Stato di diritto, art. 28 Cost. e precedenti di contenzioso climatico nello spazio della UE
L’espandersi di contenziosi climatici contro gli Stati all’interno dell’Unione europea, con la prevalenza delle condanne giudiziali del convenuto al facere della mitigazione climatica sulla base dei migliori standard di metodo scientifico, sta aprendo inediti scenari di osservazione e riflessione sul tema del valore dei precedenti con riguardo alla responsabilità extracontrattuale statale per danni da cambiamento climatico (e, ora, da emergenza climatica) (cfr. Zarro).
In sintesi, da questi precedenti risulta che lo Stato convenuto: a) non gode di immunità giurisdizionale per le sue azioni od omissioni nella lotta al cambiamento climatico e, ora, all’emergenza climatica; b) soggiace a un principio di comuni ma differenziate responsabilità, che, non ammettendo obbligazioni alternative (nei termini, per esempio, dell’art. 1285 Cod. civ. italiano), si traduce in un unitario dovere di tutela preventiva dei diritti umani attraverso la protezione del sistema climatico del proprio territorio; c) è sindacabile dal giudice non sul piano degli atti e della loro forma, bensì su quello tecnico-scientifico dell’assenza o dell’inadeguatezza e non conformità delle misurazioni quantitative (pur richieste dalle fonti giuridiche climatiche) di mitigazione, su cui poi fondare qualsiasi atto formale; d) di conseguenza non può pararsi dietro la rivendicazione dell’atto politico (cfr. Magi) né può invocare casi fortuiti o cause di forza maggiore al fine di giustificare le conseguenze dannose – ormai scientificamente conosciute, dimostrabili, prevedibili ed evitabili – delle proprie condotte materiali.
Com’è noto, il “caso Urgenda”, per il fatto di essere giunto a sentenza definitiva di condanna dello Stato olandese, rappresenta l’apripista di questo orientamento giurisprudenziale, che altri giudici nazionali, dentro la UE, hanno deciso o stanno affrontando.
In particolare, da un recente Report della London School of Economics, risalente a fine 2022 (Setzer, Narulla et al.), risaltano tre evidenze significative: a) innanzitutto, i contenziosi climatici pendenti coinvolgono più della metà dei paesi europei (includendo anche Regno Unito e Svizzera); b) di essi, circa il 75% è rivolto ai poteri statali e si fonda sulla tutela dei diritti umani e fondamentali, alla luce delle rispettive Costituzioni; c) quelli già decisi sono prevalentemente di condanna dello Stato (per lo spazio UE, oltre al definitivo cit. “Urgenda”, si richiamano i casi Friends of the Irish Environment c. Irlanda, Klimaatzaak c. Belgio, Notre Affaire à Tous c. Francia, Commune d Grande-Synthe c. Francia, Neubauer et al. c. Germania, Klimaticka žaloba ČR c. Repubblica Ceca, tutti reperibili dalla banca dati del Sabin Center della Columbia University).
Il panorama rappresentato sollecita diversi spunti di riflessione.
Infatti, quello dei contenziosi climatici verso lo Stato è un caso giudiziale oggettivamente “paradigmatico” (sulla categoria dei “casi paradigmatici” nella dottrina dei precedenti, si v. Tesauro), dato che affronta un tema di “preoccupazione comune” dell’intera umanità (come recitano le fonti del diritto internazionale climatico), riguardante ineluttabilmente qualsiasi Stato e qualsiasi essere umano.
Dentro lo spazio giuridico dell’Unione europea, tuttavia, il caso “paradigmatico” si arricchisce di alcune “peculiarità”, che meritano considerazione.
In alcuni recenti commenti, si è già fatto riferimento a due di esse: a) il presupposto di fatto dell’azione (il cambiamento climatico degenerato in emergenza climatica), riconosciuto da un giudice di uno Stato membro come offensivo dei diritti della persona umana, difficilmente potrà essere disconosciuto da altro giudice di altro Stato membro della UE, se non a costo di consumare una palese disparità di trattamento fra cittadini dell’Unione e una manifesta illogicità fra presupposti di fatto comuni – l’emergenza climatica, tra l’altro dichiarata formalmente dalla UE – e tutele soggettive non necessariamente conseguenti (Bruno); b) il sempre più corale consenso giurisprudenziale internazionale sul rispetto dei principi internazionali del “No Harm” e del “neminem laedere”, nella lotta all’emergenza climatica, improbabilmente potrà essere contestato da giudici nazionali, tenuti comunque ad argomentare in buona fede le fonti di diritto internazionale generale e convenzionale (Motta).
A queste, se ne possono aggiungere altre cinque.
1) In primo luogo, l’Unione europea si fonda sui «principi generali comuni ai diritti degli Stati membri» in materia di responsabilità civile (come si legge negli artt. 340 n. 2 del TFUE e 41 n. 3 della Carta di Nizza). Di questi principi comuni ovviamente è parte il “neminem laedere”, tanto da costituire base della disciplina comune europea del Regolamento c.d. “Roma II” (n. 864/2007), dei c.d. “Principles of European Tort Law” (PETL) e della responsabilità extracontrattuale degli Stati verso i loro cittadini per violazione del diritto europeo (cfr. Di Marco). Una volta che questo “principio comune” ha trovato applicazione pure in sede di contenzioso climatico verso uno Stato membro, apparirà irrazionale e illogico disconoscerlo al cospetto di altri Stati membri della UE, convenuti per altri contenziosi climatici dentro il medesimo spazio UE.
2) In secondo luogo, le fonti del diritto internazionale climatico, utilizzate nei contenziosi nazionali verso gli Stati membri della UE (in particolare, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici del 1992 e l’Accordo di Parigi sul clima del 2015), sono state tutte “europeizzate”, ossia tradotte – in ragione dell’adesione della UE a tali accordi – in fonti del diritto europeo. Per esse, dunque, vale la disciplina sulle conseguenze delle violazioni del diritto europeo da parte degli Stati membri, anche in termini di danni causati ai singoli, lì dove la fonte “europeizzata” sia preposta a tutelare diritti (com’è per l’Accordo di Parigi, con il suo Preambolo riferito appunto alla protezione e promozione dei diritti umani).
3) In terzo luogo, i contenziosi climatici europei invocano disposizioni della CEDU, in particolare gli artt. 2 e 8 così come interpretati dalla Corte europea di Strasburgo, i cui contenuti non solo concorrono alla conformazione dei principi generali UE, in forza dell’art. 6 n. 3 TUE, ma integrano i livelli di protezione dei diritti, nei termini indicati dall’art. 53 della Carta di Nizza.
4) In quarto luogo, l’accesso dei cittadini al giudice, ammesso dai contenziosi climatici verso uno Stato membro, concretizza la tutela giudiziale effettiva, principio generale anch’esso di diritto europeo (derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dagli artt. 6 e 13 della CEDU), nonché diritto fondamentale di ogni cittadino della UE (in base all’art. 47 della Carta di Nizza) oltre che fondamento dell’obbligo di ogni Stato membro che ha sottoscritto, insieme alla UE, la Convenzione di Aarhus del 1998 sui diritti ambientali procedurali (incluso, appunto, quello di accesso al giudice).
5) Infine, la mancata considerazione dei precedenti di contenzioso climatico, da parte di giudici chiamati a decidere sulla responsabilità di altri Stati della UE, violerebbe il principio di uguaglianza tra gli Stati membri e la leale cooperazione tra questi e l’Unione in funzione anche dei diritti, in controtendenza con quanto la Corte di giustizia ha sempre confermato come ineludibile (di recente, con la sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21).
Si potrebbe, allora, concludere che l’espandersi del contenzioso climatico statale nello spazio europeo militi a favore del rafforzamento del primato dello Stato di diritto e dei diritti umani, così come richiesto dall’art. 2 TUE, smentendo quelle minoritarie voci di dottrina, le quali addirittura hanno letto le iniziative climatiche cittadine contro gli Stati quasi come una minaccia ai principi democratici (cfr. Magri e ivi riferimenti).
Del resto, è la stessa UE a spiegare ai suoi cittadini, in modo semplice e chiaro, che il principio dello Stato di diritto implica «l’astensione dal prendere decisioni arbitrarie per i governi e la garanzia, per i cittadini, di poterne contestarne l’operato dinanzi a un tribunale indipendente» (cfr. Violazione dei valori europei: cosa può fare l’UE). Le decisioni di condanna giudiziale dei contenziosi climatici verso lo Stato hanno tutte per oggetto – come accennato – proprio l’ “arbitrarietà” delle decisioni statali, lì dove prive di quelle misurazioni tecniche di quantificazione della mitigazione (a partire dalla c.d. “equity climatica”) che identificano il presupposto indefettibile (per previsione legale e per principi di termodinamica) dell’efficacia ed effettività della lotta all’emergenza climatica.
Se dubbi dovessero residuare, sulla espressività di questi precedenti “climatici” in termini di rafforzamento dello Stato di diritto nello spazio UE, i giudici nazionali non avrebbero altra via che l’esperimento della questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia, interrogandola, con tutti i dovuti rigori argomentativi e di riscontro richiesti dai giudici di Lussemburgo, sulla questione se il diritto europeo, incluso il diritto climatico “europeizzato” nel quadro della CEDU e della Carta di Nizza, osti all’accesso al giudice di un cittadino dello Stato membro per veder condannare il suo Stato di appartenenza al facere di mitigazione climatica secondo misurazioni tecniche prescritte da fonti internazionali “europeizzate”.
In un contesto di “comunità di corti nazionali” (come ricordato proprio dalla Corte costituzionale nella sent. n. 67/2022 in tema di pluralità di giudici nello spazio europeo dei diritti), sembra questa l’unica possibilità di “distinguishing” dai precedenti europei, in nome proprio dello Stato di diritto e alla luce anche della recentissima giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (casi “Spasov c. Romania” n. 27122/14 del 6 dicembre 2022, e “Georgiou c. Grecia” n. 57378/18 del 14 marzo 2023) in tema di lesione dell’art. 6 CEDU per omesso rinvio pregiudiziale e di eventuale conseguente imposizione, allo Stato in causa, della riapertura del processo interno.
La posta in gioco, del resto, non sarebbe l’autonomia procedurale di ogni singolo ordinamento processuale nazionale, ma la questione del diritto di accesso al giudice a parità di condizioni con situazioni analoghe (Corte di Giustizia in causa 199/82) e l’equivalente legittimazione passiva degli Stati membri davanti ai cittadini della UE (Corte di Giustizia in causa C-637/17).
Volgendo lo sguardo all’Italia, due osservazioni finali appaiono significative.
Il diffondersi europeo dei contenziosi climatici sembra giovare al rafforzamento della normatività dell’art. 28 della Costituzione, architrave, proprio attraverso l’imputazione della responsabilità extracontrattuale, del superamento di «antichi privilegi a favore della pubblica amministrazione, non più giustificabili in uno Stato di diritto» (Corte cost. n. 156/1999).
Quel contenzioso europeo ridimensiona pure la dottrina giurisprudenziale domestica dei c.d. “diritti immaginari”, coniata dalla Corte di cassazione (a partire dalle decisioni nn. 26972/2008, 9422/2011, 21725/2012) per sostenere che la “qualità della vita”, lo “stato di benessere” e la “serenità esistenziale” della persona umana non rientrerebbero nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e del risarcimento del danno, in quanto non tipizzati da una fonte costituzionale o primaria (ancorché inconfutabilmente inclusi da altri formanti a livello internazionale e comparato: cfr. Piciocchi) e per il fatto che la loro lesione risulterebbe priva dell’«ingiustizia costituzionalmente ed internazionalmente riconosciuta e qualificata» (così Cass. n. 9422/2011) (su questi orientamenti, si v. criticamente Viana).
L’emergenza climatica è notoriamente una terribile minaccia alla “qualità della vita”, allo “stato di benessere” e alla “serenità esistenziale” della persona umana, per la banale constatazione di essere un incombente “Endgame” nell’interdipendenza biofisica (tutt’altro che “immaginaria”) di ciascun individuo dal sistema climatico. I contenziosi climatici che lo affermano, e condannano gli Stati alle misurazioni tecniche necessarie per scongiurare il peggio, forniscono prova, soprattutto nello spazio giuridico europeo, dell’«ingiustizia costituzionalmente ed internazionalmente riconosciuta e qualificata»; prova invero già fornita da una risalente giurisprudenza costituzionale, dalla stessa Consulta definita «fermissima» (Corte cost. n. 307/1990), di riclassificazione, costituzionalmente orientata, dell’art. 2043 Cod. civ. quale fonte di «divieto primario di ledere la salute» (Corte cost. n. 202/1991), e confermata, ora, dallo statuto epistemologico “One Health”, cui aderisce anche l’Italia (cfr. Violini e la sezione One World, One Health…Wich law? della rivista Corti Supreme e Salute).
Pare, pertanto, che i margini per altra “immaginazione”, che abiliti a sottrarsi alla forza persuasiva dei precedenti europei di contenzioso climatico, siano diventati molto stretti e minimamente plausibili.