Turchia: Una nuova battaglia tra il “Sultano” e la Corte (costituzionale)

Nel clima di forti tensioni sociali seguito alle proteste di Gezi Parkı e alla vigilia delle elezioni amministrative che hanno confermato il sostegno popolare al partito del “Sultano” dell’AKP, l’attuale Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan, la Turchia ha vissuto un nuovo scontro istituzionale che ha messo seriamente in discussione la libertà d’espressione.

Se le proteste che avevano infiammato piazza Taksim nell’estate del 2013 hanno dimostrato la difficoltà del Governo di gestire il dissenso e salvaguardare la libertà di manifestazione, la primavera del 2014 è stata segnata dell’emersione di evidenti criticità nella gestione dei nuovi media, sempre più frequentemente utilizzati per disvelare la corruzione delle alte sfere politiche e che, per Erdoğan, sono diventati i più pericolosi epigoni di un complotto internazionale per minare il suo potere.

Si tratta, in realtà, di uno scontro risalente nel tempo (YouTube è stato censurato per la prima volta il 6 marzo 2007 con la decisione n. 2007/384 della I Corte criminale di pace di Istanbul), che ha visto una svolta legislativa il 5 febbraio 2014, quando la Grande Assemblea Nazionale ha emendato la legge n. 5651 del 2007 per consentire all’Autorità per le telecomunicazioni (TIB) di bloccare qualsiasi sito internet per 24 ore senza dover attendere la pronuncia di una Corte. La legge novellata impone altresì ai provider di archiviare i dati degli utenti per 2 anni e di renderli fruibili alle autorità su esplicita richiesta di queste ultime, in ragione di presunte necessità legate alla sicurezza nazionale. Si tratta di una disposizione particolarmente rilevante, se si considera che essa sembra recepire il dettato della Data retention directive (Direttiva n. 2006/24/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, 15 marzo 2006) la cui invalidità è stata dichiarata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza C-293/12 e C594/12, 8 aprile 2014) proprio in ragione del fatto che le disposizioni con cui si obbligavano i provider a conservare i dati degli utenti per un periodo non inferiore a 6 mesi e non superiore a 2 anni (artt. 3 e 6) rappresentavano una violazione della vita privata e familiare (art. 7 della Carta di Nizza).

Sono questi, dunque, i presupposti legislativi che hanno fatto da sfondo alla censura che nel marzo 2014 ha investito i principali social network. Facendo seguito alle dichiarazioni del Primo Ministro, che aveva richiesto provvedimenti per le accuse di corruzione mosse ai suoi più stretti collaboratori attraverso Twitter, il 20 marzo la TIB ha provveduto a bloccare questo social network. Pochi giorni dopo, il 24 marzo, l’Autorità ha anche bloccato Google Public DNS, utilizzato per bypassare la chiusura di Twitter. Le decisioni della TIB sono state confermate dalla Corte amministrativa di Ankara, sez. 15 (sentenza n. 2014/511, 26 marzo 2014), che ha sottolineato la legittimità della decisione della TIB a tutela dell’ordine pubblico.

Il giorno successivo, la censura ha colpito anche YouTube, reo di aver reso pubblico un video in cui le alte sfere militari discutevano della possibilità di un intervento armato in Siria e una registrazione audio in cui il Primo Ministro inviterebbe suo figlio ad occultare alcuni capitali pubblici. La reazione del Governo che, attraverso il Ministro degli Esteri Davutoğlu, ha definito i video «una dichiarazione di guerra contro lo Stato turco e la nostra nazione», è stata sostenuta dalla Corte amministrativa di Ankara, sez. 4, che ha vincolato la riapertura del sito alla rimozione di 15 video.

L’immediata reazione dei proprietari dei social network, che hanno ottenuto numerose dichiarazioni di solidarietà a livello internazione ed esplicite manifestazioni di biasimo verso il Governo turco da parte della Casa Bianca e delle istituzioni UE, è stato il ricorso diretto alla Corte costituzionale, invocando una violazione della libertà di espressione così come tutelata dalla Costituzione turca (art. 26) e dalle numerose convenzioni internazionali ratificate dal paese, prima fra tutte la CEDU. La Corte costituzionale ha accolto il ricorso (sentenza K2014/3986, 2 aprile 2014) e, richiamando anche il diritto ad essere informati (anch’esso tutelato dall’art. 26 Cost.), ha ingiunto alla TIB di adoperarsi per procedere alla riapertura dei siti internet oscurati.

Proprio quando la partita sembrava chiusa e la pronuncia della Corte sembrava aver messo un punto definitivo sulla questione, la contestuale conferma della vittoria dell’AKP alle elezioni amministrative del 30 marzo (con il 45% dei consensi contro il 28 % del CHP, principale partito di opposizione) ha riaperto i giochi. Il Primo Ministro Erdoğan ha dichiarato che, pur essendo obbligato ad applicare la sentenza, non la rispetta perché in essa la Corte non ha tenuto conto dei valori morali del popolo turco.

Di fatto, nonostante la TIB abbia dichiarato di aver eseguito la sentenza già il 3 aprile, alcuni video di YouTube, tra cui i 15 segnalati dalla Corte amministrativa di Ankara, risultano ancora oscurati, mentre Twitter, a seguito di un negoziato con il Governo, ha bloccato due account che, nelle opinioni del Primo Ministro, avevano diffuso informazioni relative alla sua vita privata capaci di minacciare l’ordine pubblico. Ciò tuttavia non è bastato a Erdoğan, che il 18 aprile ha avviato un ricorso diretto alla Corte costituzione invocando una violazione della sua vita privata e familiare. Al ricorso si sono associate numerose dichiarazioni in cui il Primo Ministro ha accusato Twitter di violare le norme turche sul fisco e di evadere le tasse anche se, sotto questo profilo, non sono ancora state avviate azioni legali contro la compagnia californiana.

Una vicenda controversa, dunque, che rende nuovamente evidente la distanza tra le tutele dei diritti fondamentali previste formalmente dall’ordinamento turco e la capacità di dare loro efficacia concreta. Una distanza che sembra acuita anche dal crescente scontro fra le istituzioni. In nome del proprio progetto politico per il futuro del paese, infatti, l’Esecutivo non esita a bandire ogni manifestazione di dissenso, spesso sostenuto dalla giustizia ordinaria, e a tentare di  limitare il carattere prescrittivo delle sentenze della Corte costituzionale denunciandone la scarsa aderenza ai valori morali turchi, come le dichiarazioni di Erdoğan nel caso in discussione dimostrano. Di contro, la Corte costituzionale (la cui composizione è ancora frutto dell’epoca precedente all’ascesa dell’AKP) reagisce ribadendo il proprio ruolo di garante della Carta fondamentale e dei valori costituzionali. È in questo senso che deve intendersi, a pochi giorni dalla la pronuncia sulla rimozione del blocco dei social network, la dichiarazione di incostituzionalità della riforma sul sistema giudiziario (approvata nel febbraio 2014 ed in linea con la riforma costituzionale approvata in via referendaria nel 2010) per la parte in cui si ampliavano i poteri di controllo del Ministro della Giustizia sul Consiglio supremo dei giudici e dei pubblici ministeri (sentenza K2014/6, 11 aprile 2014).

Quali che siano gli ulteriori sviluppi di uno scontro da cui il Primo Ministro non sembra intenzionato a demordere, non possono ignorarsi anche le conseguenze politiche della vicenda. In molti, infatti, avevano ipotizzato che la vittoria dell’AKP alle elezioni amministrative avrebbe aperto la strada ad una candidatura di Erdoğan per le elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 10 agosto, le prime ad elezione diretta, nel tentativo di avviare una scambio dei ruoli sul modello Putin-Medvedev con l’attuale Presidente Gül. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo contro il blocco dei social network proprio attraverso un account di Twitter potrebbero rappresentare i presupposti per una diversa evoluzione nei rapporti tra le più alte cariche del paese. Sullo sfondo trova infatti spazio l’ulteriore vicenda che ha visto Erdoğan scontrarsi con il suo più antico sostenitore, il movimento islamico dell’auto-esiliatosi Fetullah Gülen, cui il Primo Ministro ha tagliato i finanziamenti un tempo erogati per la gestione di scuole provate e che è stato accusato di essere fra i principali artefici del “complotto delle cassette”, che proprio attraverso i social network avrebbe dovuto diffamare Erdoğan e i suoi Ministri.