Tra le tessere del mosaico culturale canadese non c’è la poligamia
“L’ordinamento costituzionale canadese non può tollerare la poligamia, in quanto pratica idonea a provocare danni di natura fisica e psicologica nei confronti delle donne che partecipano alle unioni poligamiche, dei figli nati da quella, così come, più in generale, della società stessa e del matrimonio monogamico”.
Con questi toni accesi e decisi, la Corte Suprema della British Columbia ha messo un punto alla delicata questione della compatibilità con la Carta canadese dei diritti e delle libertà fondamentali del 1982 di quella pratica diffusa non solo tra le comunità musulmane, ma invalsa anche nel mormonismo e in alcune culture aborigene, che consente ad un uomo di contrarre matrimonio con più mogli. Se si tratterà di un punto fermo si vedrà solo in seguito, trattandosi di una pronuncia nell’ambito di un giudizio di reference a livello provinciale che, in quanto tale, è appellabile di fronte alla Corte suprema federale. La questione di costituzionalità era stata sottoposta alla Corte suprema provinciale dal Governo provinciale in seguito alle accuse di poligamia rivolte nei confronti di due leader mormoni nel 2009.
Così, con una decisione lunga e articolata (composta da oltre 1300 paragrafi e da numerosi riferimenti a studi sociologici, antropologici, storici e giuridici, cit. Reference re: Section 293 of the Criminal Code of Canada (2011 BCSC 1588)), il Chief Justice Bauman ha confermato la costituzionalità della section 293 del Criminal Code of Canada (R.S.C. 1985, c. C-46): secondo tale norma, il contrarre un matrimonio con più di una persona allo stesso tempo sarebbe un reato punito con la pena della detenzione fino a cinque anni. Allo stesso modo rientrano tra le condotte vietate dalla section 293 il celebrare l’unione poligamica, l’assistervi o parteciparvi in qualunque modo.
Anche se la disposizione de qua proibisce la poligamia in generale, la pratica maggiormente diffusa riguarda più nello specifico la poliginia, che consente ad un uomo di avere contemporaneamente due o più mogli. Solo per un mero scrupolo terminologico, vogliamo precisare che la poliginia non è altro che un aspetto della poligamia, che comprende anche la poliandria, pratica che, seppur molto più rara rispetto alla prima, è ancora oggi esistente in alcuni villaggi del Tibet e dell’India e permette alla donna di contrarre legittimamente matrimonio con due o più mariti (generalmente si tratta di due fratelli e pertanto si parla di poliandria adelfica).
Nonostante rappresenti una delle manifestazioni più estreme dei diritti religioso/culturali, ponendosi al crocevia tra protezione della famiglia e eguaglianza tra uomo e donna, il contrasto con le libertà di espressione e di associazione e con il principio d’eguaglianza tra uomo e donna fa uscire la poligamia dalla porta principale dall’ordinamento costituzionale canadese. D’altro canto, il conflitto con la libertà di religione non gli consente di rientrarvi nemmeno dalla finestra.
Anche se da un punto di vista formale la messa al bando della poligamia da parte dell’ordinamento canadese risale solamente al 1890, il rifiuto sociale di tale pratica nel mondo occidentale fa data sin dai tempi dell’impero romano. Il dettagliato percorso dell’evoluzione storica e sociale dell’istituzione famiglia condotto dal Chief Justice, unitamente all’analisi giuridica degli strumenti internazionali e del diritto comparato su tale istituto, costituiscono la base per lo sviluppo di una argomentazione strettamente logica e razionale che rende la decisione in commento apparentemente inattaccabile.
Secondo la Corte la norma che poligamia non limiterebbe le libertà di espressione, di associazione e di religione, cosi come non violerebbe il principio d’eguaglianza tra uomo e donna. Anche in caso contrario tali limitazioni non sarebbero protette nemmeno dalla general limitation clause prevista dalla section 1 della Charter (meccanismo che, per esigenze di mantenimento del sistema costituzionale, deve misurare se un eventuale limitazione ad un diritto fondamentale è ragionevolmente giustificata in una società libera e democratica).
Così, se da un lato appare intuitivo che la libertà di espressione di cui alla section 2 (b) non copre quella manifestazione del pensiero identificata nella formalizzazione del matrimonio poligamico e che la libertà di associazione non è limitata dal divieto delle unioni poligamiche – essendo queste ultime vietate non in quanto forme associative, ma perché idonee a provocare danni di natura fisica, psicologica e sociale –, ciò che veramente stimola la nostra curiosità è l’argomentazione sviluppata con riferimento alla libertà di religione.
Difatti profondo è il contrasto tra le conclusioni tratte nella decisione che si sta commentando e la dottrina elaborata dalla Corte suprema federale con riferimento al riconoscimento e alla tutela delle pratiche culturali e religiose, che ha permesso al multiculturalismo canadese di guadagnarsi l’immagine affascinante ed evocativa di “mosaico culturale”, le cui tessere di diversi colori – le diverse tradizioni culturali –, disposte l’una accanto all’altra, riproducono un’immagine armonica di un unico disegno.
Tra i vari precedenti che compongono il bagaglio giurisprudenziale canadese in materia di tutela delle pratiche culturali e religiose, è lo stesso giudice supremo della British Columbia a richiamare l’attenzione sui due leading cases in materia: Amselem e Multani.
Cosi, in Syndicat Northcrest v. Amselem [(2004) 2 S.C.R. 551] l’Alto tribunale si era pronunciato a favore della disapplicazione di una normativa condominiale che aveva disposto la rimozione di capanne provvisorie (le cd. succahs) costruite da alcuni condomini di religione ebraica nelle terrazze della loro abitazione per festeggiare il Succot (festa tradizionale ebraica che rievoca il pellegrinaggio verso la terra promessa). La ratio sottesa alla decisione del giudice supremo era da rinvenirsi nel fatto che le succahs non ledevano in alcun modo il diritto di proprietà degli altri condomini e allo stesso tempo non costituivano un pericolo per l’incolumità delle persone. L’inidoneità della pratica religiosa a produrre dei danni, unitamente al dovere di “accomodare” due posizioni giuridiche in contrasto tra loro, giustificava, secondo la Corte, la deroga alla normativa de qua.
La mancanza di idoneità lesiva costituisce il fulcro anche della sentenza Multani v. Commission scolaire Marguerite-Bourgeoys [(2006) 1 S. C. R. 256]. Di fronte al divieto di indossare armi negli istituti scolastici imposto dalle autorità scolastiche, che contrastava con il precetto religioso dei sikh di portare il coltello tipico kirpan, che, secondo la tradizione, servirebbe per combattere gli spiriti, la Corte suprema ha sostenuto che il coltello — se adeguatamente conservato in una custodia sigillata e osservando alcune cautele — potesse essere portato a scuola in quanto non pericoloso.
Se quindi l’elemento discriminatorio che consente ad una pratica religioso/culturale di essere accolta nella cornice costituzionale canadese è la sua capacità di produrre un danno, la poligamia è esclusa in quanto potenzialmente pericolosa. I danni che rischiano di prodursi, come sottolineato da studi di carattere psicologico, antropologico, economico e di altre discipline, sarebbero molteplici e si irradiano sia sulle persone direttamente coinvolte nell’unione poligamica, che sulla società in generale.
In primo luogo, le donne coinvolte nell’unione poligenica sarebbero sottoposte ad un elevato rischio di danni fisici e psicologici. Infatti, se da un lato, le statistiche dimostrano che numerosi sono i casi di violenza domestica e di abusi nell’ambito delle famiglie poligamiche, dall’altro ancora più gravi sarebbero i danni conseguenti alla competizione tra le diverse mogli conseguente all’“emotional access to a shared husband, che può condurre a sua volta a disturbi dell’umore ed altri problemi di natura psicologica e psichica. Senza considerare poi il fatto che, spesso si tratta di ragazze molto giovani, addirittura minorenni, sul cui libero consenso possono sorgere numerosi dubbi.
Inoltre, anche i figli che nascono da queste unioni tendono a soffrire problemi emotivi, comportamentali e fisici e danni di un certo rilievo sono stati osservati, nell’ambito delle comunità poligamiche, anche su quegli uomini che rimangono celibi nei confronti dei quali si è osservato un maggiore coinvolgimento in attività delittuose e comportamenti anti-sociali.
Nessuna via d’uscita può essere rinvenuta nella general limitation clause della section 1: difatti, la criminalizzazione della poligamia – e quindi la prevenzione dei danni che quella provocherebbe nei confronti delle donne, dei bambini e della società in generale – risponde alla necessità di fronteggiare delle preoccupazioni che sono pressing e substantial in una società libera e democratica.
Unico spiraglio lasciato aperto dal Chief Justice è rappresentato dal contrasto della disposizione che criminalizza la pratica in questione con la section 7 della Charter, norma che nel tutelare il diritto di ognuno alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, protegge la sfera fisica dell’individuo. Posto che le unioni poligamiche spesso coinvolgono dei minori, secondo l’Alto tribunale la loro libertà sarebbe violata dato che la section 293 del codice penale dispone quale pena per l’aver contratto un matrimonio poligamico la detenzione in un istituto di pena e quindi la privazione della libertà personale per “every one”, e quindi anche nei confronti di quelle giovani ragazze, che secondo le parole di Bauman, sarebbero vittime nel vero senso della parola [para 1200].
«I have concluded that this case is essentially about harm» [para 5]. Con queste poche parole, il Chief Justice ha riassunto l’essenza di tradizioni culturali che, seppur tra di loro eterogenee, condividono la poligamia come istituto cardine.
Vi è però un grande assente nella decisione in commento: si tratta della mancata considerazione che il pericolo insito nella poligamia deriva da un’indole spesso violenta che scaturisce in un patologico e distorto rapporto di ‘possesso parentale’, che travestito da pratica culturale desta nell’opinione pubblica forti reazioni di sdegno e di rifiuto nei confronti di una cultura accusata di essere violenta e discriminatoria. Indole che indifferentemente sceglie come luogo di sfogo le unioni monogamiche o quelle poligamiche.
Ma alla fine dei conti, quella raggiunta da Bauman non è forse una conclusione per alcuni versi apodittica, espressione di un imperialismo culturale legato alla presunzione che una forma di unione coniugale che si allontana dallo standard occidentale sia di per sé pericolosa?