Sul caso Baka c. Ungheria: la Corte Edu condanna la “distruzione” della separazione dei poteri (e della libertà di espressione)
Come la “distruzione della ragione” perpetuata dall’irrazionalismo anti-illuminista ha contraddistinto il retroterra teorico-culturale dell’esperienza nazista e dei totalitarismi europei (secondo l’intuizione del grande filosofo magiaro György Lukács), così la nuova Costituzione ungherese ha tradotto in termini normativi la democrazia plebiscitaria e il “bonapartismo” populista di Viktor Orban, “distruggendo” – o quanto meno rivedendo al ribasso – il sistema di pesi e contrappesi che caratterizzava il precedente regime costituzionale. La (spericolata?) analogia consente di cogliere l’importanza della pronuncia della Corte Edu: nonostante Baka v. Hungary coinvolga, in punto di stretto diritto convenzionale, il grado di tutela offerto dalla Convenzione alla libertà di espressione, le circostanze del caso concreto e le conseguenti argomentazioni dei giudici di Strasburgo lasciano intravvedere un orizzonte ben più ampio, che colloca il principio della separazione dei poteri al vertice dell’acquis convenzionale. Una di quelle decisioni, insomma, che tradisce una rinnovata vocazione costituzionale della Corte Edu, che ha preso particolarmente sul serio il sempiterno monito della Dichiarazione del 1789, secondo il quale “[t]oute Société dans laquelle la garantie des Droits n’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution”.
Nell’ambito del procedimento di adozione della nuova Costituzione ungherese (entrata in vigore nel gennaio 2012, per alcuni commenti: Volpi, DPCE 2012, 1013 e ss., De Simone, nel Telescopio del Forum di Quaderni costituzionali, 2011, 2012, 2014, Pollicino, ne Il ricostituente 2011), il ricorrente, all’epoca dei fatti Presidente della Corte Suprema e del Consiglio nazionale di giustizia, rendeva pubbliche dichiarazioni e poneva in essere una serie di atti, connessi alle sue funzioni, volti a contrastare la strisciante subordinazione del potere giudiziario al potere politico (tra le misure adottate dalla maggioranza parlamentare: il Nullification Bill, che ha imposto di rivedere i processi e le condanne inflitte ai protagonisti delle proteste del 2006 contro l’allora governo socialista; l’obbligo di prepensionamento dei giudici, poi dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale nel 2012; alcune modifiche al codice di procedura penale, anch’esse successivamente espunte dalla Corte successivamente all’impugnazione da parte dello stesso ricorrente; le due leggi “cardinali” che, riformando l’organizzazione giudiziaria, hanno scorporato in più organi le funzioni del Consiglio nazionale di giustizia).
Incurante delle critiche, il Parlamento non ha solo proseguito il disegno di riforma della giustizia, ma ha anche inserito alcune norme transitorie al progetto di Costituzione che hanno previsto l’automatica cessazione delle funzioni del ricorrente da Presidente della Corte Suprema e del Consiglio nazionale di giustizia a partire dall’entrata in vigore del nuovo testo costituzionale. L’Organisation and Administration of the Courts Bill ha definito, inoltre, nuovi requisiti soggettivi per l’elezione a Presidente della Corte Suprema (ora ribattezzata Kuria), richiedendo ai candidati di aver svolto per almeno un quinquennio funzioni giurisdizionali, esplicitamente escludendo dal computo di tale periodo esperienze nelle giurisdizioni internazionali (requisito che, non a caso, riguardava proprio Baka, giudice, per circa un ventennio, della Corte europea dei diritti dell’uomo).
L’automatica decadenza ha spinto il Presidente della Corte Suprema a ricorrere alla Corte Edu per violazione dell’art. 6 (mancata previsione di un rimedio giurisdizionale interno per contestare le misura adottate) e, soprattutto, dell’art. 10 Cedu che, come noto, tutela la libertà di espressione. Quanto al primo profilo, i giudici di Strasburgo riconoscono che, nel caso di specie, le modalità di cessazione dell’incarico non hanno soddisfatto il requisito funzionale richiesto dalla Corte a partire dal caso Vilho EskeIinen and others. v. Finland (2007), che, eccezionalmente, ha escluso l’applicazione dell’art. 6 ai dipendenti pubblici. In altri termini, lo Stato ungherese non ha dimostrato che fossero venuti meno i presupposti fiduciari che giustificano la revoca ad nutum dei pubblici funzionari, nell’ambito dell’esercizio di poteri discrezionali “intrinseci alla sovranità statale”. La specificità delle funzioni svolte dal Presidente delle Corte avrebbero consentito una sua rimozione – e la conseguente impossibilità di ricorrere a un giudice per contestare le misure adottate – solo nel caso in cui il civil servant fossevenuto meno ai propri doveri di ufficio, ledendo interessi generali dello Stato (§ 76 e 77).
Accertata la violazione dell’art. 6 Cedu, i giudici di Strasburgo si soffermano sull’art. 10. In gioco, secondo la Corte Edu, non vi è solo la necessaria protezione del diritto di libertà: poiché le opinioni del ricorrente sono state formulate nell’esercizio di funzioni tipiche e nell’adempimento di doveri di rilievo costituzionale, è lo stesso principio di separazione dei poteri a richiedere uno scrutinio stretto (close scrutiny) sulle modalità di rimozione. Queste ultime, sebbene adottate nell’ambito di una generale riforma dell’organizzazione giudiziaria, celano un intento punitivo ad personam motivato dalla ferma opposizione del ricorrente al processo di riforma costituzionale portato avanti dalla maggioranza. In questo senso, la natura tecnica delle opinioni espresse, la loro attinenza a questioni fondamentali di pubblico interesse vietano interventi pubblici non proporzionati (§§ 88, 97- 101). Tuttavia, nonostante l’illegittimità della compressione diritto di manifestazione del pensiero, la Corte rinvia la decisione sull’applicazione dell’art. 41 Cedu e sulla liquidazione del risarcimento del danno patito dal ricorrente, richiedendo alle parti di addivenire a un accordo transattivo sull’ammontare del danno entro i tre mesi successivi (§§ 119-123).
Tornano, nella decisione che qui si commenta, alcuni luoghi argomentativi tipici della giurisprudenza convenzionale sulla libertà di espressione: si pensi, ad esempio, al riferimento al chilling effect e, quindi, ai potenziali effetti dissuasivi e “raggelanti” che regolazioni non proporzionate possono avere sulle opinioni politiche. Eppure, l’importanza della sentenza non risiede tanto nella tecnica argomentativa o nello (scontato) scrutinio stretto adottato dalla Corte; è, piuttosto, il significato politico-costituzionale della sentenza che merita di essere sottolineato. Non è certo questa la sede per prendere posizione nel dibattito intorno alla natura del sistema convenzionale e ai caratteri del controllo di convenzionalità, difficilmente assimilabile a una vera e propria giurisdizione costituzionale. E’ sicuramente nel vero, infatti, quella parte della dottrina che sottolinea l’irriducibilità dell’ordine convenzionale all’ordinamento costituzionale (per tutti: Morrone in Quaderni costituzionali, 2014, 97-98): la giurisdizione della Cedu è, infatti, ordinata secondo un nomos polemico che contrappone meccanicamente i diritti individuali allo Stato e, quindi, l’individuo alla comunità politica di riferimento. Tale conclusione, suffragata dalla peculiare struttura del controllo e delle tecniche argomentative utilizzate, colloca la giurisdizione convenzionale in una dimensione nuova, sostanzialmente a-politica, che prescinde dai processi di integrazione politica che avvengono entro lo Stato e che poco ha a che vedere con la tradizionale funzione svolta dalle Corti costituzionali. Eppure, nell’offrire tutela a un grand commis che si è opposto all’instaurazione di un sistema di governo iper-maggioritario non pienamente rispettoso della separazione dei poteri, la Corte Edu ha agito de facto come garante di ultima istanza dei principi del costituzionalismo liberal-democratico. Una garanzia, certo, dimidiata, limitata al caso concreto e non del tutto soddisfacente dal punto di vista sanzionatorio, ma che pure riflette la connaturata capacità della Corte EDU di legare, nel nome di un superiore ordine materiale, il sistema multilivello dei diritti alle dinamiche politico-costituzionali degli Stati-nazione.