The Last of The Fathers. James Madison e le origini dell’originalismo
Il bel post di Alessandra Di Martino – che recensisce il volume di Jack Balkin, Living Originalism – offre l’occasione per tornare a parlare di originalismo. Non v’è dubbio che il dibattito sul tema si sia in massima parte concentrato sulla versione prospettata da Antonin Scalia, il quale nel suo A Matter of Intepretation, ma anche in diverse Opinions redatte da giudice della Corte Suprema, ne ha offerto un’accezione estrema, strettamente correlata con un’interpretazione testualista della Costituzione (… e con una lettura conservatrice delle posizioni dei Fathers che è, comunque, storicamente discutibile: ma di questo, semmai, in altra sede).
Diversamente, la ricchezza degli approcci originalisti era ben chiara agli studiosi più risalenti, che tuttavia non ebbero la fortuna di coniarne il termine: penso, su tutti, a J.G. Wofford (The Blinding Light: The Uses of History in Constitutional Interpretation, in Univ. Chic. Law Rev., 31/1963-64), che riconduceva all’originalismo tre distinte operazioni: il ricorso alle intenzioni dei padri fondatori, il ricorso al significato originario della terminologia costituzionale, il ricorso alla comprensione del problema all’origine della formulazione delle disposizioni costituzionali, prospettando così un insieme molto articolato di prassi interpretative non coerenti tra loro, tutte parimenti problematiche.
Il merito del libro di Balkin, secondo quanto riferito da Di Martino, sta ora nello svelare la pluralità di approcci interpretativi coerenti con una matrice originalista, fino ad un approdo in grado di coniugare la fedeltà per il progetto dei costituenti con un’interpretazione evolutiva della Costituzione.
Sollecitato dal suo post, ho allora provato a smarcarmi dalla rigida dicotomia imposta da Scalia, ed ho cercato di ricondurre il problema dell’originalismo al campo, più variegato e complesso, dell’interpretazione costituzionale nel rapporto tra intenzioni originarie e mutamenti del contesto storico.
Ora, a me pare che il tema si ponga molto presto nella riflessione americana, ed in particolare con l’ascesa al potere locale e federale di una generazione di politici diversa da quella che dominò il processo costituente e le istituzioni nella stagione della early republic (G.N. Magliocca, Andrew Jackson and The Constitution).
Infatti, con l’emergere di una nuova generazione di politici, emblematicamente segnata dall’ascesa alla Casa Bianca di Andrew Jackson – il primo Presidente non appartenente alla generazione dei costituenti – la qualità dei problemi di interpretazione costituzionale muta sensibilmente. Le tensioni costituzionali divengono più radicali, più incisive, fino a coinvolgere le fondamenta dell’assetto dei poteri e della stessa unione federale: è così nello scontro sui poteri presidenziali, a fronte della pretesa di Jackson di rimuovere il governatore della Banca centrale senza il consent senatoriale, o per la prassi di portare il potere di veto sul terreno dello scontro politico (penso, tra gli altri, al veto di Jackson sulla seconda Banca federale); è così, ancora, con riguardo alla contestazione della prevalenza delle sentenze della Corte Suprema (Jackson stesso ebbe a dire: «Mr. Marshall took his decision, now let him enforce it»).
Ma soprattutto, esplode in quegli anni la polemica sulla «nullification», la pretesa di alcuni legislativi statali di esprimere un veto sulla legge federale, ove ritenuta contraria agli interessi dello Stato (la tesi, come è noto, fu elaborata da Calhoun ed appoggiata dal South Carolina).
È in questo brusco passaggio di idee, uomini e modi della politica (come è noto, con Jackson il passaggio alla socialità democratica si accelera enormemente) che si pone per la prima volta l’argomento originalista, perché per la prima volta occorre difendere le conquiste della generazione costituente.
E lo sguardo più interessante per descrivere il problema dell’interpretazione costituzionale in questa frattura è senz’altro quello di James Madison, il più longevo della generazione dei costituenti («The Last of The Fathers», secondo il titolo dell’eccellente biografia di Drew McCoy, del 1989, che qui uso abbondantemente).
Terminato il suo secondo mandato presidenziale, Madison si ritira a vita privata presso Montpelier, Virginia, molto vicino alla località di Monticello, dove pure il suo mentore e predecessore Thomas Jefferson aveva deciso di trascorrere la propria vecchiaia. Ma diversamente da Jefferson, Madison mantenne una costante vigilanza sulla politica americana, su cui cercò di influire specialmente attraverso fitti carteggi con i protagonisti ed articoli pubblicati su giornali e riviste.
Così, quando nel 1829 iniziano a spirare i venti di crisi contro le Tariffe disposte dalla Federazione, i promotori della protesta antifederale trovano naturale rivolgersi a Madison, in cui vedevano soprattutto il Presidente del veto sul Bonus Bill, una delle più ferme e coerenti prese di posizione per i diritti degli stati, contro un’interpretazione ampia della clausola della interstate commerce clause («The legislative power vested in Congress are specified and enumerated in the eighth section of the first article of the Constitution, and it does not appear that the power proposed to be exercised by the bill is among the enumerated power, or that it falls, by any just interpretation, within the power to make laws necessary for carrying into execution those or other powers vested by the Constitution in the Government of the United States […]. Such a view of the Constitution would have the effect of giving to Congress a general power of legislation»).
Ma il Madison di Montpelier non è più quello – decisamente jeffersoniano – degli anni della presidenza, e le sue risposte deludono gli attivisti del fronte antitariffario. Anzi, Madison nutre timore e sfiducia nei confronti dei giovani nullificatori: a loro ricorderà, piuttosto, la sua battaglia da padre costituente per l’affermazione di un potere di negative del Congresso federale sulle state laws, una proposta, contenuta già nel Virginia Plan, che Madison avanzò a Filadelfia, coerentemente con la sua lotta contro i legislative evils prodotti dai Congressi statali nel decennio di transizione. Quando, pochi anni più tardi, Calhoun esplicitò la propria teoria sulla nullification, Madison comprese che era in gioco una ridefinizione delle fondamenta stessa dell’Unione, e prese a sollecitare ed a concepire egli stesso un’opera di ricostruzione storica delle vicende degli anni ottanta del secolo passato. Al giovane Trist, che maturava tale proposito, replicava: «I have long wished for such a work, not only for its future value … but for the salutary light it would give to those who where not contemporaries with those interesting scenes in our Revolutionary drama, and are liable to be misled by false or defective views of them».
Per Madison, insomma, il problema posto dai nullificatori non è né un problema politico – di rapporti di forza, come mostrerà di concepirlo, e con successo, Jackson, favorendo il compromesso del 1833 – né un problema giuridico, secondo la versione prospettata da Calhoun, che resterà di fatto senza risposta sotto il profilo teorico: per Madison è, invece, un problema storico e generazionale. A distanza di più di quarant’anni da Filadelfia, le conquiste della generazioni dei Padri sono ora in discussione e l’interpretazione costituzionale deve prendere le mosse dalla comprensione del passato.
Non può stupire che proprio in questo frangente Madison decida di dedicare le sue ultime energie alla compilazione dei suoi resoconti dei dibattiti di Filadelfia, trascritti in forma diaristica durante le sedute di allora: infastidito dalle letture di convenienza delle sue posizioni, invero all’apparenza ondivaghe, e delle ragioni che avevano spinto i costituenti a optare per determinate soluzioni normative, Madison avverte l’esigenza di mettere nero su bianco il tenore dei dibattiti costituenti, fissandole per i posteri (di qui, come è noto, anche l’attenzione che occorre prestare nell’uso dei Madison Debates per la ricostruzione dei lavori di Filadelfia, che vanno sempre contestualizzati rispetto alle intenzioni del Madison di Montpelier – come prova proprio l’enfasi che nei Debates è conferita alla proposta della negative sulle state laws, che Madison avrebbe proposto e riprosto in diverse fasi dei lavori costituenti).
Nonostante questo impegno nella scrittura dei Debates, certamente dettato da una vivace antipatia per le posizioni dei giovani nullificatori di Virginia e South Carolina, l’originalismo madisoniano non divenne mai rigido testualismo né acquiescenza incondizionata all’original intent dei costituenti: per Madison, l’intenzione dei Fathers non è scolpita nella lettera della Costituzione, ma deve essere ricostruita alla luce di una ricerca storica che sappia scandagliare i problemi e le condizioni reali con cui essi ebbero a confrontarsi. Per lui, il testualismo mortifica le virtualità evolutive della Costituzione; conseguentemente, egli accettava trasformazioni interpretative condivise dagli attori politici e stabilite dalla prassi costituzionale, dall’acquiescenza, dai precedenti istituzionali ed interpretativi.
Molto significativo, da questo punto di vista, il veto opposto nel 1815 alla legge sull’istituzione della seconda Banca nazionale: rinviando il provvedimento, il Presidente preferì ricorrere a ragioni di merito, muovendo puntuali obiezioni circa l’opportunità del provvedimento, dichiarando preliminarmente di voler tralasciare la questione della spettanza federale o statale della relativa competenza – questione su cui egli stesso si era più volte pronunciato in precedenza, e che avrebbe costituito ancora per molti anni il principale fronte di scontro tra i fautori di un indirizzo centralistico di politica economica ed i sostenitori di un’interpretazione restrittiva delle competenze federali. Considerando oramai appurata la legittimità costituzionale della banca nazionale, Madison preferì argomentare adducendo motivi di merito, anche per lasciare aperta la strada ad una modifica del progetto. In buona sostanza, la diffusione di una diversa opinione circa la costituzionalità del provvedimento ha prevalso sulla purezza della pur rigorosa interpretazione maturata da Madison negli anni.
E questo approccio interpretativo, coerente nei tanti anni vissuti da protagonista della scena politica, è forse quella linea rossa che in tanti hanno cercato, non trovandola, nella storia politica di Madison (una lettura storiografica in A. Gibson, The Madisonian Madison and the Question of Consistency: The Significance and Challenge of Recent Research, in The Review of Politics, 2/2002, pp. 311 e ss.). Strenuo difensore dell’opzione federale a cavallo della Convenzione di Filadelfia, poi tutore dei diritti degli stati durante gli anni a fianco di Jefferson alla segreteria di Stato ed i due mandati alla presidenza, di nuovo difensore della federazione nella polemica con i nullificatori. Apparenti oscillazioni, che riacquistano coerenza se considerate alla luce di un’interpretazione storica della Costituzione, orientata alla difesa di un “legato repubblicano” (ancora McCoy): la salvaguardia delle condizioni di unità nazionale, da tutelare con equilibri e contrappesi a contenimento della «vicious legislation» (secondo le stesse parole di Madison a Filadelfia), fosse quella degli stati prima di Filadelfia, quella del Congresso a maggioranza federalista nei primi dell’ottocento, quella dei legislativi nullificatori nel 1832.
Mi pare che la peculiare interpretazione storica della Costituzione fatta propria da Madison possa aiutare a collocare il dibattito odierno sull’originalismo, forse proprio sostenendo l’accezione valorizzata da Balkin, nel suo Living Originalism: conservare «i principi, le promesse e gli impegni (principles, promises and commitments) racchiusi nel testo della costituzione» – come scrive Di Martino – è appunto il senso di quel “legato repubblicano” che Madison lascia alle generazioni future di interpreti
della Costituzione.