Titolarità dello status di cittadino e divieto di discriminazione: le incognite regressive della sent. Savickis ed Altri c. Lettonia
In Lettonia, ad oltre trent’anni dal ripristino della sovranità originaria, interrotta nel 1940 a sèguito dell’occupazione sovietica, la condizione giuridica riservata agli immigrati giunti nei decenni successivi continua a porre dubbi di legittimità rispetto alle prescrizioni di fonte internazionale, che la recente sentenza resa dalla Grande Camera nel caso Savickis ed Altri non contribuisce certo a superare.
La complessità della vicenda, che si innesta su una pregressa evoluzione della giurisprudenza della stessa Corte EDU, sollecita, preliminarmente, un sintetico inquadramento delle scelte operate dal legislatore lèttone.
Già il 4 maggio 1990, dunque ancor prima di ristabilire la piena indipendenza dall’URSS, formalizzatasi il successivo 21 agosto 1991, le Autorità lèttoni, con la Dichiarazione sul ripristino dell’indipendenza, precisarono come la Lettonia non avesse mai perso, con l’incorporazione nell’URSS, la propria soggettività internazionale. Come nelle altre Repubbliche baltiche, fu quindi individuato quale cardine della ritrovata statualità il “principio di continuità” (Ziemele, 2005, 109 ss.), in forza del quale, stante l’illegittimità della suddetta incorporazione, avvenuta in violazione del diritto internazionale, la sovranità originaria, mai venuta meno de iure, sarebbe stata limitata soltanto de facto per oltre cinquant’anni.
Da tale assunto, denso di implicazioni su più piani, derivarono conseguenze molto nette anche su quello della cittadinanza (da ultimo, Pleps, 2022, 207 ss.). Il Parlamento transitorio, infatti, il 15 ottobre 1991, adottò la Risoluzione sul ripristino dei diritti dei cittadini della Repubblica di Lettonia e sui princìpi fondamentali in tema di naturalizzazione, con la quale si ribadì la persistente efficacia della «Legge sulla cittadinanza» del 1919 e l’automatico riconoscimento dello status civitatis, a prescindere dall’appartenenza nazionale, a chi ne fosse già stato titolare nel 1940 ed ai relativi discendenti. Conseguentemente, a tutti gli altri residenti, ovverosia agli immigrati giunti nel periodo sovietico da altre Repubbliche (soprattutto Russia, Bielorussia ed Ucraina), cittadini sovietici soltanto fino alla definitiva disgregazione dell’URSS nel dicembre 1991, fu precluso ogni automatismo nell’accesso alla cittadinanza lèttone; ciò fu subordinato a requisiti di naturalizzazione assai stringenti, che, di fatto, solo una piccola parte degli aspiranti riuscì, nel corso degli anni, a soddisfare (su questa evoluzione, Panzeri, 2021, 69 ss.).
Al fine di regolare la condizione di coloro che, privi della cittadinanza lèttone, avevano comunque deciso di restare nel Paese, nel 1995 fu approvata la «Legge sullo status degli ex cittadini sovietici privi della cittadinanza lèttone o di quella di altro Stato», che definì «nepilsoņi» («non-cittadini»), come precisato nella rubrica, tutti coloro che, già cittadini dell’URSS, avessero perso detto status a sèguito della dissoluzione sovietica senza però acquisire un’altra cittadinanza e, in particolare, quella della Repubblica ex sovietica d’origine. A favore degli appartenenti a questa categoria ed ai relativi discendenti, che oggi costituiscono ancora il 9,7% della popolazione (Oficiālās statistikas portals, 2021), la Legge riconobbe alcune garanzie – quali il diritto al mantenimento della lingua e della cultura nazionale, la protezione da parte delle Autorità diplomatiche e consolari lèttoni, il divieto di espulsione dal Paese ed il rilascio di uno speciale passaporto, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria –, ma introdusse, al contempo, molte limitazioni, tra l’altro, escludendo la titolarità dei diritti politici, l’accesso ai pubblici impieghi ed all’esercizio di alcune professioni (Panzeri, 2021, 103 ss.).
L’appartenenza a questa categoria si rifletté pregiudizievolmente anche sulla materia previdenziale, oggetto di riforma nel 1996, rispetto alla quale la condizione dei «nepilsoņi» si rivelò presto deteriore rispetto a quella dei cittadini lèttoni e, come tale, fonte di molte riserve. Esse derivavano dal fatto che le misure escludenti coinvolgevano persone anziane, per le quali, da un lato, il periodo lavorativo utile al fine della maturazione dei trattamenti pensionistici si era ormai concluso e, dall’altro, trattandosi di lavoratori spesso immigrati in età adulta, la soddisfazione delle condizioni per la naturalizzazione (soprattutto l’apprendimento della lingua lèttone, non necessario durante l’occupazione, stante il diffuso utilizzo di quella russa) si rivelava, nei fatti, eccessivamente onerosa.
Una questione particolarmente delicata si pose per coloro che, come spesso accadeva in epoca sovietica, avevano svolto la propria attività lavorativa in più Repubbliche dell’URSS. La legislazione previdenziale, infatti, riconobbe la rilevanza ai fini contributivi dei periodi di servizio già prestati al di fuori della RSS lèttone solo per coloro che, dopo il 1991, fossero stati riconosciuti cittadini lèttoni ai sensi della disciplina sopra richiamata; per i «nepilsoņi», invece, la disciplina di riferimento disponeva il computo dei soli periodi di lavoro prestati nella RSS lèttone, il che determinava un evidente pregiudizio al fine ora della maturazione del diritto al trattamento pensionistico ora, comunque, della determinazione del relativo importo.
In passato, la questione fu affrontata dalla Corte EDU nella sent. Andrejeva c. Lettonia del 2009, relativa al diritto alla pensione di una «non-cittadina» che versava nelle condizioni appena richiamate. La Grande Camera, in quella occasione, considerò il diniego dello Stato di riconoscere i periodi lavorativi svolti dalla ricorrente al di fuori della RSS lèttone come fondato esclusivamente sulla sua condizione di «non-cittadina», discriminata rispetto a chi, dopo il 1991, pur trovandosi nella medesima situazione, avesse acquisito la cittadinanza lèttone. In particolare, l’accertato difetto di una «ragionevole relazione di proporzionalità» avrebbe determinato la violazione dell’art. 14 CEDU in combinato disposto con l’art. 1 del Protocollo n. 1, senza che alcun pregio assumesse il rilievo per cui l’interessata, al fine di superare tale discriminazione, avrebbe avuto titolo per l’acquisto della cittadinanza mediante naturalizzazione.
Nel caso Savickis ed Altri la condizione dei ricorrenti era in parte analoga, coinvolgendo «non-cittadini» che, per periodi più o meno lunghi, avevano prestato servizio al di fuori della RSS lèttone, pur avendo qui concluso il proprio percorso lavorativo; ad essi, detti periodi non erano stati computati ai fini pensionistici, a differenza di quanto assicurato ai cittadini lèttoni aventi analoghi trascorsi professionali in altre Repubbliche ex sovietiche, ed in ragione di ciò gli stessi lamentavano un notevole pregiudizio nella quantificazione del trattamento.
Investiti della questione, dapprima, i giudici amministrativi e, poi, la Corte costituzionale – che, invocando il “principio di continuità”, escluse la sussistenza di alcun obbligo per la Lettonia rispetto a pretese maturate durante l’occupazione sovietica e, comunque, il fondamento su basi ragionevoli ed oggettive della lamentata disparità di trattamento –, la Grande Camera se ne è occupata nella recente sent. Savickis ed Altri c. Lettonia del 9 giugno 2022, nella quale, a maggioranza (dieci voti contro sette), diversamente da quanto accaduto nella sent. Andrejeva c. Lettonia, ha negato la violazione dei medesimi parametri convenzionali.
Escluso che la Convezione europea assicuri il diritto alla pensione o ad un determinato importo della stessa, il Collegio, muovendo dal cit. precedente, ricorda come eventuali disparità di trattamento possano essere giustificate solo in presenza di gravi ragioni, da valutare in base alle particolarità del caso ed entro i limiti del “margine di apprezzamento” riconosciuto ai singoli Stati (sul quale, tra gli altri, già Tanzarella, 2007, 145 ss.). Sebbene nei giudizi aventi come parametro il cit. art. 14, letto in combinato disposto con il cit. art. 1 del Protocollo n. 1, i giudici di Strasburgo abbiano costantemente definito in senso restrittivo detti limiti, estendendo al massimo l’àmbito materiale dei diritti tutelati dalla CEDU (Romeo, 2018, 9), la Grande Camera, nel caso concreto, si è orientata in senso differente. Essa, infatti, da un lato, ha ritenuto che la scelta operata dal legislatore lèttone sarebbe stata funzionale ad assicurare, oltre alla tenuta del sistema previdenziale, anche un interesse più profondo, ovverosia, in conformità al cit. “principio di continuità”, la stessa identità costituzionale della Lettonia, a tutt’oggi chiamata a confrontarsi con le conseguenze delle politiche migratorie promosse dalle Autorità sovietiche durante l’occupazione. Dall’altro lato, il Collegio ha escluso che la disparità di trattamento riservata ai «non-cittadini» violi il principio di proporzionalità, rilevando, tra l’altro, come tale condizione sia almeno in una certa misura riconducibile ad «un’aspirazione personale piuttosto che ad una situazione immutabile», giacché i ricorrenti, diversamente dalla Sig.ra Andrejeva, avrebbero avuto molto tempo per conseguire lo status di cittadini e, dunque, in questo modo, ottenere il pieno riconoscimento delle proprie aspettative.
A prescindere dalla differenza sussistente, in fatto, nella condizione dei ricorrenti nei due giudizi (in particolare, l’esistenza di un legame più stabile della Sig.ra Andrejeva con la Lettonia, ivi già residente durante i periodi di lavoro in altre Repubbliche, rispetto a quello accertato negli altri casi), la posizione assunta dalla Grande Camera suscita qualche riflessione critica.
Innanzi tutto, il formale riconoscimento della protezione dell’identità costituzionale dello Stato quale obiettivo legittimante, pur all’esito del giudizio di proporzionalità, una disparità di trattamento pare densa di implicazioni problematiche (Nugraha, 2022), potendo essa dischiudere sviluppi imprevedibili rispetto a condotte ispirate da posizioni identitarie o nazionalistiche spesso latenti in molti Paesi aderenti alla CEDU, soprattutto dell’Europa centro-orientale. La rimessione agli Stati del bilanciamento tra rispetto degli obblighi pattizi e tutela di interessi interni, pur rilevanti, sollecita poi un controllo molto stringente a tutela dei diritti di fonte convenzionale, che, in questo caso, attribuendo una rilevanza dirimente alla titolarità della cittadinanza quale condizione per soddisfare interessi statali ritenuti meritevoli di apprezzamento, è stato operato in termini meno rigidi che in passato (cfr. Forlati, 2009, 231 ss.). Ma, come opportunamente sostenuto nell’opinione dissenziente resa dai giudici O’Leary, Grozev e Lemmens, se, da un lato, è legittimo che una legge statale escluda dal computo del trattamento previdenziale i periodi di lavoro svolti all’estero, dall’altro, ove si decida per il relativo riconoscimento, come avvenuto in questo caso, è necessario che ciò avvenga senza alcuna discriminazione, tanto meno – si sottolinea – se fondata sulla cittadinanza.
Il passaggio argomentativo più problematico della decisione va però individuato nel riferimento alla mancata richiesta della cittadinanza quale variabile dirimente nel giudizio di proporzionalità (Ganty, Kochenov, 2022). Se, infatti, nella sent. Andrejeva c. Lettonia, la Grande Camera aveva escluso qualsiasi rilevanza di una richiesta in tal senso al fine di accertare l’eventuale violazione dei parametri convenzionali, in questo caso il Collegio sembra attribuire ad una pretesa scelta dei ricorrenti la tollerabilità della discriminazione patita. Ciò, peraltro, non solo trascura l’oggettiva difficoltà del procedimento di naturalizzazione – il cui esito, nonostante alcuni interventi di semplificazione introdotti nel corso degli anni, prescinde dalle sole aspirazioni personali dell’interessato – e l’irrilevanza ex tunc, ai fini del ricalcolo del trattamento, dell’eventuale naturalizzazione, ma, anche, respingendo le attese dei ricorrenti in quanto astrattamente legittimati ad evitare la discriminazione, rischia di privare di ogni sostanza la tutela offerta dall’art. 14 CEDU. Soprattutto, questo argomento finisce con il riconoscere nella titolarità della cittadinanza, piuttosto che nell’esistenza di stabili legami tra l’individuo e lo Stato di residenza, la condizione per il pieno godimento dei diritti della sfera economico-sociale, introducendo un principio non conforme a quanto ormai da tempo affermato dalla consolidata giurisprudenza della stessa Corte EDU.