Sull’intervento dell’Unione delle Camere Penali nel giudizio di costituzionalità delle norme in materia di astensione degli avvocati: Verso un timido allargamento del contraddittorio agli enti esponenziali?
Il 10 luglio 2018 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme in materia di astensione dalle udienze da parte dei difensori di persone in stato di custodia cautelare o di detenzione (sent. n. 180/2018).
Nel merito, la Corte ha ritenuto incostituzionale, per violazione dell’art. 13 Cost., la disposizione dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990 n. 146 nella parte in cui, rinviando al codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, consente l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, con ovvie ripercussioni sulla durata di quest’ultima, stabilendo che il procedimento prosegua malgrado l’astensione dell’avvocato solo ove l’imputato lo richieda espressamente. Limitando la questione alla fattispecie riguardante gli imputati sottoposti a custodia cautelare – e non i detenuti -, la Corte ha sanzionato tale disciplina nella misura in cui essa istituisce una regolamentazione dell’assenso dell’imputato sottoposto a custodia cautelare che ha una diretta ricaduta sul suo stato di libertà, in violazione della riserva di legge stabiolita dall’art. 13 Cost.
Al di là dell’importanza della decisione nel merito, la sentenza è altresì degna di nota per un aspetto procedurale. La Corte costituzionale ha infatti ritenuto ammissibile l’intervento dell’Unione delle Camere Penali Italiane (di seguito UCPI). Se si tratta di una decisione di ammissibilità inedita per l’UCPI (come dalla stessa affermato in un comunicato), essa costituisce altresì una grande novità nella giurisprudenza costituzionale in materia di intervento, tradizionalmente marcata da una tendenza alla chiusura ai terzi.
Per quanto la Corte citi i propri precedenti e si avvalga della tecnica del distinguishing per limitare la portata della decisione e iscriverla così nella continuità della propria giurisprudenza, la decisione segna indubbiamente un importante passo in avanti in materia di ammissione del terzo, e in particolare del terzo portatore degli interessi di una categoria.
Per comprendere appieno la portata della decisione di ammissibilità di quest’intervento, è utile richiamare brevemente la giurisprudenza in materia, che ha visto un’evoluzione articolatasi essenzialemente in tre fasi.
Nel silenzio dei testi normativi, che non avevano previsto alcunché sull’intervento dei terzi, la prima fase, dal 1956 ai primi anni Novanta, è stata caratterizzata da un approccio di chiusura (fatta salva un’eccezione, nel 1982, definita tale dalla Corte stessa), fondato sul principio della corrispondenza formale tra parti del giudizio a quo e parti del giudizio ad quem.
Gli anni Novanta sono stati invece segnati da una fase che potremmo definire sperimentale, nella quale la Corte ha iniziato ad ammettere una serie di eccezioni al principio della non ammissibilità degli interventi, in favore sia di terzi persone fisiche che di organizzazioni sindacali, professionali o religiose. Prima di tutto sono stati ammessi gli interventi di persone fisiche che avrebbero subito direttamente gli effetti della decisione nel giudizio a quo, e la cui ammissione era dunque fondata sul diritto di difesa, in nome del quale “non [si può] ammettere, alla luce dell’art. 24 della Costituzione, che vi sia un giudizio direttamente incidente su posizioni giuridiche soggettive senza che vi sia la possibilità giuridica per i titolari delle medesime posizioni di <difenderle> come parti nel processo stesso” (n. 314/1992). Le fattispecie di ammissibilità degli interventi ricondotte all’esigenza di tutela del diritto di difesa sono state poi enumerate nella motivazione della decisione n. 315/1992, che ha stilato il catalogo delle tre eccezioni fino ad allora riconosciute. Negli anni successivi, tuttavia, la Corte ha esteso il catalogo delle eccezioni al di là delle ipotesi sistemizzate in tale decisione, ritenendo ammissibili degli interventi da parte di enti esponenziali rappresentativi degli interessi di una categoria. In questa fase, mentre gli interventi da parte di associazioni di difesa di diritti non sono mai stati ritenuti ammissibili, la Corte si è invece mostrata più sensibile alle domande di intervento da parte di ordini professionali (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, sent. n. 456 del 1993; Consiglio nazionale forense sent. 171/1996), associazioni di categoria (SIAE, sent. n. 108/1995) o enti rappresentativi degli interessi dei propri membri (Unione delle comunità ebraiche italiane, UCEI, sent. n. 235/1997).
A seguito di questa fase di apertura, caratterizzata da un approccio casuistico e dalla totale assenza di criteri predefiniti di ammissibilità degli interventi, la Corte è sembrata tornare sui propri passi, nel corso degli anni Duemila, e ciò malgrado la codificazione degli interventi del terzo nelle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale in occasione della riforma del 2004. In questa nuova fase di chiusura, le sole eccezioni alla regola dell’inammissibilità degli interventi sono state fondate sul diritto di difesa, essenzialmente in favore di persone (fisiche o giuridiche) la cui sfera giuridica potesse essere direttamente lesa dagli esiti della pronuncia sul giudizio a quo. Come ricordato dalla Corte nella sentenza in commento, “la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo” ma, prosegue la Corte, “a tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – quando l’intervento è spiegato da soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura”.
In applicazione di questo adagio, la Corte ha sistematicamente respinto gli interventi da parte di enti esponenziali che chiedessero di prendere parte al giudizio in nome del proprio scopo statutario, volto alla difesa degli interessi coinvolti nel giudizio. Il ventaglio dei gruppi i cui interventi sono stati dichiarati inammissibili va dagli ordini professionali, ai sindacati e agli altri gruppi di categoria, alle associazioni per i diritti civili e ad altri gruppi in difesa dei diritti dei propri membri. La loro funzione di rappresentazione dei diritti di una categoria e l’indicazione della difesa di tali diritti quale scopo statutario non sono ritenuti idonei a fondare l’interesse a intervenire: per la Corte, tali formazioni sociali “non sono titolari di un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla pronuncia” nella misura in cui “il rapporto sostanziale dedotto in causa concerne solo profili attinenti alla posizione dei soggetti privati parti del giudizio a quo” (Corte cost. n. 76/2016). Laddove il terzo non sia dunque suscettibile di subire direttamente gli effetti della decisione sulla propria situazione giuridica, la circostanza che esso sia un ente esponenziale che indichi la difesa giudiziaria dei diritti di una determinata categoria quale scopo della propria esistenza è considerata un mero interesse fattuale, non giuridicamente qualificato ai fini della partecipazione al giudizio costituzionale. Per quanto riguarda i gruppi portatori degli interessi di una categoria professionale, le uniche eccezioni nelle quali sono stati ammessi sono quelle in cui gli effetti della decisione di costituzionalità sul giudizio a quo avrebbero prodotto degli effetti diretti sulla sfera giuridica degli stessi, o perché l’eventuale annullamento della norma censurata avrebbe rimesso in discussione l’esistenza stessa dell’ente (Corte cost. ord. n. 200/2015) o per l’unitarietà della situazione sostanziale dell’ente interveniente rispetto all’ente parte del giudizio e pertanto ammesso alla medesima procedura (Corte cost. sent. n. 178/2015).
È alla luce di questa giurisprudenza ormai consolidata che la decisione in commento va inquadrata.
Nel caso di specie, la Corte fonda di fatti su di essa l’ammissibilità dell’intervento, insistendo sul rispetto dei propri precedenti e limitando così la portata innovatrice della pronuncia. Osserva infatti la Corte che “la posizione dell’interveniente, pur estranea al giudizio a quo, è suscettibile di restare direttamente incisa dall’esito del giudizio della Corte” poiché “l’interveniente è una delle associazioni che hanno sottoposto alla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati” (par. 4 cons.dir). Seppur ermetica, la motivazione dell’ammissione dell’intervento sembra però celare diversi criteri di ammissibilità che meritano di essere messi in luce.
Ciò che qualifica l’interesse ad intervenire del terzo, e differenzia dunque la sua posizione rispetto a quella di un qualunque ente esponenziale rappresentativo della categoria dei destinatari della norma oggetto, è che la UCPI è coautrice delle norme del codice di autoregolamentazione a cui rinvia la disposizione censurata. Non è tuttavia ben chiaro in che modo la UCPI, in quanto associazione coautrice di tali norme, subirebbe “direttamente e irrimediabilmente” gli effetti della sentenza, dal momento che il codice di autoregolamentazione, una volta ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia, costituisce una vera e propria normativa subprimaria, alla quale sono dunque sottomessi allo stesso titolo tutti i destinatari della legislazione vigente che ad essa rinvia. Il criterio di ammissibilità qui formulato dalla Corte – la partecipazione ad un procedimento finalizzato all’adozione di “una vera e propria normativa subprimaria e non già solo un atto di autonomia privata delle associazioni categoriali” (par. 17) – sembra pertanto costituire un criterio autonomo e alternativo rispetto a quello riservato ai titolari di “un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla pronuncia”. E si noterà peraltro che tale criterio, così formulato, potrebbe allora trovare applicazione, come suggerito in passato da una parte della dottrina, anche nelle ipotesi in cui gli enti esponenziali intervenienti siano stati coinvolti nella procedura di adozione di un atto normativo, pur senza esserne formalmente gli autori.
La Corte prosegue poi con un’affermazione che sembra celare un ulteriore criterio di ammissibilità, fondato sulla funzione di rappresentanza del terzo. Si legge infatti che “un’eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sul giudizio a quo produrrebbe necessariamente un’immediata incidenza sulla posizione soggettiva dell’UCPI, ente rappresentativo degli interessi della categoria degli avvocati penalisti”. Per quanto nessuna congiunzione leghi in un rapporto di causalità il fatto che la UCPI sia l’ente rappresentativo dei penalisti alla conseguenza che essa subirà necessariamente gli effetti della pronuncia, questa frase suona come un obiter che attribuisce alla funzione di rappresentanza una certa considerazione sul piano della qualificazione della posizione del terzo. Non sarebbe peraltro la prima volta: nella fase di sperimentazione nel corso degli anni Novanta, infatti, la Corte aveva già avuto modo di considerare la funzione di rappresentanza assolta dagli ordini professionali quale elemento da prendere in considerazione nella valutazione dell’ammissibilità dei loro interventi (Corte cost. sent n. 171/1996).
Ci sembra dunque che, sebbene la decisione sull’ammissibilità dell’intervento sia espressamente fondata sulla giurisprudenza consolidata, qualche elemento di novità si possa rinvenire nel criterio della partecipazione al procedimento di adozione di una norma e nella funzione di rappresentanza assolta dal terzo. Elementi che, certo, dovranno trovare conferma in pronunce future e che, se così fosse, potrebbero denotare un timido allargamento delle porte del contraddittorio nel giudizio costituzionale in favore degli enti esponenziali.
Un tale approccio, che va senz’altro accolto con favore nell’ottica di un giudizio costituzionale più aperto e trasparente, potrebbe peraltro non essere circoscritto alle sole associazioni di categoria, ma essere invece esteso a diversi enti esponenziali che, con una certa regolarità, chiedono di intervenire nei giudizi concernenti gli interessi di cui sono portatori.
In un recente studio abbiamo potuto mettere in evidenza l’importanza quantitativa di tali interventi. Malgrado il consolidato approccio di chiusura nei confronti degli interventi da parte di associazioni, sindacati e ordini professionali, questi continuano a bussare alle porte della Consulta ogniqualvolta una questione di costituzionalità è suscettibile di incidere sui diritti e gli interessi di cui sono portatori ben oltre i confini del solo giudizio a quo. Se tali tipi di intervento rappresentavano una minoranza rispetto al totale delle istanze di intervento ricevute dalla Corte fino al 2008, nell’ultimo decennio essi costituiscono il 65% degli interventi depositati, complice la diffusione di tecniche di strategic litigation e il crescente interesse degli enti esponenziali per la promozione dei diritti nell’ambito giudiziario. Ciò siginifica che gli enti esponenziali sono già in qualche modo attori del giudizio costituzionale, a dispetto della loro formale esclusione, e ciò con un evidente vulnus alla trasparenza della procedura, che vede le loro memorie di intervento “entrare” momentaneamente nel giudizio e nella disponibilità dei giudici costituzionali, fino alla dichiarazione di inammissibilità, salvo poi non poter essere formalmente versate agli atti ove dichiarate inammissibili.
Dopo l’occasione persa del 2008, quando la Corte non ha ritenuto di dover modificare la disciplina dell’intervento all’interno della nuova versione delle Norme integrative, è forse venuto il momento di affrontare la questione, quanto meno in via giurisprudenziale. Questa pronuncia potrebbe allora costituire un primo passo in tal senso.