Va bene in territorio “straniero”…ma non troppo! Un “flash” sul “non-voto” per le elezioni politiche di un cittadino britannico residente all’estero per più di quindici anni

Il filone giurisprudenziale sul “voto estero” della Corte EDU si arricchisce di un nuovo tassello: così, dopo la decisione resa, il 15 marzo 2012, con riguardo al “voto estero greco” (v. il caso Sitaropoulos e Giakoumopoulos), lo scorso 7 maggio la Corte ha portato la propria attenzione sul “voto estero britannico” (v. il caso Shindler)[1].

All’origine di questa seconda pronuncia vi è stato il ricorso contro il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord da parte di un cittadino britannico residente all’estero – si noti: in Italia (!) –, che si è visto impossibilitato a votare in occasione delle elezioni politiche (del 5 maggio 2010) in quanto la normativa inglese consente di votare solo ai cittadini che non risultino “residenti all’estero” per più di quindici anni (v., in partic. la sez. 1 del “Representation of the People Act 1985”, come succ. modif.).

La Corte, dopo aver richiamato la propria giurisprudenza sull’art. 3 del Prot. 1 (v.la in M. Cartabia, Dieci casi sui diritti in Europa, p. 239 e ss.), tiene a rilevare come sarebbe stato comunque possibile per il ricorrente “conservare” il suffragio se nel lasso di tempo previsto – considerato dalla stessa non «disproportionate» (§ 116) – egli fosse tornato in patria ed avesse esercitato un tale diritto. Inoltre, rileva l’equilibrio tra i diversi  contrapposti interessi in gioco perseguito dalla normativa, ovverosia, tra «the genuine interest of the applicant, as a British citizen, to participate in parliamentary elections in his country of origin and the chosen legislative policy of respondent State to confine the parliamentary franchise to those citizens with a close connection with the United Kingdom and who would therefore be most directly affected by its laws» (§ 118). Ancora, la Corte sottolinea che «there is no common approach as to the extent of States’ obligations to enable non-residents to exercise the right to vote […] It therefore cannot be said that the laws and practices of member States have reached the stage where a common approach or consensus in favour of recognising an unlimited right to vote for non-residents can be identified» e, pertanto «Although the matter may need to be kept under review in so far as attitudes in European democratic society evolve, the margin of appreciation enjoyed by the State in this area still remains a wide one» (§115).

E’ stato, quindi, proprio tenendo conto del margine di apprezzamento a disposizione del legislatore nazionale (v. il §118) e della legittimità dello scopo perseguito dal legislatore che la Corte EDU ha reputato che, nel caso di specie, non vi fosse stata alcuna violazione dell’art. 3 del Protocollo 1 alla Convenzione.

Certo, fa riflettere che, ancora, la residenza in uno Stato dell’UE venga considerata “in territorio estero”, rendendo tangibile, ci pare, la lunghezza della strada che ancora c’è da percorrere sul delicato terreno dei diritti politici nel Consiglio d’Europa. Per diverso profilo, ci si domanda se, in questo caso, non si sarebbero potute avere maggiori chances di successo davanti ai giudici di Lussemburgo, invece che a Strasburgo, considerato, se non altro, che, una previsione di siffatto genere può essere reputata di “ostacolo” alla libera circolazione dei cittadini europei (e, ancora più ampiamente, alla realizzazione – dell’erigendo? – spazio politico eurounitario).

[1]V. Corte europea dei diritti dell’uomo, Quarta Sezione, 7 maggio 2013, ric. n. 19840/09, Case of Shindler v. the United Kingdom – non violazione dell’art. 3 del Protocollo 1 della Cedu (diritto a libere elezioni).