Status, identità, cittadinanza: la Corte di Giustizia e la libera circolazione delle persone trans nello spazio pubblico europeo
1. Con la sentenza in commento (4 ottobre 2024, Mirin, in c. C-4/23), la Corte di Giustizia aggiunge un ulteriore importante tassello in materia di libera circolazione delle identità nello spazio pubblico europeo. Se con le sentenze Coman (5 giugno 2018, in c. C-673/16) e Pancharevo (14 dicembre 2021, in c. C-490/20) la Corte era intervenuta sul piano della libera circolazione degli status familiari – aprendo, rispettivamente, al mutuo riconoscimento dello status di partner omosessuale e di figlio/a con genitori dello stesso sesso – nel caso in esame viene in rilievo il riconoscimento dell’identità di genere affermata in altro Stato membro quando, in particolare, vi sia disparità nelle forme di regolazione dell’affermazione dell’identità di genere e della rettificazione anagrafica. In particolare, la controversia origina dal negato riconoscimento – in Romania, ove la rettificazione anagrafica avviene con sentenza passata in giudicato – dell’identità di genere maschile del ricorrente: questi, cittadino britannico e rumeno registrato all’anagrafe con sesso femminile, aveva affermato nel Regno Unito, prima del recesso dall’Unione, la propria identità di genere maschile mediante dichiarazione agli uffici dello stato civile, ottenendo un Gender Identity Certificate conforme.
Come per i due precedenti, anche in questo caso la soluzione della questione pregiudiziale fa premio sulla capacità espansiva della cittadinanza dell’Unione – destinata “ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri” (par. 51) – nel suo legame con la libertà di circolazione riconosciuta e garantita dall’articolo 21 TFUE e dall’articolo 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Come già in Pancharevo (ma non anche in Coman) viene inoltre in rilievo – sempre in collegamento con la libertà di circolazione – l’articolo 7 della Carta che, come meglio si dirà, è interpretato alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Rispetto ai due precedenti, appare più intenso il nesso con la consolidata giurisprudenza della Corte in materia di circolazione del diritto al nome (con la serie di decisioni che da Garcia Avello conducono a Freitag) e i profili di contatto tra stato civile e tutela della vita privata sembrano emergere con ancora maggiore evidenza e urgenza.
Per la prima volta, infatti, la Corte di Giustizia dell’Unione europea affronta questioni legate all’affermazione dell’identità di genere non con riferimento a specifici profili di discriminazione bensì in relazione al diritto all’identità personale e alla sua libera circolazione nell’Unione. In sentenze come K.B. (7 gennaio 2004, in c. C-117/01), Richards (27 aprile 2006, in c. C-423/04) e MB (26 giugno 2018, in c. C-451/16) la Corte aveva infatti già affermato l’esigenza di tutelare le persone trans, dichiarando la contrarietà al diritto dell’Unione di trattamenti differenziati – in ambito previdenziale – derivanti dall’avvenuta rettificazione anagrafica, peraltro riconducendoli a una illegittima discriminazione legata al sesso. Nel caso di specie, invece, la Corte affronta ex professo la specificità della condizione delle persone trans sul piano anagrafico, riconducendone il riconoscimento e la protezione – nella sostanza – a una questione di tutela dell’identità personale e, quindi, di effettività della cittadinanza.
2. La sentenza in commento si segnala, anzitutto, per il profilo dell’interpretazione dell’accordo di recesso del Regno Unito dall’Unione, rilevante sul piano della stessa ricevibilità della domanda. La domanda di riconoscimento dell’identità di genere affermata nel Regno Unito era stata infatti diretta alle autorità rumene nel 2021 – dunque una volta terminato il periodo di transizione – e ciò sarebbe stato idoneo ad escludere, secondo le prospettazioni del governo rumeno, la stessa rilevanza del diritto dell’Unione. Tuttavia, l’acquisto della cittadinanza britannica e il cambio del nome erano stati ottenuti quando il Regno Unito faceva ancora parte dell’Unione, mentre il Gender Identity Certificate era stato rilasciato dalle autorità britanniche nel corso del periodo di transizione successivo al recesso dall’Unione; e, fino al termine del periodo di transizione (31 dicembre 2020), il Regno Unito deve essere considerato – al fine dell’applicazione delle norme sulla cittadinanza e sulla circolazione – come Stato membro. Per questo, la domanda è ritenuta ricevibile: l’affermazione dell’identità di genere è infatti avvenuta in costanza di esercizio – da parte del richiedente – della libertà di circolazione e soggiorno garantita dai Trattati e i diritti così acquisiti possono essere fatti valere nei confronti dello Stato membro di origine anche dopo la fine del periodo di transizione (par. 44).
3. Chiarito così che alla fattispecie dedotta in giudizio si applica il diritto dell’Unione europea e, in particolare, la garanzia della libertà di circolazione discendente dallo status di cittadino dell’Unione, la Corte afferma che il rifiuto delle autorità rumene di riconoscere l’identità di genere affermata nel Regno Unito – costringendo l’interessato ad avviare, in Romania, un nuovo procedimento di tipo giudiziario per la rettificazione anagrafica – è idoneo a ostacolare l’esercizio di tale libertà. Il vulnus incide, peraltro, sulla sfera intima della persona, in quanto – in aggiunta a quanto già ritenuto nella giurisprudenza relativa alla circolazione del diritto al nome – anche “il genere definisce l’identità e lo status personale di una persona”: pertanto, il rifiuto delle autorità rumene è idoneo a provocare all’interessato “seri inconvenienti di ordine amministrativo, professionale e privato” (par. 55) specie sotto il profilo della necessità di “dovere dissipare dubbi riguardo alla propria identità” (par. 56). In linea con la giurisprudenza più recente (oltre alla già richiamata Pancharevo, la Corte cita anche la sentenza del 22 febbraio 2024, in c. C-491/21, in materia di diniego di rilascio di documenti di identità, da parte delle autorità rumene, a cittadino stabilmente domiciliato in altro Stato membro) la Corte integra peraltro nel parametro anche l’articolo 45 della Carta dei diritti fondamentali “nei limiti in cui il diritto di ogni cittadino dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, previsto dalla Carta, riflette il diritto conferito dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE” (par. 58).
Coerentemente con l’ambito di competenza dell’Unione, l’argomentazione è dunque condotta, sin qui, tutta all’interno della sistematica della libertà di circolazione, lasciando sullo sfondo – nonostante i significativi cenni richiamati – il profilo dell’impatto della condotta delle autorità rumene sulla tenuta del diritto all’identità personale e, quindi, sui profili dignitari della questione nonché sulla concreta incidenza sull’esperienza di vita dell’interessato.
4. Tali profili riemergono con nettezza, nel seguito dell’argomentazione, in sede di valutazione della giustificazione e della proporzionalità della limitazione alla libertà di circolazione, determinata dalla condotta delle autorità rumene. A tale riguardo, la Corte ricorda anzitutto – richiamando, tra le altre, la citata sentenza Richards – che, in linea di principio, la normativa nazionale non può far discendere dal mancato riconoscimento dell’identità di genere l’impossibilità di esercitare un diritto tutelato dal diritto dell’Unione (par. 60). In secondo luogo, la Corte sottolinea che – a prescindere dalla circostanza che essa persegua un obiettivo legittimo (il che, peraltro, rimane nel caso di specie indimostrato non avendo le autorità rumene allegato alcun elemento al riguardo) – la normativa nazionale può “essere considerata giustificata solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta di cui la Corte garantisce il rispetto […] e, in particolare, al diritto al rispetto della vita privata di cui all’articolo 7” (par. 62). La Carta dei diritti – già integrata nel parametro con riferimento all’interpretazione dell’articolo 21 TFUE e al rafforzamento della sua rilevanza sul piano dell’attinenza alla sfera dei diritti fondamentali della persona – diviene quindi parametro esclusivo al momento di valutare ragionevolezza e proporzionalità della limitazione alla libertà di circolazione posta in essere dallo Stato membro, in un ambito in cui rileva il diritto dell’Unione. In modo ancor più incisivo di quanto già accaduto nella sentenza Pancharevo, l’articolo 7 della Carta viene interpretato alla luce dell’articolo 8 CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, su di un piano almeno duplice. Anzitutto, al fine di riaffermare che “l’identità sessuale di una persona” è riconosciuta e tutelata “in quanto elemento costitutivo e uno degli aspetti più intimi della sua vita privata” ivi compreso il diritto delle persone trans “allo sviluppo personale e all’integrità fisica e morale, nonché al rispetto e al riconoscimento della loro identità sessuale” (par. 64). Ciò si traduce in obblighi negativi ma anche, e soprattutto, in obblighi positivi, inclusa la previsione di un “un procedimento chiaro e prevedibile di riconoscimento giuridico dell’identità di genere che consenta il cambiamento di sesso, e quindi di nome o di codice numerico personale, nei documenti ufficiali, in modo rapido, trasparente e accessibile” (par. 66). In secondo luogo, il rinvio all’articolo 8 CEDU rileva, nella specie, in modo ancor più specifico e significativo: la Corte fa infatti esplicito riferimento alla sentenza X e Y c. Romania del 19 gennaio 2021, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto che la disciplina rumena dell’affermazione dell’identità di genere non fosse idonea ad assicurare il pieno rispetto del diritto alla vita privata delle persone trans, censurando in particolare l’assenza di un quadro giuridico chiaro e l’imposizione di trattamenti chirurgici come condizione necessaria per ottenere la rettificazione anagrafica. L’incompatibilità tra la disciplina rumena dell’affermazione dell’identità di genere e l’articolo 8 della CEDU determina, pertanto, l’impossibilità di considerare il procedimento interno una alternativa idonea a far venire meno la violazione della libertà di circolazione (par. 68): in altri termini, costringere il soggetto interessato – in alternativa all’automatico riconoscimento dello status ottenuto in altro Stato membro – a sottoporsi a un procedimento ulteriore, la cui contrarietà all’articolo 8 della CEDU è per giunta conclamata, rappresenta un ostacolo indebito all’esercizio della libertà di circolazione (par. 69).
5. La sentenza, in conclusione, non rileva soltanto per la sua continuità rispetto alla giurisprudenza in materia di libera circolazione degli status personali e familiari. In aggiunta, la sentenza pare in ogni caso segnare un significativo cambio di passo nell’approccio della Corte alle questioni legate all’affermazione dell’identità di genere, il cui rilievo non è più circoscritto allo scrutinio su discriminazioni puntuali ma si allarga a una più compiuta considerazione del posto delle identità di genere nelle dinamiche della tutela dell’identità personale e, più in generale, dell’esercizio dei diritti di cittadinanza nello spazio pubblico.
La capacità espansiva della cittadinanza dell’Unione europea inizia così a misurarsi sempre più decisamente con la tenuta della (pari) dignità (sociale) delle persone, nonostante l’assenza di richiami diretti (l’articolo 1 della Carta è citato – stavolta – dalla Corte, ma solo nelle premesse di ricostruzione del dato normativo rilevante): una tendenza in via di consolidamento, la quale sembra echeggiare – anche per l’attinenza a questioni cruciali relative alla costruzione dell’identità personale e alla sua proiezione nello spazio pubblico – dinamiche tipiche dei contesti federali (basti pensare, solo per fare un esempio, a pronunce della Corte Suprema USA come Windsor v. United States e, soprattutto, Obergefell v. Hodges). Ciò potrà aprire, peraltro, a ulteriori significative innovazioni. Basti pensare – per rimanere all’ambito in cui interviene la pronuncia – alla questione della circolazione di persone cui sia stata riconosciuta, nello stato di origine o di destinazione che la preveda (come, tra gli altri, la Germania), l’ascrizione – alla nascita o per elezione – a un genere neutro: questione che ben potrebbe porsi e che in Italia – anche alla luce dei più recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale – potrebbe mostrare tutto il suo potenziale.