True as fiction

A proposito del volume di E. Olivito, “Le finzioni giuridiche nel diritto costituzionale”, Napoli, Jovene, 2013
Uno spettro si aggira per il diritto costituzionale..le finzioni giuridiche. Da quando gli studi di diritto costituzionale si sono affermati come scienza autonoma prevale la convinzione che il tempo delle finzioni giuridiche sia definitivamente tramontato. Elisa Olivito dubita di questo assunto e si avventura con coraggio e con rigore nel campo inesplorato del ruolo svolto dalle finzioni giuridiche nel diritto costituzionale. L’approccio adottato è di tipo storico (o comparativo-diacronico) e mira ad individuare lo specifico della finzione giuridica rispetto ad altre figure della tecnica giuridica (come presunzioni, metafore, analogie e miti), a ricostruirne la genealogia ed infine ad analizzare quali tipi di interessi, conflitti e bisogni vengono tutelati dalle finzioni. Sin dalle prime pagine l’Autrice avverte che non è possibile rintracciare una definizione di finzione capace di rendere giustizia alle molteplici manifestazioni nello spazio e nel tempo delle finzioni giuridiche: “esistono tanti ‘tipi’ di finzioni giuridiche quanto sono gli ordinamenti che se ne sono avvalsi” (XVI). Né è possibile dividere i sostenitori dai detrattori delle finzioni secondo l’asse formalismo/anti-formalismo: tra i sostenitori ritroviamo infatti tanto giuristi formalisti quanto antiformalisti, e così nel campo dei detrattori. La prospettiva adottata viene autodefinita dall’A. come “quella di un ‘realismo critico’, in virtù del quale l’attenzione ricade in primo luogo sull’universo di interessi che le finzioni nascondono” (28), che tuttavia non rinuncia a costruire una casistica finzionale, una sua dogmatica tassonomica, al fine di rimanere all’interno del paradigma positivistico. Sin dall’inizio l’A. si preoccupa di delimitare il campo dell’indagine, eliminando possibili contaminazioni tra il giuridico e il letterario, che proprio sul tema delle fictions ha prodotto in ambito angloamericano notevoli lavori, soprattutto nell’ambito degli studi di Law and Literature. Ricordando che già Tommaso d’Aquino ammoniva che la finzione “non est mendacium, sed aliqua figura veritatis”, e che Lacan sottolineava che “fictitious non vuol dire illusorio, né in sé ingannevole, ma semmai che ogni verità ha una struttura di finzione”, l’A. concorda con il famoso adagio di Fuller secondo cui la finzione è una falsità concepita per non essere creduta. (3). La finzione viene indagata dunque esclusivamente come mezzo dell’economia giuridica, rilevando solo l’alterazione della realtà ai soli fini del diritto; da questo punto di vista attraverso le finzioni “the wine of the new law might be put into the bottles of old procedure”, secondo l’adagio di Gray (7). Attraverso la fictio iuris “si ottiene una modifica sostanziale di norme che solo in apparenza rimangono immutate” (7). Pur individuando dei criteri formali che consentirebbero di distinguere con precisione la finzione dalle altre figure del linguaggio giuridico l’A. avverte che di finzioni occorre parlare necessariamente al plurale “in tal senso, la ricerca delle finzioni storicamente più significative e il loro inquadramento all’interno di ben connotate esperienze storiche costituiscono il primo passo per non incorrere in un equivoco frequente: credere che esista un unico modello di finzione giuridica e che esso si sia tramandato in maniera invariata nel corso del tempo. La ricerca di un simile archetipo è destinata a fallire perché, imponendo un astorico appiattimento concettuale della fictio, trova costante smentita […] nella sostanziale diversità tra le finzioni dei Romani e quelle dei moderni e, ancor più, nello scarto tra le finzioni del diritto civile e quelle del diritto pubblico” (30).


Il volume procede quindi a una discussione del ruolo delle finzioni nel diritto romano, giudicato “il terreno più fecondo per cogliere la finzione nel suo concreto funzionamento e per affermarne la specificità quale strumento della tecnica giuridica” (35), attestata la grande quantità e varietà di finzioni ivi rinvenibili. Al cospetto della varietà fenomenica l’A. sottolinea come “l’espressione fictio iuris non sia rinvenibile nelle fonti” (35) e che i romani si guardarono dal formulare una nozione formale di finzione e dal teorizzarne l’ambito di operatività. L’indagine segue quindi le metamorfosi delle finzioni nell’età intermedia, sottolineando i loro legami con il concetto di aequitas in considerazione anche del mutato ruolo dei giuristi nella società. Con l’avvento della modernità giuridica la visione legalistica del diritto conduceva ad una svalutazione del linguaggio figurativo a favore di quello prescrittivo, e alla centralità delle finzioni stabilite dal legislatore a discapito di quelle formate dall’opinione ragionevole dei giudici e dei doctores. La modernità tuttavia non ha determinato “la totale scomparsa delle finzioni, quanto piuttosto una rideterminazione del loro operare” (118).

È a questo punto che il lavoro di Olivito giunge a Rodi e inizia a saltare sulla casistica delle finzioni nel diritto costituzionale positivo contemporaneo. Nota l’A. una “mancanza di studi della dottrina riguardo l’uso della fictio iuris in questo ambito” (154), attribuibile al sospetto del pensiero giuridico contemporaneo per il linguaggio figurativo in generale, il che ha condotto anche – così l’A. – alla confusione tra studio delle finzioni e metaforologia (156). Il ruolo svolto dalle finzioni all’interno del sistema delle fonti si concentra sull’effetto abrogativo prodotto dall’entrata in vigore dei regolamenti delegificanti di cui all’art.17, comma 2, della legge n.400 del 1988, configurato come “un’abrogazione condizionata come se questa fosse l’effetto della legge abilitante e non, invece, del regolamento” (175). Dalla discussione della grande finzione della legge concepita come un atto generale e astratto, l’A. passa a discutere il ruolo svolto dalle finzioni nella ricostruzione dogmatica delle trasformazioni dei rapporti tra potere legislativo e giudiziario, concentrandosi sulla genealogia delle sentenze a “rime obbligate” che “inizialmente si imposero come un’espressione metaforica, utile a rendere il senso dell’interpretazione analogica”, ma che “una volta trasposte nel dibattito sui limiti del sindacato di costituzionalità assunsero piuttosto il significato di un espediente finzionale, introdotto nella retorica costituzionale per ricomporre un’aporia tra la garanzia giurisdizionale della legalità costituzionale e la successiva espansione dei poteri affidati alla Corte” (190).

Il successo di una finzione, la sua permamenza nel tempo, non dipende né dalla sua coerenza logica né dalla sua forza normativa, ma dalla sua capacità persuasiva; è l’uditorio, o sfera pubblico-giuridica, a decidere della vitalità di una finzione: “l’obiettivo delle più efficaci finzioni costituzionali non è, infatti, quello di occultare la regola giuridica effettivamente applicata nel caso concreto, bensì quello di offrire valide ragioni agli occhi di quanto dovranno sottostare alla decisione. In tal modo il giudice, anziché ricorrere ad argomenti ormai superati, si sforza di individuare nuove basi ‘su cui può essere iniziato un dialogo tra le parti, o attraverso cui esse sono in grado di vedere i valori che in realtà condividono’ (K. Abrams)” (199)

Olivito esamina quindi il ricorso alle finzioni nell’area del fine vita e dell’interruzione dei trattamenti medici, con una discussione della sentenza della Corte di Cassazione, Sezione I civ., 16 ottobre 2007, n. 21748, e nell’ambito delle unioni omosessuali e del matrimonio contratto all’estero. La fenomenologia delle finzioni contemporanee spinge l’A. all’adozione di una “prospettiva ‘teleologica’ […], necessaria soprattutto nel campo costituzionale, dove le difficoltà riscontrabili nell’ammetterne l’esistenza sono spesso dovute alla reticenza rispetto ai fini effettivamente perseguiti e alle considerazioni meta-giuridiche dissimulate dalla loro presenza” (272).  “La finzione giuridica è in grado di svolgere una duplice funzione: una euristica, l’altra performativa” (273). “La fictio iuris viene, infatti, tirata in ballo dal diritto costituzionale quando, da un lato, si manifesta la necessità di dotarsi di concetti rispondenti alle nuove situazioni, ma dall’altro permane il bisogno di rifarsi a quelli già esistenti. La finzione dà al diritto il modo di mettere in moto una complessa manovra di ‘cambiamento conservativo’” (275).

Non sempre tuttavia le finzioni raggiungono il loro scopo e l’A. accenna alla possibilità del fallimento delle finzioni, “la presa sull’ordinamento giuridico e, dunque, la ‘riuscita’ delle finzioni giudiziarie dipendono, infatti, dalla ripetizione nel tempo del meccanismo finzionale e dal suo grado di accettazione in ambito giudiziario” (297). Lo studio delle finzioni, conclude l’A. deve quindi concentrarsi sull’individuazione delle funzioni da queste svolte e sul riconoscimento degli interessi sociali perseguiti dal ricorso al linguaggio finzionale: “le finzioni costituzionali, in special modo, devono essere intese – al pari del diritto stesso – come mezzi a fini sociali, e mai come fini in sé: esse valgono per l’uso che se ne fa e per i vantaggi che il diritto costituzionale ne trae, non per una loro supposta consistenza ontologica” (310).

Il volume di Elisa Olivito si segnala per l’originalità del tema, per la chiarezza argomentativa e per il rigore metodologico: dalla teoria generale dell’interpretazione e dell’argomentazione, attraverso la genealogia, sino al banco di prova della casistica ed alle ricostruzioni conclusive, le riflessioni della costituzionalista si avventurano su campi limitrofi e partizioni disciplinari di discorsi scientifici senza mai perdere di vista lo specifico costituzionale. Realismo critico e teleologismo si coniugano in una brillante prova di impostazione di una ricerca destinata ad ampliarsi.

Lo studio sul ruolo delle finzioni giuridiche nel diritto costituzionale italiano condotto da Olivito contiene molti spunti di riflessioni e suggestioni di ricerca. Sarebbe interessante elaborare le similitudini con le riflessioni sul diritto muto, se “la finzione è spesso giocata sul piano del ‘non detto’ costituzionale e sulla possibilità di avviare in base ad esso nuove ‘sistemazioni’ teorico-concettuali” (198).

Al bel volume di Elisa mi sento di muovere tre critiche, due interne e una esterna.

Il rigore metodologico non esenta l’A. dal cominciare il proprio percorso con la finzione della definizione e delimitazione del concetto di finzione, tuttavia nel distinguere le finzioni dalle altre figure topiche (presunzioni, metafore, equiparazioni, analogie..) mi sembra che trattenga un poco di quello stesso ontologismo giuridico che dice apertamente di voler combattere. Le nozioni affini non vengono adeguatamente problematizzate, allo scopo di renderle più delimitate, quasi monolitiche, quindi categorizzabili. In particolare la pregevole distinzione tra finzione e metafora viene costruita sulla parallela distinzione tra falsità e rilevanza, presupponendo un criterio di verità (o di falsificazione) non meglio articolato.

La seconda critica interna somiglia un poco al residuo di appetito al termine di un ottimo pasto: la casistica delle finzioni merita di essere ampliata, così come la fenomenologia strutturale e funzionale dei fallimenti delle finzioni. Il merito di ricerche innovative come questa è proprio quello di acuire la sensibilità del giurista e di renderlo maggiormente consapevole delle ambiguità e duttilità delle categorie linguistiche che manipola per tutelare interessi sociali.

Quello che da un punto di vista interno all’opera appare essere uno dei suoi pregi più rilevanti, la delimitazione dell’ambito dell’indagine mediante un sapiente mix di prospettive metodologiche e di aree disciplinari, costituisce anche un invito a rivisitare il classico luogo del confronto tra discorso giuridico e discorso letterario su ciò che è vero e ciò che è tenuto per vero, cioè finto.