Vaccinazioni contro il Covid-19: obbligo e nuove forme di obiezione di coscienza?
1.Il decreto-legge n. 44 del primo aprile 2021 introduce una serie di misure per la gestione della situazione pandemica. Tra i punti di maggiore interesse si segnalano la previsione che limita la responsabilità penale del personale incaricato della somministrazione dei vaccini contro il Covid-19 in caso di omicidio e lesioni personali colpose (art. 3) e la regolamentazione tesa a garantire l’assolvimento dell’obbligo vaccinale per “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali” (art. 4).
L’introduzione dell’obbligo, il cui adempimento costituisce “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati” (con sanzioni in caso di inottemperanza, come l’assegnazione a mansioni differenti o la sospensione dalla retribuzione), consente di tornare a riflettere su profili di più ampio respiro, come la stessa scelta di adottare la tecnica dell’obbligo o della raccomandazione; l’individuazione delle categorie di destinatari della vaccinazione obbligatoria o solo raccomandata; le ricadute economiche connesse al diritto di indennizzo in caso di menomazioni permanenti all’integrità fisica o psichica, previsto in generale per le vaccinazioni obbligatorie dalla legge n. 210/1992 e solo per alcune vaccinazioni raccomandate dalla Corte costituzionale; il possibile riconoscimento di un “diritto di obiezione di coscienza” sia per gli operatori medici e sanitari che rifiutino di vaccinare sé stessi e anche gli altri sia per i destinatari di un eventuale obbligo di vaccinazione, in assenza di ragioni che ne giustifichino (o meglio ne impongano) la mancata somministrazione; infine, e più in generale, il rapporto fra acquisizioni tecniche e sperimentali, attività legislativa e “diritto” a una corretta e completa informazione scientifica.
2.In ordine alla scelta di imporre o raccomandare la vaccinazione contro il Covid-19, si deve ricordare che la Corte costituzionale è ferma nel ritenere che, se pure le due tecniche “possono essere sia il frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra individuo e autorità sanitarie pubbliche, sia il risultato di diverse condizioni sanitarie della popolazione di riferimento”, entrambe perseguono l’obiettivo comune ed essenziale nella profilassi delle malattie infettive che consiste nella tutela della salute non solo individuale, ma anche collettiva, “attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale” (C. cost., sent. n. 268/2017, sulla quale si rinvia per più ampie considerazioni, volendo, a B. Liberali, “Vaccinazioni obbligatorie e raccomandate tra scienza, diritto e sindacato costituzionale”, in BioLaw Journal, 2019, III, 115 ss.).
La differenza fra obbligo e raccomandazione (relativa alla libertà di autodeterminazione) sfuma, in particolare, laddove venga in rilievo l’esigenza di garantire anche a chi si è sottoposto a una vaccinazione raccomandata il diritto all’indennizzo di cui alla citata legge n. 210. Dato il comune obiettivo di giungere alla più ampia immunizzazione collettiva, infatti, “non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione: l’obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione. I diversi attori (autorità pubbliche e individui) finiscono per realizzare l’obiettivo della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia indipendentemente dall’esistenza di una loro specifica volontà di collaborare: «e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito»” (C. cost., sent. n. 268/2017).
Tale conclusione, peraltro, è stata ribadita anche in relazione all’introduzione dell’obbligo di vaccinazione per i minori di 16 anni con il decreto-legge n. 73/2017: “nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici”; infatti, in ambito medico “raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo” (C. cost., sent. n. 5/2018, su cui si veda C. Salazar, “La Corte costituzionale immunizza l’obbligatorietà dei vaccini”, in Quad. cost., 2018, II, 465 ss.).
In relazione alla vaccinazione contro il Covid-19 – o, meglio, alle diverse tipologie di vaccinazione, che determinano una serie di problematicità in relazione alla stessa individuazione delle categorie di soggetti che ne possono essere destinatari – è stata avviata una campagna di somministrazione fondata sulla volontaria adesione dei singoli, sulla base di mutevoli ordini di priorità.
Con il decreto-legge n. 44, invece, anche a fronte di una prassi applicativa che restituisce i numeri della mancata adesione alla vaccinazione da parte del personale medico e sanitario (ma non anche, a quanto consta, di forme di “obiezione di coscienza alla somministrazione”), si è deciso di introdurre un vero e proprio obbligo.
Considerata la portata dell’emergenza sanitaria e il grado di diffusività del contagio, tale cambio di paradigma limitato a questi lavoratori non sembra irragionevole, se si considerano le specifiche mansioni svolte e le condizioni di fragilità dei pazienti. Resta fermo che, affinché un trattamento sanitario obbligatorio sia conforme all’art. 32 Cost., esso debba essere “diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche quello degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione dell’autodeterminazione del singolo” (C. cost., sent. n. 268/2017). I destinatari dell’obbligo, quindi, non potranno (anzi non dovranno) essere vaccinati, laddove presentino ostative condizioni di salute (come stabilisce lo stesso decreto-legge n. 44, prevedendo l’individuazione di “mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio”, oltre che l’adozione delle “misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza”).
Anche rispetto al ricorso alla decretazione d’urgenza non paiono potersi delineare profili problematici, sempre considerando la giurisprudenza costituzionale che in relazione al decreto-legge n. 73/2017, adottato in un contesto ben diverso dall’attuale situazione pandemica, ha ritenuto decisivo l’accertamento di “una copertura vaccinale insoddisfacente nel presente e incline alla criticità nel futuro”, che legittima un ampio margine di discrezionalità e responsabilità politica circa l’apprezzamento della “sopraggiunta urgenza di intervenire […], anche in nome del principio di precauzione che deve presidiare un ambito così delicato per la salute di ogni cittadino come è quello della prevenzione” (C. cost., sent. n. 5/2018).
Se in quella occasione il passaggio dalla raccomandazione all’obbligo è stato giustificato valorizzando la caratteristica dell’obiettivo di massima copertura vaccinale, da intendersi “strumento di prevenzione”, che richiede di essere messo in opera “indipendentemente da una crisi epidemica in atto” – con ciò giustificandosi la scelta di “intervenire prima che si verifichino scenari di allarme e decidere […] di non attendere oltre nel fronteggiarla con misure straordinarie” – (C. cost., sent. n. 5/2018), considerando ancora una volta le caratteristiche epidemiologiche sia quantitative sia qualitative dell’attuale pandemia non sembra che un’eventuale questione di legittimità costituzionale possa essere accolta.
Alla medesima conclusione pare potersi pervenire anche considerando l’impatto economico della scelta di rendere obbligatoria la vaccinazione per la sola categoria del personale medico e sanitario, in relazione al riconoscimento del diritto all’indennizzo. Ancora una volta richiamando la giurisprudenza costituzionale (pure resa in relazione alla sua estensione ad alcune vaccinazioni solo raccomandate) si coglie chiaramente quale sia la ratio sottesa a simile previsione, che coniuga inscindibilmente la somministrazione obbligatoria e l’insorgenza di una menomazione (indipendentemente dalla responsabilità colposa) all’inderogabile dovere di solidarietà che grava sull’intera collettività, che trae beneficio dalla vaccinazione dei singoli. Proprio in questo vincolo che unisce l’individuo alla collettività si ritrova il fondamento dello stesso indennizzo e non nel mero carattere obbligatorio del trattamento.
3.Le ragioni che hanno condotto all’introduzione dell’obbligo si ritrovano nella rilevata mancata adesione alla campagna di vaccinazione su base volontaria che individua come prioritaria, fra le altre, la categoria del personale medico e sanitario e nelle conseguenze che in termini di contagio si sono registrate nelle relative strutture.
Come si è sottolineato, la differenza fra obbligo e raccomandazione risiede nella diversa impostazione che l’ordinamento sceglie di adottare con riguardo alla maggior o minor valorizzazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, pur sempre avendo quale obiettivo la tutela della salute individuale e collettiva.
Con specifico riferimento al personale medico e sanitario, però, emerge un ulteriore profilo di criticità che attiene alle conseguenze che si possono determinare sul rapporto di lavoro con la struttura socio-sanitaria e assistenziale.
A questo proposito, si può richiamare il succinto provvedimento del Tribunale di Belluno del 19 marzo 2021 che, rispetto al ricorso presentato da alcuni dipendenti in servizio presso una residenza sanitaria per anziani che avevano rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione (allora) solo raccomandata, ha richiamato gli obblighi di sicurezza che, nei loro confronti, gravano sul datore di lavoro (art. 2087 c.c.), per rigettare il ricorso, ritenendo corretta la misura adottata da quest’ultimo, ossia l’applicazione delle ferie forzate, ma comunque retribuite. In particolare, non si è rilevato il rischio concreto di un licenziamento né di una sospensione retributiva.
Ecco che il decreto-legge correda l’obbligo di vaccinazione con un insieme di sanzioni che prevedono innanzitutto “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”. In questo caso, “il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, […] con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio”. Laddove tale assegnazione non sia possibile, si procede alla sospensione dal servizio, in relazione al quale “non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato”.
Se è pur vero che l’obbligo di vaccinazione comprime la sfera di libertà nelle scelte terapeutiche, si deve rilevare che il provvedimento governativo garantisce pur sempre al personale medico e sanitario (che non si affida, evidentemente, alle risultanze scientifiche e sperimentali connesse alle vaccinazioni, pur prestando servizio in strutture sanitarie e ospedaliere) di sottrarsi al suo adempimento, non configurandosi un’esecuzione coattiva.
Certamente, in considerazione del bilanciamento dei diritti fondamentali che vengono in rilievo e dei doveri inderogabili di solidarietà individuali e collettivi, a tale condotta libera e lecita fanno seguito una serie di conseguenze sul piano del rapporto di lavoro, che dovrebbero arginare quelle che potremmo definire “obiezioni di coscienza di comodo” e far emergere i convincimenti personali di coloro che, pur avendo scelto altrettanto liberamente la professione sanitaria, mostrano di non confidare nella sperimentazione e negli studi scientifici.
Da un’altra prospettiva, invece, la previsione della modifica di mansioni potrebbe essa stessa depotenziare l’obbligo di vaccinazione, così come – anche se in misura inferiore – la sospensione retributiva, laddove il rifiuto di vaccinarsi comporti l’allontanamento dalle attività di reparto, comprese, in alcuni casi, proprio le attività di somministrazione del vaccino.
Come è stato sottolineato, peraltro, il datore di lavoro in generale conserva(va) pur sempre (anche quando non vi era alcun obbligo di vaccinazione) la possibilità di verificare la “proficua utilizzazione dell’attività lavorativa del dipendente”: verifica da effettuare “non in astratto, ma in concreto con riferimento allo specifico ambito […] nel quale opera il dipendente non vaccinato, tenendo anche conto della compresenza di altri lavoratori vaccinati e non (cosa possibile in quanto la campagna di vaccinazione procede per fasi successive, anche collegate all’età, con la conseguenza inevitabile che in azienda potranno operare lavoratori vaccinati ed altri in attesa di vaccinazione) oppure degli eventuali contatti che il lavoratore deve intrattenere per motivi di servizio con soggetti terzi (utenti/clienti)” (A. Maresca, “La vaccinazione volontaria anti Covid nel rapporto di lavoro”, in Federalismi, 2021, VIII, xiv).
Le conseguenze previste dal decreto-legge n. 44 non possono, per questi motivi, considerarsi discriminatorie o irragionevoli e neppure, come si è cercato di mostrare, del tutto efficaci rispetto all’obiettivo di garantire l’adempimento dell’obbligo vaccinale. L’obbligo vaccinale, infatti, è superabile e solo la libera scelta di non vaccinarsi determina la conseguente modifica delle mansioni o la sospensione retributiva, che in ogni caso non può protrarsi oltre la conclusione della campagna di vaccinazione nazionale o comunque il 31 dicembre 2021.
4.In ragione delle complesse problematiche sottese alle scelte individuali del personale medico e sanitario, in rapporto alla tutela dei diritti alla salute e al lavoro, oltre che alla libertà di coscienza, è significativo richiamare i bandi di concorso – adottati dopo le due decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali rese nei casi IPPFEN (2014) e CGIL c. Italia (2016) che hanno accertato la violazione del principio di uguaglianza, del diritto alla salute delle donne e dei diritti lavorativi dei medici non obiettori di coscienza – con cui alcuni ospedali hanno dato applicazione all’art. 9 della legge n. 194/1978 che impone specifici oneri organizzativi per garantire, nonostante l’esercizio del diritto di obiezione di coscienza, l’accesso al trattamento interruttivo di gravidanza. Con essi si è assunto personale non obiettore di coscienza, che intendesse offrire le prestazioni liberamente e lecitamente rifiutate dai medici obiettori di coscienza: nessun profilo di discriminazione, dunque, considerando che l’esclusione dai bandi è la diretta conseguenza del libero esercizio del diritto di obiezione di coscienza.
Allo stesso modo sono altrettanto significative le due decisioni gemelle della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rese nei casi Grimmark e Steen c. Svezia (2020), secondo cui non vi è alcuna violazione dei diritti di libertà religiosa e di coscienza di due ostetriche che avevano espresso la loro contrarietà alle prestazioni interruttive di gravidanza e per questo non erano state assunte in via definitiva dalle strutture presso cui lavoravano, tenendo conto che l’ordinamento svedese impone la garanzia di quel trattamento sanitario.
Sarà la concreta prassi applicativa a mostrare l’efficacia dell’obbligo vaccinale contro il Covid-19, in relazione al numero di casi in cui il personale sanitario intenderà rifiutare di adempiervi e alle conseguenti modalità di gestione e organizzazione degli ospedali e delle Regioni.
Tenendo ben presenti le problematiche sottese alla perdurante inadeguata applicazione della legge n. 194 (ribadita dal Comitato Europeo nel Follow-up to decisions on the merits of collective complaints. Findings 2020) e anche quelle che potrebbero emergere dal monitoraggio dell’effettiva attuazione della legge n. 219 del 2017 in materia di fine vita, infatti, non sono da sottovalutare le conseguenze pratiche derivanti dal mancato adempimento dell’obbligo di vaccinazione, che ricadono sulla stessa organizzazione dei reparti e sulla garanzia di servizi pubblici essenziali sia nel caso in cui il personale “obiettore” venga adibito a mansioni che non comportano il contatto con i pazienti, sia nel caso in cui venga disposta la sospensione dalla retribuzione.
Inoltre, non si può escludere un ulteriore rischio (che finora non pare essere emerso) connesso a una nuova forma di obiezione di coscienza al vaccino, ossia quella del rifiuto di procedere alla sua somministrazione ai terzi. Laddove il personale medico e sanitario, infatti, rifiuti di sottoporsi a vaccinazione perché ne revoca in dubbio il grado di affidabilità, non è inimmaginabile che questa convinzione li conduca a rifiutare questo tipo di prestazione: trattandosi però di personale che non intende vaccinarsi, queste risorse non potrebbero in ogni caso essere adibite a simile attività, poiché si applicherebbero le sanzioni previste dal decreto-legge relative all’allontanamento dal contatto con i pazienti e alla sospensione retributiva (e in questo, allora, potrebbe intravvedersi quella che può definirsi una “obiezione di comodo”, posta in essere proprio al fine di sottrarsi all’espletamento di quelle specifiche mansioni connesse anche alla vaccinazione).