Tempo da lupi per il diritto alla casa

Il 20 maggio la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di conversione del Decreto legge n. 47 del 2014, recante misure per fronteggiare l’emergenza abitativa e relative all’Expo 2015 (cd. Decreto “Lupi”).

Tra le numerose disposizioni relative all’emergenza abitativa una, in particolare, suscita l’attenzione del costituzionalista ed è stata oggetto di vivaci contestazioni da parte dei movimenti per il diritto all’abitare. Si tratta dell’oramai noto articolo 5, che prevede sanzioni particolarmente aspre per coloro che occupino abusivamente un immobile. In particolare, la norma prevede che chi occupa abusivamente un immobile non possa più richiedere la residenza e l’allacciamento ai pubblici servizi; in aggiunta si prevede, con disposizione a carattere generale introdotta dalle Camere in sede di conversione, che non si possa più chiedere l’attivazione o la volturazione di un contratto di fornitura di energia elettrica, acqua o gas senza esibire un valido titolo di possesso o detenzione dell’immobile di utenza della fornitura, anche attraverso il ricorso alla dichiarazione sostitutiva di certificazioni. Infine, sempre in sede di conversione, è stata introdotta una disposizione sanzionatoria (comma 1 bis) ai sensi della quale a chi occupa abusivamente un alloggio di edilizia residenziale pubblica è preclusa, per i cinque anni successivi all’accertamento dell’occupazione abusiva, l’assegnazione di alloggi della medesima natura.

Si tratta, come evidente, di previsioni assai aspre, che incidono in profondità non solo sulla tenuta del diritto all’abitare – che trova nelle pratiche di occupazione abusiva una valvola di sfogo che, seppur formalmente censurabile da parte dell’ordinamento, mette al tempo stesso in luce l’effettiva portata dell’emergenza abitativa nella concreta esperienza di vita dei soggetti interessati (sul punto, v. S. Talini, Piano casa Renzi-Lupi, art. 5: quando la cieca applicazione del principio di legalità contrasta con la garanzia costituzionale dei diritti fondamentali, in  costituzionalismo.it) – ma anche sull’effettività dei molteplici diritti ad esso a vario titolo collegati.

La dottrina costituzionalistica ha infatti da tempo messo in luce (a partire dal noto scritto di Martines del 1972 sul diritto alla casa) che il diritto all’abitare, lungi dal risolversi nella protezione dell’interesse economico alla proprietà  o al godimento di un immobile di prima abitazione, si pone in strettissimo contatto con la pari dignità sociale degli individui e, più in generale, con tutta una serie di diritti strettamente attinenti all’eguaglianza materiale delle condizioni di vita. Il diritto ad un’abitazione, si potrebbe affermare in estrema sintesi, mira a garantire l’adeguata proiezione spaziale della dignità dell’individuo e rappresenta la precondizione per il godimento di libertà fondamentali (si pensi solo alla libertà di domicilio) e di diritti sociali (come il diritto alla salute o all’istruzione), nonché, più in generale, per la garanzia a persone e famiglie di quell’esistenza “libera e dignitosa” di cui parla l’art. 36.

Questa fitta rete di connessioni tra il diritto all’abitare e la posizione costituzionale della persona e della sua dignità è colpita frontalmente dalla disposizione in esame. Si pensi, solo per fare un esempio, all’impossibilità di chiedere ed ottenere la residenza: tale divieto, oltre a precludere l’accesso a tutta una serie di servizi pubblici che dalla residenza derivano e, dunque, a pregiudicare il godimento dei relativi diritti (si pensi all’accesso a servizi scolastici e sanitari), incide in profondità sulle implicazioni del rapporto tra persona e territorio, e sulla sua proiezione sulla concreta configurazione della comunità politica. Infatti, la fonte dello status di residente e dei diritti connessi è individuata non più nella premessa di fatto del radicamento della persona sul territorio e, dunque, nella comunità, bensì nel titolo giuridico del possesso o della detenzione dell’immobile, con significative ricadute sulla capacità di inclusione delle pubbliche amministrazione, oltre che, più in generale, sulla stessa immagine della comunità politica (sul punto, vedi ancora S. Talini, cit.). O si pensi, ancora, alla portata del comma 1 bis che, precludendo per un quinquennio l’accesso ad alloggi di edilizia popolare a coloro che abbiano occupato abusivamente immobili di tale natura, prolunga la condizione di marginalità sociale di tali persone, anziché porre ad essa un argine.

A tali considerazioni si deve aggiungere, come profilo di  ulteriore gravità, la circostanza che l’art. 5 non opera solo per l’avvenire, come deterrente rispetto a future pratiche di occupazione, ma colpisce anche le situazioni abitative esistenti, comminando la nullità dei provvedimenti di riconoscimento della residenza, di concessione dell’allacciamento a pubblici servizi e ai contratti di fornitura già posti in essere.

La ponderazione tra le posizioni – costituzionalmente rilevanti e tra di loro confliggenti – vantate da un lato dai proprietari degli immobili occupati e dall’altro dai soggetti che rivendicano, da posizioni di marginalità sociale, una condizione abitativa degna (e dignificante), è pertanto risolto dal legislatore con esclusivo riguardo alla salvaguardia del diritto di proprietà, senza alcuna considerazione delle effettive implicazioni dell’emergenza abitativa sui processi di inclusione sociale e, in definitiva, sulla stessa integrazione della comunità politica. Tutto al contrario, come recita la stessa rubrica della disposizione in commento (“Lotta alle occupazioni abusive di immobili”), Governo e legislatore si muovono in un’ottica dichiaratamente repressiva e antagonistica, solo in minima parte compensata dalle altre previsioni del decreto, relative all’incentivazione di politiche abitative attente alle situazioni di disagio sociale.

Oltre all’impatto specifico sul diritto all’abitare e sugli altri diritti di cittadinanza sociale ad esso connessi, la disposizione in esame suscita pertanto l’attenzione del costituzionalista anche con riguardo alle modalità di gestione e integrazione del conflitto sociale e di mediazione degli interessi in sede di rappresentanza politica.

La risposta autoritaria alle occupazioni abusive di immobili dimostra che, attorno al diritto all’abitare si combatte, nel contesto della crisi economica e sociale di questo nostro tempo, una battaglia fondamentale, profondamente connessa con la qualità e l’effettività della democrazia. In virtù del suo legame con la promozione sociale della persona ed il superamento di condizioni di marginalità sociale, la rivendicazione del diritto alla casa rappresenta oggi uno snodo essenziale delle nuove dinamiche che inverano – o ambiscono ad inverare – il legame tra democrazia e partecipazione sociale.

Le pratiche di auto-organizzazione, autodeterminazione e cooperazione solidale che non di rado sono alla base delle occupazioni, unitamente all’estrema varietà della fenomenologia delle occupazioni – perché, solo per fare un esempio, mettere sullo stesso piano, l’occupazione di immobili pubblici o privati abbandonati (con annesse virtualità positive in termini di recupero), con l’occupazione di immobili privati di recente costruzione e ancora invenduti? – possono infatti rappresentare una risorsa importante per la qualità della vita democratica, specie nel contesto della crisi delle prestazioni integrative della rappresentanza politica: per esserlo, tuttavia, dovrebbero essere ascoltate e comprese, e non aspramente fronteggiate e represse.

La promozione sociale della persona attraverso la garanzia di una abitazione adeguata nasconde pertanto una fondamentale istanza di democrazia ed invita a riflettere non solo sullo stato delle politiche per i diritti, ma anche sull’evoluzione del rapporto tra rappresentanza e crisi. Ne va della pari dignità sociale di cui parla l’art. 3 della nostra Costituzione così come della tenuta della formula costituzionale di convivenza.

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