Verfassungs-Kultur. A proposito di un recente volume su Peter Häberle
La casa editrice tedesca Nomos ha iniziato a pubblicare, nel 2000, la collana Staatsverständnisse, della quale fanno oggi parte numerosi volumi collettanei dedicati alle figure più rappresentative della storia del pensiero politico e della dottrina costituzionale. Ai pochi contemporanei inclusi nella serie si è aggiunto, qualche mese fa, anche Peter Häberle, la cui opera è stata oggetto del libro curato da Robert Chr. Van Ooyen e Martin M.H. Möllers, Verfassungs-Kultur. Staat, Europa und pluralistische Gesellschaft bei Peter Häberle, Baden-Baden, Nomos, 2016, pp. 209.
Il volume mette in luce i profili più pregnanti degli scritti häberliani, racchiusi in formule che hanno scandito progressivamente la riflessione del costituzionalista: Ausgestaltung der Grundrechte (conformazione dei diritti fondamentali), Leistungsstaat (stato di prestazione), status activus processualis, Öffentlichkeit (spazio pubblico), Verfassung als öffentlicher Prozess (costituzione come processo pubblico), Möglichleitsdenken (pensiero delle possibilità), offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten (società aperta degli interpreti della costituzione), Rechtsvergleichung als fünfter Auslegungsmethode (comparazione come quinto metodo interpretativo), Verfassungslehre als Kulturwissenschaft (dottrina della costituzione come scienza della cultura), Kooperativer Verfassungsstaat (stato costituzionale cooperativo), Europäische Verfassungslehre (dottrina europea della costituzione). Da una lettura complessiva dei diversi contributi raccolti (tra i quali un lungo saggio di cui è co-autore l’attuale presidente del Bundesverfassungsgericht, Andreas Voßkuhle), emerge l’originalità e la profondità di uno studioso che – apparso talora come un provocatore alla Staatsrechtslehre più tradizionale – è ritenuto comunque uno dei più autorevoli esponenti della disciplina e ha goduto di ampio seguito all’estero, soprattutto nella penisola iberica, nei paesi latinoamericani e in Italia (grazie all’impegno per la diffusione del suo pensiero da parte di studiosi come Paolo Ridola, Angel Antonio Cervati e Jörg Luther).
Tre sono i punti che mi sembra importante cogliere di questo libro. Anzitutto le matrici intellettuali dell’opera di Häberle. Questi – è ormai noto – appartiene alla scuola smendiana (su cui si veda per tutti F. Günther), scuola che ha incontrato, nei decenni successivi all’approvazione del Grundgesetz e caratterizzati da una forte ricerca di coesione sociale, condizioni particolarmente favorevoli per il suo sviluppo. Quello che talora si dimentica – soprattutto in Italia – è che la Smend-Schule del dopoguerra non rappresenta una mera replica, con qualche aggiornamento, delle posizioni smendiane degli anni venti, ma una loro rivisitazione critica alla luce del nuovo contesto. Appaiono dunque molto significativi i contributi di Roland Lhotta, Andreas Voßkuhle e Thomas Wischmeyer, nonché l’introduzione di Robert Chr. van Ooyen e Martin H.W. Möllers, e l’intervista rilasciata dallo stesso Häberle a van Ooyen (tradotta in Italia da Astrid Zei per la rivista Nomos), dai quali emergono bensì i profili di continuità con la dottrina smendiana, ma anche i punti di distanza da essa. È chiara, ad esempio, l’influenza di Rudolf Smend su Häberle in merito alla concezione processuale e dinamica della costituzione, al suo continuo rinnovamento, all’incorporazione, da parte delle istituzioni costituzionali, di una cultura materiale che le riempie di senso. Al contempo, però, Häberle stempera alcuni degli aspetti più controversi del pensiero smendiano, come la focalizzazione del processo di integrazione sulla dimensione comunitaria e avvolgente dello stato, aprendo ad una prospettiva societaria e pluralistica con toni spiccatamente repubblicani. Su questo è innegabile l’influenza del razionalismo critico di Karl Popper, della teoria discorsiva di Jürgen Habermas e, ancor prima, dell’approccio conflittuale helleriano, mentre l’influenza delle dottrine pluralistiche statunitensi è piuttosto indiretta e mediata da altri autori della scuola smendiana (come Horst Ehmke) più vicini all’esperienza di Oltreoceano. Rilievi in parte analoghi possono essere fatti per il maestro di Häberle, Konrad Hesse, che si è distinto, tra l’altro, per aver corretto la dottrina smendiana con una maggiore attenzione per il profilo della normatività. Agli autori che maggiormente hanno orientato il pensiero di Häberle si aggiungono Maurice Hauriou ed Erich Kaufmann, entrambi valorizzati fin dalla monografia sui Grundrechte degli anni sessanta (la cui ultima edizione è del 1983).
Questo ci porta al secondo punto, relativo all’intreccio tra concezione della democrazia in una società pluralistica e interpretazione costituzionale, ben espressa dalla formula della “società aperta degli interpreti della costituzione”. Contrariamente a quanto talvolta si afferma, tale idea non è affatto da ricollegare ad una presunta aristocrazia giudiziaria: essa – insieme ad altri concetti strettamente correlati, a cominciare da quello della “costituzione come processo pubblico” – si distingue soprattutto perché sposta la sede dell’interpretazione costituzionale dalla (sola) sfera istituzionale, comprensiva dei giudici, alla società nelle sue complesse trame pluralistiche. Quella formula, lungi dall’invocare armonie prestabilite, può essere letta in un’ottica conflittuale: in tale chiave va inteso anche il Möglichkeitsdenken, che non esprime un coacervo di desideri astratti e disancorati dalla realtà, ma – conformemente al modo di operare della falsificabilità popperiana – l’insieme delle opzioni concretamente possibili, compatibili con le condizioni date ma capaci altresì di innescare miglioramenti graduali. Non è un caso che tale teoria sia stata elaborata in seguito ai movimenti studenteschi e ai fermenti della fine degli anni sessanta, quando più incisiva è stata la spinta alla democratizzazione della società tedesca, né che essa sia stata avvicinata, più recentemente, alle teorie statunitensi del popular constitutionalism e del neo-repubblicanesimo (Lhotta, nel volume). A posteriori – e a riprova dei tratti tutt’altro che aristocratici del suo pensiero, volto invece a spezzare il monopolio dei giuristi sull’interpretazione della costituzione (Michael Stolleis) –, Häberle ha riconosciuto che la prospettiva della “società aperta degli interpreti della costituzione” presenta legami non troppo sotterranei con il protestantesimo e, in particolare, con il tema luterano del “sacerdozio di tutti i credenti”. Un altro presupposto della teoria häberliana va rinvenuto nei diritti fondamentali, ed in particolare nel diffuso esercizio di essi da parte dei cittadini nello spazio pubblico, tale da dare vita ad una Bürgerdemokratie. Questa concezione della democrazia, fatta propria dal Bundesverfassungsgericht nel Brokdorf-Beschluss del 1985 (van Ooyen, nel volume), è stata poi radicata da Häberle nel principio di dignità umana. Anche tale profilo è stato recepito dal BVerfG nella giurisprudenza più recente sui rapporti con l’Unione europea. Più problematico è semmai – come mostrano proprio le ultime pronunce del BVerfG – il collegamento tra il fondamento del principio democratico nella Menschenwürde e il suo sviluppo pratico e istituzionale, che il Tribunale costituzionale continua a ravvisare pressoché esclusivamente nei meccanismi della rappresentanza politica nazionale.
Vengo ora al terzo punto, che riguarda l’approccio culturale alla dottrina della costituzione. La concezione della Kultur nel pensiero häberliano, che ha radici nella riflessione tedesca sul Kulturstaat ed ha assimilato la lezione metodologica helleriana della Staatslehre als Kulturwissenschaft, può essere avvicinata allo spirito oggettivo di Hegel o alle normatività oggettive dei valori di Smend (Lhotta, nel volume), ma assume – alla luce di quanto detto fin qui – tratti spiccatamente pluralistici e diverse sfumature semantiche. Una cultura costituzionale, che è anzitutto l’insieme degli atteggiamenti, dei modi di pensare, dei comportamenti dei cittadini verso la costituzione, diviene il terreno sul quale la costituzione poggia la propria legittimazione e conserva la propria effettività (H. Vorländer, nel volume). Ma la cultura (o meglio, le culture) sono anche un antidoto alle derive della Ökonomisierung, frutto dei processi di globalizzazione dei mercati e delle connesse dottrine neoliberali. Se Häberle non può considerarsi un seguace del materialismo storico come Wolfgang Abendroth, sarebbe altrettanto errato annoverarlo tra chi asseconda acriticamente le tendenze economiche oggi dominanti: basta considerare – accanto alle critiche alla Ökonomisierung appena menzionate – la sua riflessione sui diritti fondamentali, nella quale ha trovato spazio una delle prime e più esaustive teorie della dimensione sociale dei Grundrechte (M.H. Möllers, nel volume). In una prospettiva che si proietta al di là dei confini statali, l’apertura all’esterno rimane la chiave per costruire gradualmente una “comunità costituzionale” europea, da parte di una pluralità di stati costituzionali che si qualificano come “cooperativi” (sull’influenza di questo approcio in Brasile v. M.A. Maliska, nel volume). In un’ottica comparativa, inoltre, il concetto di cultura (o, ancora, di culture) assume implicazioni di grande portata, perché capace di dare ragione, insieme all’analisi per livelli testuali (Textstufenvergleich), del diverso modo di operare di principi costituzionali analoghi in contesti culturali storicamente e geograficamente differenti.
L’assunto del radicamento delle costituzioni in un’ampia sfera sociale e culturale appare oggi più largamente condiviso dalla dottrina tedesca (v. Voßkuhle e Wischmeyer, nel volume) ed anche da studiosi stranieri, soprattutto nell’ambito del diritto comparato (tra i molti, si vedano Ridola, Günter Frankenberg, Pierre Legrand, Patrick Glenn, David Nelken e Roger Cotterrell). Qualche profilo di problematicità può individuarsi nei lavori sui simboli costituzionali, laddove Häberle sembra talora mettere in secondo piano la complessità e l’ambivalenza del loro significato, che si muove nell’ambito di reti polisemiche diffuse e molto articolate (Rainer Schmidt, nel volume). Ma egli giustamente sottolinea l’importanza dei simboli ai fini della sedimentazione di un’etica e di un’estetica repubblicana, e ad essi aggiunge gli obiettivi educativi (Erziehungsziele), ricomprendendoli tutti come condizioni primarie per la creazione di una base discorsiva e di una coesione della comunità politica. In questo senso, il suo approccio si contrappone consapevolmente al famoso detto di Böckenförde, secondo cui lo stato vive di presupposti che esso, da solo, non può garantire. C’è chiaramente, nell’opera scientifica di Häberle, nella sua lunga attività di docente e di curatore dello Jahrbuch des öffentlichen Rechts, un forte impegno pedagogico. Questo – come tutta la sua opera – si regge su un’immagine dell’uomo “moderatamente ottimista”, efficacemente tratteggiata in un intervento al convegno dei costituzionalisti tedeschi del 1972, che merita di essere riportato per esteso: “Quando si è un po’ più ottimisti rispetto alla realtà osservata dall’esterno, si può far diventare questa realtà un po’ migliore di quanto essa sia … Quando [invece] si vede la realtà solo come essa appare, la si rende peggiore di quella che potrebbe essere. Con ciò, si omette di cogliere un compito specifico della normatività” (l’intervento è riportato anche da Voßkuhle e Wischmeyer, nel volume). Affermazioni siffatte consentono di ridimensionare le critiche di chi affrettatamente contesta ad Häberle di confondere la sfera fattuale con quella normativa (e viceversa), avendo invece egli dimostrato in maniera convincente come il rapporto tra l’una e l’altra debba essere inteso alla luce di in una dialettica continua e riflessiva che le alimenta reciprocamente.