“Un evidente rischio di violazione grave” dello Stato di diritto: qualche osservazione sulle più recenti iniziative della Commissione europea nei confronti della Polonia
Lo scorso 20 dicembre la crisi costituzionale polacca, che ormai si protrae fin dalla tornata elettorale del 2015, è entrata in una nuova fase: la scelta della Commissione europea di attivare la procedura dell’art. 7, par. 1, TUE dice molto sia dell’escalation registratasi sul fronte interno, con sempre nuove iniziative della maggioranza parlamentare, sia dell’irrigidimento delle posizioni dei due livelli istituzionali, nazionale e sovranazionale. In pari tempo, all’attivismo della Commissione europea corrisponde l’indebolimento dei “contrafforti” interni opposti al Governo e al Parlamento di Varsavia, come le corti supreme e – in maniera più ambigua – il Presidente della Repubblica Duda.
Con un comunicato stampa datato 20 dicembre – cui si affianca un discorso del Vicepresidente Timmermans – la Commissione ha perciò chiesto al Consiglio di adottare una delibera in cui si constati l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave di uno dei valori fondanti dell’art. 2 – nel caso di specie, lo Stato di diritto – in Polonia. La richiesta si fonda su un nutrito corpus di interventi di riforma del potere giudiziario polacco; ad avviso della Commissione, quest’ultimo si trova ormai sotto il controllo politico della maggioranza parlamentare.
Il comunicato stampa della Commissione appare interessante sotto diversi angoli visuali, che nel loro complesso attestano la centralità della questione dei “valori” nell’Unione di oggi e le difficoltà in cui si dibattono i tentativi di assicurarne l’effettività.
Una prima considerazione è relativa al linguaggio adoperato dalla Commissione per giustificare la sua ultima iniziativa: la scelta di attivare una delle due procedure dell’art. 7 – quella prevista per l’ipotesi di un “evidente rischio di violazione grave”, e non ancora per l’“esistenza di una violazione grave e persistente” dei valori dell’art. 2 TUE – si configura come un’extrema ratio, che fa seguito a quasi due anni di tentativi di avviare un dialogo costruttivo con le autorità polacche. Se è stato necessario ricorrere a “these unprecedented measures”, ragiona la Commissione, il motivo dev’essere rintracciato nella scarsa disponibilità della Polonia a cooperare nell’ambito del quadro giuridico per la salvaguardia dello Stato di diritto, varato dalla Commissione stessa nel marzo 2014. Si assiste qui a un curioso scambio di ruoli fra istituti e procedure differenti: la procedura dell’art. 7, par. 1, TUE fu introdotta nel 2001 dal trattato di Nizza, dopo che il “caso Austria” aveva reso evidente l’opportunità di introdurre un procedimento di natura preventiva per situazioni in cui i valori dell’art. 2 non erano ancora violati. Nelle intenzioni dei riformatori dei trattati, la procedura dell’art. 7, par. 1, TUE doveva presentarsi come un’alternativa “minimalista” alla constatazione dell’“esistenza di una violazione grave e persistente” dei valori fondanti da parte di uno Stato membro: avrebbero dovuto concorrere a questo minimalismo sia il coinvolgimento del Consiglio in luogo del Consiglio europeo, sia la previsione di un quorum deliberativo dei quattro quinti in luogo dell’unanimità. Da ultimo, i diritti di voto dello Stato membro coinvolto in seno al Consiglio possono essere sospesi soltanto nel caso in cui sia stata constatata l’esistenza di una violazione in atto. Le vicende successive, però, hanno indubbiamente portato a un offuscamento delle distinzioni fra le due procedure, tanto che nel discorso sullo stato dell’Unione del 2012 l’allora Presidente Barroso adoperò per entrambe la definizione “opzione nucleare”. Con l’ultimo comunicato della Commissione il cerchio sembra chiudersi: dopo due anni di dialogo fra istituzioni polacche e sovranazionali – condotto nella cornice “ibrida” del quadro per la salvaguardia dello Stato di diritto – l’attivazione dell’art. 7 TUE si configura in ogni caso come un’extrema ratio. Lo stesso Vicepresidente Timmermans ammette, con toni appassionati, che “it is with a heavy heart that we have decided to initiate Article 7(1), but the facts leave us no choice”.
Un secondo spunto di riflessione è anch’esso inerente alla scelta della procedura. Perché la Commissione ha deciso di agire ai sensi dell’art. 7, par. 1, TUE – limitandosi cioè a contestare un “evidente rischio di violazione grave” – e non ha invece denunciato la sussistenza di “una violazione grave e persistente” in virtù del par. 2? In effetti, si potrebbe avere l’impressione che il potere giudiziario polacco sia già stato plasmato in profondità dalle leggi di riforma – non meno di 13, secondo la Commissione – approvate negli ultimi due anni. Nella proposta ragionata indirizzata dalla Commissione al Consiglio si leggono anzi osservazioni molto preoccupanti, come il fatto che “the independence and legitimacy of the Constitutional Tribunal is seriously undermined and the constitutionality of Polish laws can no longer be effectively guaranteed” (par. 109). Al di là del riferimento al potere giudiziario in senso, lato, poi la Commissione individua un filo rosso che caratterizza la recente legislazione polacca in questo ambito: l’ampliamento sistematico delle possibilità, per i poteri legislativo ed esecutivo, d’interferire nella composizione, nelle attribuzioni e nel funzionamento del giudiziario (par. 173). Naturalmente si può avanzare l’ipotesi che queste misure rischino di compromettere il valore-Stato di diritto, mentre si potrà parlare di vera e propria violazione soltanto nel momento in cui esse saranno state effettivamente applicate. L’impressione, però, è che i caratteri della procedura dell’art. 7, par. 1, TUE già segnalati in precedenza – primo fra tutti, il quorum dei quattro quinti degli Stati membri – abbiano suggerito alla Commissione di parlare soltanto di “evidente rischio”. In questo modo, infatti, si può pensare di depotenziare il potere di veto dell’Ungheria e forse della Romania e di giungere ugualmente all’accertamento, con la solennità di una deliberazione del Consiglio, di una situazione di grave disagio costituzionale in uno Stato membro (una interpretazione, questa, condivisa da Kochenov, Pech e Scheppele).
In terzo luogo, un elemento che viene sempre sottolineato nel dibattito sugli artt. 2 e 7 TUE è la loro capacità di offrire un orientamento agli Stati membri al di là dell’ambito competenziale del livello istituzionale sovranazionale. I valori dell’art. 2, ad esempio, svolgono un ruolo centrale nella costruzione intellettuale dello ius publicum Europaeum, tratteggiata da Armin von Bogdandy: “All legal acts of any public authority in the European legal space are subject to the common principles of Article 2 TEU, supplemented by the ECHR guarantees” (A. von Bogdandy, The Idea of European Public Law Today, in id., P.M. Huber, S. Cassese (a cura di), The Administrative State, Oxford, OUP, 2017, 21). Nel linguaggio adoperato dalla Commissione – sia nel suo comunicato stampa, sia nella proposta ragionata inviata al Consiglio, sia nel discorso del Vicepresidente Timmermans – questo dato appare pacifico: “The Commission, beyond its task to ensure the respect of EU law, is also responsible, together with the European Parliament, the Member States and the Council, for guaranteeing the common values of the Union” (par. 1 della proposta). Al tempo stesso, però, la Commissione si preoccupa di sottolineare che le riforme dell’ordinamento giudiziario polacco suscitano dubbi e preoccupazioni “about the effective application of EU law, from the protection of investments to the mutual recognition of decisions in areas as diverse as child custody disputes or the execution of European Arrest Warrants”. Il percorso argomentativo della Commissione rinvia a una delle premesse teoriche del dibattito sulla clausola di omogeneità dell’art. 2 TUE: quale funzione dovrebbe assolvere il richiamo ai valori fondanti dell’Unione? Accanto ad altre funzioni – identitaria, legittimante, d’integrazione – autori come Pernice hanno sostenuto che la ratio dell’art. 2 è ridurre il pericolo che fra gli Stati membri si producano differenze così profonde da turbare la funzionalità dell’UE: la questione della funzionalità dell’Unione appare peraltro assai urgente in un ordinamento che dipende fortemente, sia nella formazione dei suoi atti normativi sia nella loro esecuzione, dalle istituzioni nazionali (I. Pernice, Europäisches und Nationales Verfassungsrecht, Walter Hallstein-Institut working paper 13/01, 30).
Un quarto elemento è degno di nota: la procedura “solenne” dell’art. 7, par. 1 – Timmermans rifiuta infatti di parlare di “opzione nucleare” – è complementare, e non alternativa, rispetto ad altri strumenti di cui la Commissione continua a servirsi. Così, nello stesso momento in cui propone al Consiglio di constatare la sussistenza di un evidente rischio di violazione dello Stato di diritto da parte della Polonia, la Commissione annuncia la propria intenzione di agire dinanzi alla Corte di giustizia dell’UE in virtù dell’art. 258 TFUE: oggetto della procedura d’infrazione già avviata dalla commissione sono le disposizioni della legge sui tribunali ordinari relative alla collocazione a riposo dei giudici: a una possibile violazione del divieto di discriminazione fra uomini e donne si accompagna il fatto che al Ministro della giustizia sia attribuito il potere discrezionale di mantenere in servizio giudici che abbiano già raggiunto l’età pensionabile. In questi anni le procedure d’infrazione hanno costituito un tassello importante, anche se criticato da varie parti, delle iniziative della Commissione nei confronti degli Stati membri dell’Europa centro-orientale: pochi giorni prima, il 7 dicembre, la Commissione aveva annunciato la propria intenzione di adire la Corte di giustizia a proposito della legge ungherese sull’istruzione superiore, la c.d. lex CEU. Nello stesso tempo, rimane aperto il canale del dialogo costruttivo, avviato dalla Commissione nell’estate 2016 e tradottosi nell’emanazione di quattro “raccomandazioni sullo Stato di diritto” indirizzate alle autorità polacche e datate, rispettivamente, 27 luglio 2016, 21 dicembre 2016, 27 luglio 2017 e 15 dicembre 2017. Parallelamente alla proposta di attivare l’art. 7, infatti, la Commissione indirizza alla Polonia una quarta raccomandazione, avente ad oggetto le due leggi del 15 dicembre 2017 sulla Corte suprema e sul Consiglio nazionale del potere giudiziario.
Come si vede, l’iniziativa annunciata dalla Commissione lo scorso 20 dicembre costituisce un affidabile indicatore della complessità di cui nell’Unione europea è inevitabilmente circonfusa la questione dei valori. Come si è cercato di dimostrare, la scelta di attivare l’art. 7, par. 1, TUE riflette la difficoltà di tracciare una distinzione netta fra profili sostanziali, profili procedurali e considerazioni di opportunità. Procedure differenti si accavallano e si sovrappongono fra loro, nel tentativo di mantenere una forte pressione sulle autorità polacche e di ridimensionare i progetti di Diritto e giustizia e del suo leader informale, Jarosław Kaczyński (ma Kochenov, Pech e Scheppele segnalano che effetti collaterali di natura virtuosa potrebbero prodursi in Romania, segno di una sempre più marcata interdipendenza fra gli ordinamenti). Rimane, infine, la centralità dello Stato di diritto, vero valore-faro per le istituzioni sovranazionali. Non sono mancati i tentativi di decostruire nozioni suggestive come quella di “democrazia illiberale” – come anche, in pari tempo, di criticare il formalismo della nozione eurounitaria di Stato di diritto – ma la Commissione e le altre istituzioni sovranazionali preferiscono fare assegnamento su un concetto che da sempre svolge un ruolo decisivo nelle autorappresentazioni dell’ordinamento dell’UE (sul punto cfr. G. Itzcovich, The European Court of Justice as a Constitutional Court. Legal Reasoning in a Comparative Perspective, STALS Research Paper n. 4/2014, 39 s.). Per altro verso, gli elementi ora segnalati – il peso di considerazioni di opportunità, ma anche la riluttanza della Commissione ad affermare valori distinti dallo Stato di diritto – contribuiscono altresì a spiegare la timidezza delle istituzioni sovranazionali nei confronti dell’Ungheria.