Uso e valore del precedente CEDU nella giurisprudenza costituzionale e comune posteriore alla svolta del 2007*

«Il precedente è come una madre ebrea. Non sei tenuto a fare ciò che ti dice, ma ti fa sentire terribilmente in colpa se non lo fai». L’aforisma, che non è di Woody Allen ma di un giudice inglese (S. Sedley), vale a restituirci la distanza che corre tra la cultura del Common Law e la cultura del Civil Law, così da metterci in guardia da troppo facili trasposizioni di istituti così peculiari come il precedente, nella sua versione autentica. Tuttavia, con le dovute accortezze, è stato affermato che è sul metodo del precedente che si incentra l’attività dei giudici di Strasburgo in camera di consiglio, posto che solo in assenza di alcun precedente utile essi procederebbero «alla ricerca del senso da assegnare alle disposizioni della Convenzione con gli ordinari metodi interpretativi» (V. Zagrebelsky).


È vero, da un lato, che nella CEDU manca il vincolo formale dello stare decisis; che spesso rationes decidendi ed obiter dicta si confondono nella giurisprudenza di Strasburgo; che l’assenza del certiorari non permette alla Corte di concentrarsi su pochi casi, dotati di vera autorità, ecc. Da un altro lato, però, vi è un aspetto del metodo del precedente intrinseco alla CEDU e alla sua giurisprudenza, il quale ha la possibilità di affermarsi e diffondersi anche all’interno delle prassi giudiziarie nazionali, comprese quelle dei giudici italiani. Si tratta di una peculiarità che distingue il giudice CEDU dai giudici costituzionali (e/o dalle supreme magistrature) nazionali relativamente alla tutela dei diritti fondamentali e che consiste principalmente nell’ancorare il dictum di una sentenza alla particolare fisionomia dei fatti di causa, che è il cuore della distinzione tra precedente secondo la tradizione del Common Law, e precedente in senso debole, secondo tradizione di Civil Law (M. Taruffo).La giurisprudenza CEDU ha ormai assunto una natura “costituzionale”, per oggetto e forza, ma non è ancorata solo o prevalentemente al confronto tra norme astratte. Il che fa la differenza con la giustizia costituzionale italiana. Diverso, forse, e più avvicinabile a quello della Corte EDU appare il ruolo delle corti costituzionali dotate di un ricorso diretto, come quella tedesca o spagnola (V. Zagrebelsky).Rispetto a questo profilo “fattuale” della giurisprudenza di Strasburgo, vi sono buone speranze che dalla prassi dei giudici europei si diffonda una cultura del precedente anche tra i giudici nazionali, se non altro perché nella CEDU non esistono quei massimari ufficiali che tanto distinguono l’ordinamento italiano, impedendo alla Cassazione di fornire autentici precedenti (M. Taruffo). A differenza della giurisprudenza della nostra Cassazione, la sola possibilità di evitare la lettura integrale di un caso della Corte EDU è quella di leggersi il c.d. comunicato stampa, il quale, tuttavia, non contiene delle massime di giudizio, ma riassume l’intera causa, partendo proprio dai fatti che hanno originato il ricorso. Oltre a tale comunicato, il noto database Hudoc contiene la “Notice”, ove accanto agli estremi della causa si rinviene la lista dei precedenti citati nella sentenza. A supportare ulteriormente l’efficacia della giurisprudenza CEDU, colta come “precedente”, stanno poi indicatori quali la provenienza della decisione dalla Grande Camera, ovvero l’unanimità e l’assenza di dissenting opinions.

 Se si guarda al rapporto tra Corte EDU e giudici italiani (Corte costituzionale compresa), possiamo rilevare che due sono le strade che conducono alla stessa meta della diffusione del metodo del precedente come giudizio legato ai fatti: 1) il precedente come motore di effettività della tutela; 2) la tecnica del distinguishing tipica del metodo del precedente nel Common Law, utilizzata dai nostri giudici costituzionali e comuni quale “tecnica di alleggerimento” della presa di Strasburgo sull’ordinamento italiano.
Quanto al precedente come tecnica di effettività della tutela, si ponga mente alla c.d. “delega di bilanciamento” al giudice del caso, ossia a una tecnica nota al nostro ordinamento e coniata dalla nostra Corte costituzionale già da molto tempo (R. Bin). Tale tecnica di tutela dei diritti trova nella CEDU una sorta di esaltazione, nella misura in cui la giurisprudenza CEDU, a differenza di quella della Corte costituzionale, non fissa solo una regola astratta sulla competenza a bilanciare certi beni, per poi lasciare ai giudici il difficile compito di giungere a prevedibili standard di giudizio che riducano l’incertezza degli esiti di simili bilanciamenti. La Corte EDU, oltre a enunciare l’obbligo di riservare al giudice del caso il bilanciamento, svolge essa stessa il bilanciamento nel caso sottopostole, giungendo eventualmente fino alla “condanna” dello Stato convenuto. Ne deriva un connubio tra valorizzazione del giudice nazionale e del precedente CEDU: tanto più quest’ultimo sarà autorevole (in termini di chiarezza e univocità), tanto più il giudice nazionale lo userà come faro nelle sue operazioni di bilanciamento. Non va dimenticato che la più nota tra le decisioni che inaugurarono la diretta applicabilità della CEDU in Italia (Cassazione, Medrano, del 1993) rappresentava proprio un bilanciamento in concreto, operato in ossequio al test fornito dalla giurisprudenza di Strasburgo, la quale imponeva di confrontare l’importanza dei legami familiari intessuti dallo straniero da espellere con la gravità del reato commesso dallo straniero stesso.
Si pensi poi a quelle decisioni interpretative di rigetto “di principio” volte a delegare ai giudici delle complesse interpretazioni adeguatrici della carente disciplina vigente in certi settori, ove più ardua appare la tutela dei diritti fondamentali (cfr., ad es., C. cost. n. 526/00, in materia di perquisizioni in carcere, nonché C. cost. n. 252/2001, in materia di diritto dello straniero a non essere espulso per cure indifferibili e urgenti). In simili casi la nostra Corte costituzionale non ha nessuna garanzia circa l’effettività della propria decisione; diversamente, laddove simili interpretazioni adeguatrici fossero contenute in un precedente CEDU, alla Corte di Strasburgo potrebbe sempre offrirsi la possibilità di tornare a pronunciarsi su vicende analoghe e di verificare che la prassi interna si sia conformata al suo dictum, assieme con la possibilità di condannare il nostro Stato. I giudici nazionali, ma la stessa p.a., agirebbero allora nella consapevolezza di poter essere sconfessati dalla Corte EDU nelle modalità “solenni” della responsabilità internazionale del proprio Stato.
Oltre a ciò, va osservato che i test forniti da Strasburgo presentano spesso elementi di concretezza difficilmente rintracciabili nella giurisprudenza costituzionale. Si pensi alla vicenda delle espulsioni (o estradizioni) di stranieri verso paesi in cui si dia un alto rischio che gli stessi soggetti espulsi (o estradati) subiscano torture o trattamenti disumani e degradanti, vietati dall’art. 3 CEDU, e al seguito che ha avuto la condanna dell’Italia nel caso Saadi, del 2008, relativa a un’espulsione verso la Tunisia (cfr. Cass. pen., n. 20514/2010, che impone di sospendere l’esecuzione delle espulsioni verso la Tunisia laddove persistano le condizioni fattuali verificate e stigmatizzate dalla Corte EDU). Abbiamo a che fare con una vicenda difficilmente attingibile dal sindacato della nostra Corte costituzionale. Altrettanto difficilmente la nostra Corte avrebbe potuto fornire ai giudici elementi di un test di verifica così stringenti come quelli per cui, al fine di valutare il rischio per l’estradando, debbono ritenersi fonti di prova anche i rapporti di Amnesty International, posto che così ha già fatto la Corte EDU (Cass. pen. n. 32685/2010). Si pensi, infine, alla vicenda del sovraffollamento carcerario in Italia, ove il dato fattuale del superamento di una determinata soglia spaziale a disposizione del recluso nella cella, dopo aver condotto la Corte EDU a condannare il nostro Paese (caso Sulejmanovic, del 2009), è rimbalzato – grazie a tale precedente CEDU – nella decisione con cui un magistrato di sorveglianza ha condannato, per la prima volta, l’amministrazione carceraria a risarcire il danno non patrimoniale subito dal carcerato costretto a vivere in condizioni “sotto-soglia” (Magistrato di sorveglianza di Lecce, ord. del 9 giugno 2011).

Veniamo alla seconda strada che conduce alla valorizzazione del precedente CEDU: la tecnica del distinguishing, da più parti considerata come la via più opportuna per stemperare le rigidità della “dottrina” coniata dalla Corte costituzionale nelle sentt. nn. 348 e 349 del 2007 (E. Lamarque). Già prima di tali sentenze, la Cassazione aveva tentato una simile via di fuga nella vicenda delle espropriazioni c.d. “indirette” (c.d. “accessione invertita”), senza riuscire a placare la serie di condanne di Strasburgo. V’è poi la nota vicenda della diversa applicazione dei criteri di liquidazione dell’indennizzo da irragionevole durata dei processi, ove la Cassazione stavolta ha incontrato la tolleranza della Corte EDU nel caso Simaldone del 2009. Per ciò che riguarda la Corte costituzionale, vanno menzionate almeno la sent. n. 239/2009 (sulla nota vicenda di Punta Perotti) e la sent. n. 236/2011 (sulla lex mitior). Il caso più emblematico, però, è quello della sent. n. 311/2009 sulla legge d’interpretazione autentica relativa al personale ATA, ove la Corte costituzionale ha tentato un articolato distinguishing che è risultato poi smentito dalla sentenza CEDU nel caso Agrati, del 2011. È un caso emblematico perché rivelatore di una “falsa comprensione” del metodo del precedente, che la nostra Corte costituzionale riduce surrettiziamente a scelta del caso più confacente a supportare le proprie conclusioni, magari snaturandone le peculiarità (si tratta dell’arbitrario riferimento alla sentenza CEDU nel caso Forrer-Niedenthal c. Germania del 2003: cfr. M. Massa). Il caso Agrati costituisce un esempio di travisamento del metodo del precedente perché il senso autentico di quest’ultimo è di precludere al decisore di perseguire la scelta che egli adotterebbe se sulla fattispecie al suo esame non esistesse già un precedente, e non la prassi per cui una qualche decisione anteriore viene selezionata al fine di supportare un argomento che si vuole avanzare (F. Schauer).

Due sono, dunque, le strade che conducono al metodo del precedente praticato a Strasburgo. Ossia le strade attraverso cui sia i giudici comuni che la Corte costituzionale sono indotti a subire l’influsso esterno proveniente dalla prassi della Corte EDU e a compiere un mutamento “culturale” nella tutela dei diritti fondamentali. La prima è la strada del potenziamento delle tecniche di bilanciamento in concreto dei diritti fondamentali con altri diritti e beni costituzionalmente rilevanti, potenziamento indotto, per certi versi, dalla struttura stessa della Convenzione e del ricorso individuale diretto alla Corte EDU, per altri, dall’approccio della giurisprudenza di Strasburgo, più attenta agli elementi concreti del caso. Da un altro lato, troviamo la strada della limitazione degli effetti della giurisprudenza CEDU, in genere, e delle condanne subite dall’Italia, in particolare, attraverso il “distinguishing”; si tratta di una tecnica utilizzata sia dai giudici comuni (per non sollevare questioni di costituzionalità ex art. 117, co. 1, Cost. alla stregua del parametro interposto del “diritto vivente” di Strasburgo, secondo le sentt. nn. 348 e 349 del 2007) che dalla Corte costituzionale (per evitare di annullare leggi asseritamente contrastanti con i precedenti CEDU). Sebbene in apparenza antitetica alla prima, anche questa strada sembra condurre alla stessa meta, posto che per evitare “distinguishing” puramente velleitari occorre comunque interiorizzare lo spirito e la logica del metodo del precedente, secondo coordinate tipiche della cultura di Common Law.

 

* Sintesi della relazione presentata al Seminario di studi “La CEDU tra effettività delle garanzie e integrazione degli ordinamenti”, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Giurisprudenza, 17 novembre 2011.

Andrea Guazzarotti