. Anche nell’ipotesi, ancor più difficile da realizzarsi, cioè quella in cui siano negativi la maggioranza dei voti (28 su 54), in ultima istanza, sono il Parlamento europeo (a maggioranza semplice) o il Consiglio (a maggioranza del 55% dei suoi membri) a bloccare definitivamente la proposta.
Anche i dati sul punto parlano chiaro: nonostante il numero di pareri – rectius di voti – sulle proposte legislative europee inviati dai Parlamenti nazionali alle Istituzioni dell’Unione sia in costante crescita, tuttavia nel 2010 dalla Commissione europea sono state trasmesse soltanto 82 proposte legislative ai fini del controllo di sussidiarietà su un totale di oltre 400 proposte legislative presentate (fonti: Pre-lex database, ec.europa.eu/prelex/, e Ipex database, www.ipex.eu). Su tali proposte sono stati inviati complessivamente 211 pareri e soltanto 32 di questi, riguardanti 12 progetti di atti legislativi in tutto, sono stati negativi (v. relazione di P. Ponzano, al seminario di studio su “I Parlamenti nazionali di fronte al Trattato di Lisbona” – Firenze, 14 gennaio 2011 – organizzato nell’ambito del Ciclo di seminari fiorentini promossi dal Presidente del Comitato per la legislazione). Peraltro, la proposta di direttiva concernente l’ingresso e il soggiorno di cittadini di Stati terzi ai fini dell’impiego stagionale (COM(2010)379), con 6 pareri parlamentari negativi su 54 (più altri due voti contrari giunti oltre il termine di otto settimane), è stata la proposta in assoluto più avversata nel 2010. Pertanto, a fronte di un elevato numero di pareri parlamentari, i tentativi di veto risultano essere pochissimi.
Da ciò si evince che, lungi dall’avere una finalità oppositiva rispetto all’assunzione delle decisioni europee, il coinvolgimento dei Parlamenti è diretto piuttosto a garantire loro una tempestiva informazione sulle proposte legislative in itinere e a consentire l’espressione di osservazioni che possono essere utili per una più attenta ponderazione degli interessi in gioco nei processi decisionali europei.
E’ a questo scopo che la Commissione europea, ben prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, da settembre 2006, ha iniziato a trasmettere ai Parlamenti direttamente – in aggiunta a quanto effettuato dai rispettivi Governi – tutti i documenti di consultazione (comunicazioni, libri bianchi, libri verdi ecc.) e le proposte legislative (quindi anche quelle rientranti nella competenza esclusiva dell’Unione e nelle sue attività di sostegno, di coordinamento e di completamento dell’azione degli Stati membri). Non solo. Ha consentito che tale movimento unidirezionale, dall’Unione alle istituzioni nazionali, si trasformasse in un “dialogo politico” (su cui v. D.A. Capuano, Il Senato e l’attuazione del trattato di Lisbona, tra controllo di sussidiarietà e dialogo politico con la Commissione europea, in Amministrazioneincammino.it, 2011) che permane ancora oggi e che si articola, prima, nella formulazione di pareri parlamentari sul merito degli atti presentati dalla Commissione – prima che ogni procedura europea abbia inizio – e, poi, nella risposta fornita dalla stessa Commissione ai rilievi dei Parlamenti.
In base al “dialogo politico” lanciato dalla Commissione e che non trova riscontro nelle norme dei Trattati, i Parlamenti degli Stati membri sono stati messi nelle condizioni di esprimersi anche su una proposta di regolamento di notevole tenore politico, quella sul diritto di iniziativa dei cittadini europei, che altrimenti sarebbe stata loro sottratta in quanto esula dalle competenze concorrenti tra l’Unione e gli Stati (v. in tal senso, la posizione critica espressa dalla 14ª Commissione del Senato, Politiche dell’Unione europea, nella risoluzione approvata il 21 luglio 2010, sulla relazione annuale 2009 sui rapporti tra la Commissione e i Parlamenti nazionali).
Se i Parlamenti avevano già avuto la possibilità di trasmettere i loro rilievi sul libro verde che ha preceduto la proposta di regolamento (ex art. 11, par. 4 TUE), è stato però su quest’ultimo atto che gli effetti virtuosi inintenzionali del “dialogo politico” hanno avuto modo di manifestarsi pienamente. La proposta della Commissione europea (COM(2010)119def.), infatti, è apparsa sin da subito alquanto restrittiva rispetto alle possibilità di esercizio del diritto di iniziativa, per cui il Trattato prevede soltanto la partecipazione di almeno un milione di cittadini europei, provenienti da un numero significativo di Stati membri, e che si esplichi nell’osservanza delle attribuzioni dell’Unione. In questa circostanza, a tutela dei diritti dei cittadini europei, si è creato un fronte comune tra i Parlamenti nazionali e il Parlamento europeo, che è pure coinvolto nel “dialogo politico”, nella misura in cui riceve tutti pareri delle Camere nazionali.
Il Parlamento europeo si era espresso in prima battuta sul tema, il 7 maggio 2009, ancor prima dell’entrata in vigore del nuovo Trattato, mettendo in guardia contro le possibili tentazioni di svuotare di contenuto il diritto di iniziativa dei cittadini, a cui si sarebbe data attuazione mediante regolamento. I Parlamenti degli Stati membri, successivamente, hanno recepito nei loro pareri le indicazioni contenute nella risoluzione del Parlamento europeo, pareri che sono stati trasmessi alle istituzioni europee. Tra esse, l’Assemblea di Strasburgo, nella posizione espressa in prima lettura sull’atto e negli emendamenti proposti (risoluzione legislativa del 15 dicembre 2010, A7-0350/2010, a cui la Commissione deve ancora reagire), ha riportato molte delle osservazioni formulate dalle Assemblee nazionali: ad esempio, quella del Senato italiano (nella risoluzione approvata dalla 1ª Commissione, Affari costituzionali, il 28 aprile 2010, doc. XVIII, n. 27), che chiedeva una riduzione del numero minimo di Stati di provenienza dei cittadini firmatari dell’iniziativa da un terzo (ossia 9) ad un quarto (7); quella della Camera dei deputati italiana (il documento finale approvato dalla XIV Commissione, Politiche dell’Unione europea, il 9 giugno 2010), che proponeva di unificare il momento dell’autorizzazione alla registrazione della proposta da parte della Commissione europea con il vaglio di ammissibilità posto in essere dalla stessa, riducendo così il numero di verifiche a cui deve essere sottoposta l’iniziativa.
Dunque, nonostante la portata limitata delle previsioni dei Trattati sul controllo di sussidiarietà, questo ha avuto il merito di aprire la strada allo strumento, ben più efficace al momento, del “dialogo politico” diretto tra Parlamenti nazionali e le istituzioni europee, Parlamento europeo compreso. Quando una proposta legislativa tocca le sensibilità politiche nazionali, in particolare quando riguarda i diritti, a prescindere dalla natura della competenza dell’Unione e di una possibile sanzione dei Parlamenti, questi ultimi sono interessati a far sentire la propria voce nel sistema democratico dell’Unione.
sono pienamente d’accordo con la valutazione che dà Cristina Fasone sulla funzione “comunicativa” del warning sulla sussidiarietà. Aggiungerei ai tipi di dialogo da lei segnalati che si innestano su questa procedura, anche la possibilità che sulla posizione del “veto” si apra una discussione parlamentare
che possa sollecitare l’opinionie pubblica sui contenuti dei provvedimenti europei, come purtroppo accade assai di rado, specie in Italia. Mi spiego meglio: dubito che le opposizioni ai provvedimenti dell’Unione si baseranno sulla contestazione dei cataloghi competenziali; partiti e parlamenti degli stati si opporranno, semmai, al merito dei provvedimenti, usando lo spazio aperto dal meccanismo del warning sulla sussidiarietà. Questa apparente semplificazione è in realtà benvenuta, se consentirà ai temi della legislazione europea di penetrare nella sfera pubblica delle nazioni.
Mi pare, insomma, da valorizzare questa virtualità comunicativa di un procedimento forse pensato per altri scopi, ma che può produrre effetti benefici in una dimensione imprevista.
L’analisi del dialogo politico e il raffronto con l’esercizio del diritto a inviare un parere motivato è sempre fonte di risultati interessanti, come nel caso del primo “cartellino giallo”, dove camere quali la House of Commons, il Riksdag svedese, la Camera deputati del Lussemburgo, il Senato francese e il Parlamento lettone sono intervenuti per “frenare” la definizione proposta sull’interazione tra l’esercizio di diritti sociali e l’esercizio delle libertà economiche, contestando in particolare l’art.4 (c.d. meccanismo di allerta) mentre il Senato italiano, in controtendenza, inviava parere “favorevole” nell’ambito del dialogo politico. La cooperazione interparlamentare diventa a questo punto, per entrambe le possibilità di partecipazione al processo decisionale europeo, un luogo fondamentale di scambio, coerenza e coordinamento tra le assemblee rappresentative degli Stati membri, senza arrivare all’eccesso, tanto temuto dalla nostra Camera dei Deputati, di un esercizio coordinato e collettivo del diritto a inviare il parere. Il dialogo istituzionale non può che migliorare il processo decisionale, sostenuto però da norme e regolamenti interni agli Stati membri che consentano un esame corretto degli atti europei, con procedure ad hoc e organismi specializzati. Anche in questo caso va citato un timore, espresso dal nostro Senato, riguardo procedure apposite che, secondo appunto il Senato italiano, mostrerebbero un atteggiamento “difensivo e sindacatorio nei confronti dell’azione dell’Unione europea”. Sono dell’opinione che invece il dialogo aperto dalla Commissione, così come la libertà di forma e di contenuto lasciato dalla stessa nella predisposizione dei pareri motivati, possa diventare spinta decisiva per l’istituzione, ove già non presenti, di centri di eccellenza e di idonee procedure interne per l’ esame degli atti europei. Un cordiale ringraziamento a Cristina Fasone.
Marina Brunazzi