Una disposizione costituzionalmente necessaria ma un bilanciamento non costituzionalmente vincolato? Prime note alla sentenza n. 50 del 2022 della Corte costituzionale
Una inammissibilità prevedibile, prevista (ex plurimis, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p. Atti del Seminario Ferrara, 26 novembre 2021), ma non scontata ha sbarrato la via alla proposta di abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale, la quale – se sorretta da un esito positivo nella consultazione referendaria – avrebbe ridotto le ipotesi di punibilità dell’omicidio del consenziente ai soli casi previsti dal terzo comma (persona minore di diciotto anni; persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno).
Tra tutte le vie astrattamente praticabili, nella sentenza n. 50 del 2022 la Corte costituzionale ha deciso di percorrere quella di qualificare la disposizione oggetto del referendum come “costituzionalmente necessaria”, declinando concretamente tale caleidoscopica categoria nel tipo di disposizioni che assicurano ai diritti coinvolti un livello minimo di tutela legislativa. Si tratta di una decisione densa dal punto di vista argomentativo e assiologico, che cerca di inserirsi in linea di continuità con la precedente giurisprudenza costituzionale, in materia tanto di ammissibilità referendaria (non a caso la Corte ripercorre le principali tappe evolutive delle categorie delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato e di quelle costituzionalmente necessarie), quanto di tutela del diritto alla vita (sono ricorrenti i riferimenti in tal senso alle argomentazioni proposte in materia di assistenza al suicidio nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019).
La linea argomentativa si sviluppa lungo due direttrici, che finiscono con il convergere nel dispositivo di inammissibilità. Da un lato, infatti, la Corte si concentra sulla natura manipolativa del quesito, rispetto alla quale compie una valutazione “predittiva” dell’impatto della domanda abrogativa – da valutare «nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti» – sul bene giuridico tutelato dalla disposizione, che la Corte individua nella vita umana. Dall’altro lato, la Corte qualifica come costituzionalmente necessaria la disposizione oggetto del quesito, concludendo che l’eventuale eliminazione – seppur parziale – della medesima causerebbe il venir meno «(…) di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022).
La natura – costituzionalmente necessaria – della disposizione si salda quindi con il rilievo costituzionale del bene oggetto di tutela – la vita umana – che l’art. 579 cod. pen. accredita «del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). La Corte non esclude, in via assoluta, che il principio dell’indisponibilità della vita umana possa essere bilanciato con la libertà di autodeterminazione della persona; tuttavia, nello specifico contesto e relativamente alla concreta ratio della disposizione in oggetto, ritiene che lo spazio per l’autodeterminazione personale sia stato limitato dal legislatore del 1930 alla sola «mitigazione della risposta sanzionatoria (…) in ragione del consenso prestato dalla vittima» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). Non si tratta, secondo la Corte, di un bilanciamento ineludibile, tanto che significativamente si premura di chiarire che la disposizione non può essere qualificata come legge a contenuto costituzionalmente vincolato. Allo stesso tempo, in linea con la propria giurisprudenza in materia di leggi costituzionalmente necessarie, tale bilanciamento non può subire una pura e semplice abrogazione per via referendaria, in quanto «non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). Unicamente il legislatore, o la stessa Corte costituzionale in sede di controllo di costituzionalità, potrebbero modificare o sostituire l’assetto fissato nella disposizione.
In tal senso, la Corte costituzionale, dopo aver proposto una lettura della ratio della disposizione alla luce del mutato quadro costituzionale («proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate»), ritiene che il ritaglio proposto dal quesito avrebbe l’effetto di ribaltare il verso del bilanciamento esistente. Esso sancirebbe, «all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo». L’effetto oggettivamente provocato sarebbe quello della «“liberalizzazione” della condotta senza alcun riferimento limitativo». Di conseguenza, l’impostazione assiologica e il “verso” del bilanciamento concretizzati nell’art. 579 c.p. subirebbero una eccessiva riconfigurazione (ex plurimis, su tale aspetto i contributi di Romboli e Morrone negli atti Amicus curiae citato in apertura). L’innovazione normativa eventualmente prodottasi finirebbe pertanto per uscire dal «solco delle scelte legislative già compiute dal legislatore» (P. Carnevale, Sul voto il popolo non vota. Brevi considerazioni sulla sentenza n. 10 del 2020 della Corte costituzionale, in Nomos, 1, 2020, 5).
Tale effetto non risulterebbe secondo la Corte sanabile per via interpretativa, come proposto dai promotori e anche in dottrina (U. Adamo, Intorno al giudizio sull’ammissibilità del referendum per l’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente), in Osservatorio AIC, 1, 2022, 248-249, ha evocato la sentenza «interpretativa di ammissibilità»), ridefinendo la normativa di risulta «alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce» (in particolare a quanto previsto in tema di forme del consenso informato dalla legge n 219 del 2017) ed applicandovi, al fine di escludere l’applicabilità del reato, le condizioni e la procedura medicalizzata individuate dalla Corte costituzionale in riferimento all’art. 580 c.p. (sentenza n. 242 del 2019). L’ambito applicativo della disposizione in oggetto non comprende infatti le sole ipotesi di omicidio di persona consenziente che si trovi nelle condizioni individuate dalla sentenza n. 242 del 2019 (patologia irreversibile; sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; presenza di trattamenti di sostegno vitale; persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli). Pertanto, non sarebbe possibile ridurne la portata alla sola «causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili» (Corte cost., sent. 50 del 2022): la riperimetrazione per via interpretativa del contenuto normativo (e assiologico) prodotto “a valle” del referendum va quindi esclusa.
La Corte sembra compiere un giudizio sulla ragionevolezza degli effetti del quesito referendario, rischiando in tal modo di esondare nel controllo preventivo di costituzionalità dell’eventuale normativa di risulta, ma finendo con il ricondurlo entro l’alveo “tradizionale” dell’esigenza di garantire una tutela minima costituzionalmente necessaria al bene giuridico protetto. Il ritaglio proposto, secondo la Corte, finirebbe per privare di «ogni tutela» quelle situazioni di vulnerabilità e debolezza non sussumibili ai casi previsti dal terzo comma dell’art. 579 c.p., oltre che – più in generale – tutte le ipotesi che vadano oltre la categoria dei soggetti vulnerabili, rispetto alle quali sussiste comunque una «esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate». Con l’effetto «oggettivo» di produrre, in tale specifico ambito, «un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). La natura parziale dell’eventuale abrogazione non garantirebbe, secondo la Corte, una adeguata «cintura protettiva», riuscendo a coprire solo i «casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta» (Ib).
Natura costituzionalmente necessaria della disposizione ed effetti eccessivamente manipolativi del quesito si integrano, quindi, nell’esigenza di assicurare una tutela minima per tutte quelle situazioni non sussumibili ai casi tipizzati dal terzo comma. Tutela minima che, pare ritenere la Corte nel momento in cui ne esclude la natura di disposizione a contenuto costituzionalmente vincolato, potrebbe risultare anche da un bilanciamento diverso, il quale riconosca eventualmente – ma qui è il commentatore a “speculare” – un più ampio spazio di espressione alla libertà di autodeterminazione personale. Tenuto conto della natura ondivaga della giurisprudenza in materia di leggi costituzionalmente necessarie, la Corte ha deciso di chiudere alla via referendaria sulla base dell’esigenza costituzionalmente imposta che vengano comunque assicurate, non solo nei casi di persone fragili o vulnerabili, adeguate garanzie, che – da solo – lo strumento referendario non è in grado di prevedere, anche alla luce della natura inviolabile del diritto alla vita, che la Corte – in linea con i precedenti in materia (ord. 207 del 2018 e sent. n. 242 del 2019) qualifica come «matrice di ogni altro diritto (…)».
Tuttavia, andando oltre allo specifico ambito dell’ammissibilità del referendum, dalle argomentazioni della Corte una eventuale riconfigurazione dei termini del bilanciamento tra tutela (indisponibilità) del diritto alla vita e libertà di autodeterminazione non sembrerebbe costituzionalmente preclusa, ma dovrebbe necessariamente passare attraverso il canale parlamentare. In tal senso, non appare possibile estendere la portata del riconoscimento della natura indisponibile della vita e del «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo», richiamati nella sentenza che qui si commenta, oltre il giudizio sull’ammissibilità del quesito. In tale specifico ambito, infatti, tali affermazioni risultano funzionali alla verifica della sussistenza, all’esito dell’eventuale referendum, di una tutela minima in tutte le ipotesi teoricamente coperte dalla disposizione, oltre che a definire la ratio e l’ambito di quest’ultima come non necessariamente coincidenti con casi di consenso validamente prestato da parte di persone che versino in condizioni di malattia grave e irreversibile. Alla luce del più ampio contesto nel quale la stessa Corte costituzionale ha deciso di situare la dichiarazione di inammissibilità, è opportuno notare che analoga struttura argomentativa, relativa alla centralità costituzionale del diritto alla vita, non ha impedito alla Corte – in sede di controllo di costituzionalità – di riconoscere inediti spazi di espressione alla autodeterminazione individuale (sent. n. 242 del 2019). Dalla decisione in commento sembrano emergere in tal senso alcune aperture alla sostenibilità costituzionale di assetti normativi – bilanciamenti – diversi da quello fissato dall’art. 579 c.p., soprattutto se l’ambito di riferimento coincida con decisioni validamente assunte nell’ambito del fine vita, a condizione che risultino adeguatamente sorrette e veicolate all’interno di una procedura medicalizzata. Ci si riferisce, ad esempio, alla necessità che la libertà di autodeterminazione non possa mai prevalere «incondizionatamente» sulle ragioni di tutela del bene della vita umana, o al fatto che l’esito positivo del referendum avrebbe sancito la piena disponibilità della vita «senza alcun riferimento limitativo».
Sforzandosi di non evocare l’immagine di Godot, secondo la Corte spetta quindi unicamente al legislatore la responsabilità di intervenire in tale ambito, peraltro in linea con alcune decisioni relative a questioni etichettate come “eticamente sensibili” (ex plurimis, sent. n. 84 del 2016 e n. 221 del 2019). Se ciò non dovesse avvenire, è ipotizzabile che venga attivata la via del giudizio di legittimità costituzionale. Ancora una volta, in questo caso, sarebbe probabilmente «un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche» – utilizzando la densa immagine evocata nella sentenza n. 50 del 2022 – a fungere da elemento costituzionalmente necessario al fine di ricalibrare il bilanciamento tra valore dell’indisponibilità della vita, da un lato, e diritto all’autodeterminazione personale, dall’altro lato.