Spunti di riflessione in tema di applicazione diretta della CEDU e di efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo (a margine di una pronunzia del Trib. di Roma, I Sez. Civ., che dà “seguito” a Corte EDU Costa e Pavan)

Sommario: 1. Il caso e la questione cruciale in esso riproposta, relativa alla possibile (e, però, per ciò stesso, doverosa) applicazione diretta della Convenzione. – 2. Critica della singolare argomentazione addotta dal tribunale romano a sostegno del doppio regime valevole in presenza di antinomie tra leggi nazionali e Convenzione, dovendosi – a suo dire – far luogo ora all’applicazione immediata della seconda, laddove contenga una disciplina puntuale, ed ora all’esperimento di una questione di legittimità costituzionale nel caso che, pur essendo la Convenzione stessa autoapplicativa, si ponga in contrasto coi principi supremi dell’ordinamento costituzionale. – 3. La soluzione qui patrocinata: il giudice comune, che non sospetti la violazione della Costituzione da parte di norma CEDU, non può in alcun caso rivolgersi al giudice delle leggi, sia che la norma convenzionale cui è chiamato a dare esecuzione gli appaia autoapplicativa e sia pure che tale non sia, nel qual ultimo caso dovendosi comportare così come è solito fare in presenza di pronunzie della Corte costituzionale additive di principio. – 4. Se la soluzione qui accolta possa (e debba) valere in ogni altra sede giudiziaria in cui si ritrovi con identità di caratteri oggettivi il medesimo caso demandato al giudice dell’esecuzione: argomenti a favore di siffatta estensione, in prospettiva assiologicamente orientata (e, segnatamente, alla luce del principio di eguaglianza). – 5. Concretezza dei giudizi e vocazione dei casi, nella loro oggettiva connotazione, alla loro “universalizzazione”: i verdetti dei giudici comuni “conseguenziali” a pronunzie della Corte EDU e il bisogno che in essi sia fatto integralmente salvo il principio di eguaglianza. – 6. Conferme della estensione del vincolo discendente dalle pronunzie della Corte EDU che si hanno per effetto della tendenza crescente del giudice europeo alla propria “costituzionalizzazione”, in un contesto segnato da un’integrazione sovranazionale ormai avanzata e dal bisogno, viepiù avvertito, di una costante, mutua alimentazione semantica delle Carte e di un parimenti costante “dialogo” tra le Corti, che per la sua parte, lungi dallo svilire, ancora di più sottolinea il ruolo di centrale rilievo svolto dai giudici comuni in vista di un’ottimale salvaguardia dei diritti. – 7. Una previsione ed un auspicio finali.

 

1.Il caso e la questione cruciale in esso riproposta, relativa alla possibile (e, però, per ciò stesso, doverosa) applicazione diretta della Convenzione

La pronunzia cui si dirigono queste annotazioni, fatte a prima lettura, è stata emessa il 23 settembre 2013 dietro ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato dai coniugi Costa e Pavan avverso l’ASL di Roma A e il centro di Tutela della Salute della Donna e del Bambino S. Anna, rifiutatisi di dar modo alla sig.ra Costa di accedere al trattamento di procreazione assistita con diagnosi genetica pre-impianto, a motivo del fatto che la coppia non risulta affetta da sterilità e ricade pertanto nel divieto al riguardo stabilito dalla legge n. 40 del 2004. In particolare, l’ASL ha eccepito che, in difetto dell’intervento riparatore posto in essere dal legislatore al fine di rendere in tutto conforme il dettato legislativo ai precetti della Convenzione, così come intesi e fatti valere dalla Corte di Strasburgo nella sua pronunzia dell’agosto 2013 (divenuta definitiva nel febbraio 2013), resta precluso alle coppie fertili ancorché portatrici di malattie genetiche trasmissibili di accedere alle tecniche di PMA, restando consentiti i soli interventi sull’embrione a finalità diagnostica e terapeutica[1].

La decisione qui annotata esibisce un’argomentazione assai articolata, che meriterebbe di essere presa in considerazione in modo parimenti articolato e approfondito. Qui tuttavia si fermerà l’attenzione unicamente su un punto, peraltro di cruciale rilievo, avuto riguardo alle forme del rilievo interno delle pronunzie della Corte EDU, laddove specificamente investano – come nel caso odierno – norme legislative non conformi a Convenzione e non ancora rimosse dal suo autore né fatte oggetto di intervento caducatorio da parte del giudice costituzionale[2].

Il Tribunale di Roma pone la questione nei giusti termini e, sotto un certo profilo che subito si dirà, la risolve, a mia opinione, correttamente nel merito; lascia, di contro, perplessi la motivazione addotta, anche (e soprattutto) in vista di ulteriori applicazioni del “giudicato” convenzionale a casi analoghi.

Si tratta, infatti, di stabilire – dice il giudice romano – se l’efficacia immediata e diretta della pronunzia emessa a Strasburgo resti circoscritta all’aspetto risarcitorio a carico dello Stato, a motivo della violazione patita dalle parti del diritto riconosciuto dalla Convenzione, ovvero se l’accertamento della violazione stessa “sia destinato a ripercuotersi sul diritto interno”.

Il Tribunale non esita a schierarsi per il secondo corno dell’alternativa, giudicando possibile (e, anzi, doverosa) la disapplicazione della legge “anticonvenzionale” con riferimento alle parti vittoriose a Strasburgo, dal momento che al verdetto della Corte EDU è da assegnare “valore assimilabile al giudicato formale” per il procedimento in corso, mentre riconosce essere “di più incerta soluzione” la questione della immediata applicazione della norma convenzionale a casi analoghi[3]. E si appoggia al riguardo a precedenti indicazioni in tal senso date dalle Sezioni Unite della Cassazione (in una pronunzia, però, la n. 28507 del 23 dicembre 2005, anteriore alle sentenze “gemelle” del 2007 della Consulta).

 

2.Critica della singolare argomentazione addotta dal tribunale romano a sostegno del doppio regime valevole in presenza di antinomie tra leggi nazionali e Convenzione, dovendosi – a suo dire – far luogo ora all’applicazione immediata della seconda, laddove contenga una disciplina puntuale, ed ora all’esperimento di una questione di legittimità costituzionale nel caso che, pur essendo la Convenzione stessa autoapplicativa, si ponga in contrasto coi principi supremi dell’ordinamento costituzionale

L’argomento “forte” addotto dal giudice romano fa riferimento alla struttura della sentenza del giudice europeo: una volta, infatti, che da essa si ricavi – come nella specie – una regola “sufficientemente precisa ed incondizionata”, che si dimostri idonea a prendere subito il posto della disciplina legislativa incompatibile con la Convenzione, se ne ha che della prima può (e deve) farsi immediata applicazione in vece della seconda. Di contro, aggiunge il Tribunale, la rimessione degli atti alla Consulta si giustificherebbe, “pur in presenza di una regola CEDU autoapplicativa”, laddove si evidenzi un contrasto tra quest’ultima e i principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Qui, si rende subito palese, a mia opinione, uno slittamento di piano dell’argomentazione. Il doppio regime, che vede una questione di “convenzionalità” ora definita dal giudice comune con la immediata disapplicazione della fonte interna incompatibile con la CEDU (accompagnata dall’applicazione di quest’ultima) ed ora sottoposta alla cognizione del giudice costituzionale, richiama subito alla mente il parimenti doppio regime, come si sa, valevole per i casi di antinomia tra leggi e diritto dell’Unione. Solo che con riguardo a questi ultimi, esso si giustifica non tanto in ragione del diverso parametro costituzionale di volta in volta evocato in campo, siccome passibile di violazione da parte delle norme ad esso subordinate, bensì (ed esclusivamente) in considerazione della struttura nomologica degli atti “eurounitari” – come a me piace chiamarli – cui non sia prestato ossequio da parte delle fonti di diritto interno, a seconda cioè che essi siano o no self-executing. Poi, è pur vero che – per l’indirizzo giurisprudenziale ormai invalso alla Consulta[4] – le norme dell’Unione in genere (siano, o no, autoapplicative) vanno incontro, al momento del loro ingresso in ambito interno, al solo limite dei principi di base dell’ordinamento (i c.d. “controlimiti”); ma questo vale appunto sempre, sia che si faccia questione della loro eventuale, immediata applicazione nelle sedi della giustizia comune e sia pure che, a motivo della loro struttura, si debba invece andare al giudizio della Corte costituzionale.

Nel caso nostro, non si capisce perché mai la Corte stessa debba essere chiamata in campo unicamente nel caso che si dubiti della osservanza dei principi suddetti da parte delle norme convenzionali, ove si ammetta – in forza della direttiva d’azione al riguardo impartita dalla Consulta ai giudici comuni a partire dal 2007 – che la CEDU è fonte “subcostituzionale”, come tale in tutto e per tutto soggetta all’osservanza di qualsivoglia norma costituzionale[5]. Su siffatta qualifica, per ragioni che sono state enunciate altrove, personalmente non convengo; ma non è di ciò che dobbiamo ora nuovamente trattare. Il punto è che, sospettando la incompatibilità tra la Convenzione e la Carta costituzionale – siano, o no, in ballo norme di questa espressive di principi fondamentali –, il giudice non potrebbe, a stare all’orientamento della Consulta ormai affermatosi, sottrarsi all’obbligo di rimettere gli atti alla Consulta stessa. Se, di contro, si reputa – come, appunto, ha reputato il Tribunale nella circostanza odierna, sia pure in un quadro concettuale non nitido in ogni sua parte e linearmente rappresentato – che un problema di incompatibilità tra le Carte suddette non si ponga, l’unico accertamento cui parrebbe doversi far luogo è quello relativo all’attitudine della norma convenzionale ad essere portata ad immediata applicazione. Così, perlomeno, è da dire a stare all’ordine di idee, fatto proprio dal giudice romano, della possibile applicazione diretta della Convenzione.

Siamo sicuri, però, che le cose stanno davvero così?

 

3.La soluzione qui patrocinata: il giudice comune, che non sospetti la violazione della Costituzione da parte di norma CEDU, non può in alcun caso rivolgersi al giudice delle leggi, sia che la norma convenzionale cui è chiamato a dare esecuzione gli appaia autoapplicativa e sia pure che tale non sia, nel qual ultimo caso dovendosi comportare così come è solito fare in presenza di pronunzie della Corte costituzionale additive di principio

In realtà, l’accostamento tra il doppio regime che governa le antinomie tra diritto interno e diritto “eurounitario” in dipendenza del carattere strutturale delle norme di quest’ultimo e il parimenti doppio regime che starebbe a base delle antinomie con la Convenzione non regge per una ragione di fondo, che va oltre le previsioni che al riguardo sono contenute nel trattato di Lisbona, con la “copertura” ad esse offerta dall’art. 11 Cost. Ed è che, in casi come quello che ha dato lo spunto per queste notazioni, si tratta di dare esecuzione in ambito interno ad un verdetto della Corte di Strasburgo, a norma dell’art. 46 della CEDU[6]. Il giudice nazionale è, dunque, il terminale di una vicenda processuale che parte dall’ordine interno, dove si è consumata una violazione della Convenzione, e, dopo il passaggio da Strasburgo, a quest’ultimo torna, per quindi in esso trovare finalmente ricetto.

Ora, se il giudice comune, al quale si fa richiesta di portare ad effetto il giudicato convenzionale, dovesse a questo fine rivolgersi ad altro giudice (foss’anche quello costituzionale…), non sarebbe più appropriato discorrere di una “esecuzione” del giudicato stesso e la vicenda tornerebbe innaturalmente a riaprirsi, contraddicendo lo stesso giudizio emesso a Strasburgo che, per il solo fatto di essersi avuto, attesta l’esaurimento dei rimedi processuali di diritto interno. Resta ovviamente salvo il caso che il giudice sospetti la violazione da parte della Convenzione, per come fattasi “diritto vivente”, nei riguardi della Costituzione; ciò che potrebbe portare a sollevare una questione di costituzionalità della norma convenzionale, per il tramite della legge che vi dà esecuzione[7], non già però della norma interna che si assuma incompatibile con la disciplina convenzionale[8]. Questo non era però il caso che ha portato alla pronunzia del tribunale romano.

Insomma, il giudice cui la parte si rivolge affinché sia data esecuzione alla decisione del giudice europeo non può, a sua volta, rivolgersi alla Consulta, neppure dunque laddove la norma convenzionale gli appaia priva dell’attitudine ad essere portata ad immediata applicazione. In realtà, molte volte si tratta appunto di una mera apparenza; ammettiamo pure, però, che, in una circostanza data, la Convenzione gli sembri non autoapplicativa. Cosa potrebbe fare per dare, com’è giusto che sia, finalmente appagamento alla domanda di giustizia postagli dalle parti offese da legge “anticonvenzionale”?

Mi pare che il caso possa assimilarsi a quello che – come si sa – si ha in presenza di pronunzia additiva di principio della Corte costituzionale. Il fatto che quest’ultima non sia self-executing, mentre per un verso attiva l’obbligo del legislatore di darvi l’opportuno svolgimento normativo (a valenza erga omnes), per un altro non esclude (ed anzi implica) nel frattempo il doveroso intervento del giudice, chiamato ad estrarre dal principio aggiunto dalla Corte la regola buona per il caso[9].

Non torno ora a discutere della linearità della costruzione giurisprudenziale ormai invalsa, che solleva plurimi e – a me pare – ad oggi irrisolti interrogativi. Sta di fatto che il giudice comune è qui sollecitato a porre in essere un’attività – va detto con chiarezza – che è, in nuce, di produzione normativa, trattandosi non di una mera applicazione bensì di una vera e propria attuazione del principio, ancorché la regola desunta dal principio stesso risulti – com’è ovvio – priva dell’attitudine a portarsi oltre il caso (e le parti). Ed è un’attività che lo stesso giudice costituzionale ha riconosciuto essergli preclusa, ad essa opponendosi il rispetto della discrezionalità del legislatore (limite, questo, non valevole per il giudice comune, sia per il fatto che quest’ultimo non dà vita ad atti aventi efficacia generale e sia perché, ove non facesse luogo alla produzione della regola buona per il caso, si renderebbe responsabile di denegata giustizia). Un’attività, infine, che è essa pure di “giustizia costituzionale”, offrendo il giudice comune il proprio concorso al perfezionamento di un’operazione di bonifica costituzionale dimostratasi impossibile ad aversi in modo pieno nella sede sua propria.

Al pari, poi, di ciò che si ha in presenza delle pronunzie della Corte costituzionale cui è ora fatto riferimento, resta fermo, anche sul versante dei rapporti con la Convenzione (nel suo farsi “diritto vivente”), l’obbligo del legislatore di rimuovere con effetti generali la causa della violazione della Convenzione, abrogando o variamente modificando la disciplina interna con essa incompatibile.

 

4.Se la soluzione qui accolta possa (e debba) valere in ogni altra sede giudiziaria in cui si ritrovi con identità di caratteri oggettivi il medesimo caso demandato al giudice dell’esecuzione: argomenti a favore di siffatta estensione, in prospettiva assiologicamente orientata (e, segnatamente, alla luce del principio di eguaglianza)

Rimane da chiedersi se la soluzione qui patrocinata valga per il solo giudice cui si siano rivolte le parti vittoriose a Strasburgo ovvero possa (o debba) estendersi altresì ad ogni altro giudizio attivato in ambito interno e che si presenti in tutto e per tutto identico a quello in cui è data esecuzione al verdetto della Corte EDU.

La questione è – come si sa – agitata da tempo ed ha avuto modo di riproporsi specie col caso Scoppola. In nuce, si tratta di stabilire se l’accostamento tra le pronunzie del giudice europeo e quelle del giudice costituzionale possa spingersi fino al punto di considerare anche le prime provviste di quella efficacia “normativa” che è ormai riconosciuta alle seconde (con specifico riguardo a quelle “manipolative”)[10].

La risposta che usualmente si dà è – com’è noto – negativa; e tale è stata, ancora di recente, quella data dalla Consulta con sent. n. 210 del 2013, sopra già richiamata, con riguardo ad un caso in tutto identico a quello di Scoppola. Eppure, lo stesso giudice delle leggi, in una sua parimenti recente e nota decisione, essa pure in materia di accesso alla procreazione medicalmente assistita, la n. 150 del 2012[11], ha trattato una novità giurisprudenziale venuta alla luce a Strasburgo al pari di ciò che si ha in presenza di uno ius superveniens per effetto del quale si giustifichi una nuova valutazione, da parte dei giudici remittenti, della rilevanza di questioni di costituzionalità dapprima sollevate. È vero che lo stesso giudice costituzionale dà, in via generale, mostra di voler tenere nettamente distinto il diritto giurisprudenziale dal c.d. “diritto politico” (o, per dir meglio, dal “diritto legislativo”[12]), secondo quanto si precisa in Corte cost. n. 230 del 2012, laddove si esclude che il mutamento giurisprudenziale (segnatamente, della Cassazione) possa, in alcun caso o modo, produrre i medesimi effetti di vincolo che sono propri delle norme di legge. Non è chi non veda, però, come ciò che si reputa valere per i verdetti dei giudici comuni[13] non è detto che valga altresì per il giudice europeo, così come, per altro verso, di sicuro non vale per il giudice costituzionale, alle cui decisioni (quanto meno a quelle caducatorie, specie se manipolative) usualmente – come si diceva – si assegna valore “normativo”.

Il profilo della eguaglianza, poi, come più d’uno ha fatto notare in relazione al caso Scoppola e ad altre vicende che hanno fatto particolarmente discutere, obbliga a riconsiderare, senza alcun preorientamento ideologico o di dottrina, la questione relativa alla estensione oltre la cerchia delle parti degli effetti prodotti dal decisum convenzionale, affinché non abbiano ad aversi più – com’è stato felicemente detto[14] – “figli di un Dio minore”.

Il punto non può essere ora convenientemente trattato, evocando in campo talune generali questioni di particolare impegno teorico, come tali bisognose di uno spazio qui non disponibile. Riservandomi di tornare a dirne in altra e più acconcia sede, mi limito al momento unicamente ad osservare che al fondo della questione ora accennata sta una scelta di campo, che è a un tempo di teoria della Costituzione e di metodo nello studio del diritto costituzionale. Perché, a conti fatti, si tratta di stabilire se la prospettiva dalla quale vanno riguardate le esperienze costituzionalmente rilevanti (e, segnatamente, per ciò che ora interessa, quelle che maturano al piano delle relazioni interordinamentali) debba connotarsi come formale-astratta ovvero se – come a me pare – debba piuttosto essere d’ispirazione assiologico-sostanziale, avendo come suo primario ed indeclinabile obiettivo la valorizzazione dei valori fondamentali (e, in ispecie, della coppia di libertà ed eguaglianza, nelle loro mutue ed inscindibili implicazioni[15]), la integrale ed effettiva salvaguardia della loro congenita vocazione a permeare l’intero ordinamento, lasciando in ogni sua parte un segno marcato della loro perdurante vigenza.

Numerose testimonianze si hanno nella giurisprudenza costituzionale, specie la più recente, dell’orientamento a riconsiderare le relazioni interordinamentali[16], specie nelle loro proiezioni processuali, dalla prospettiva che ha nei valori fondamentali la stella polare che illumina il cammino degli operatori fino alla meta in cui la giustizia può rivelarsi, conformemente alla propria indeclinabile vocazione, autenticamente giusta, siccome effettivamente idonea, alle condizioni complessive di contesto, ad offrire un servizio ai bisogni elementari e più intensamente avvertiti dell’uomo.

Mi limito solo ad enunciare i principali di essi, senza alcun commento.

E così – tralasciando ora di battere il versante dei rapporti tra diritto interno e diritto “eurounitario”, il cui assetto poggia sui valori di pace e giustizia tra le Nazioni, alla cui luce si è, come si sa, riconosciuta dignità “paracostituzionale” al secondo nelle sue espressioni positive rilevanti in ambito interno – si pensi solo al canone della tutela più “intensa” (part., sent. n. 317 del 2009 e succ.)[17], in nome della quale può farsi ugualmente applicazione di leggi ancorché incompatibili con la Convenzione, allo stesso modo con cui però, a mia opinione, può darsi la precedenza a quest’ultima pur se contraria a singole norme costituzionali, sempre che idonea a servire al meglio la Costituzione medesima come “sistema” (spec. sentt. nn. 236 del 2011 e 264 del 2012 e, più di recente, 170 e 202 del 2013), quale risultante cioè all’esito di operazioni di bilanciamento (appunto, secondo valore) tra gli interessi in campo[18]. Un bilanciamento che – a dire della Consulta – può persino comportare la messa da canto di norme costituzionali sulla normazione (ad es., dell’art. 117, I c.) per far posto a norme sostantive bisognose di prioritaria considerazione, proprio alla luce dei valori in gioco e delle loro mobili combinazioni in ragione dei casi[19].

Ancora, è in nome dei valori (e, segnatamente, del valore personalista quale perno dell’intero sistema costituzionale, anche nel suo porsi in rapporto con altri sistemi[20]) che lo stesso giudicato interno può trovarsi a recedere davanti al giudicato convenzionale, laddove il secondo si dimostri idoneo ad offrire una salvaguardia ai diritti fondamentali della persona maggiormente accresciuta di quella offerta dal primo (sent. n. 113 del 2011)[21].

In fondo, poi, se ci si pensa, è sempre in nome dei valori (e, segnatamente della coppia costituita da libertà ed eguaglianza) che, nell’ultima giurisprudenza costituzionale[22], si è dato particolare risalto alle c.d. sentenze-pilota del giudice europeo, con ciò naturalmente portando all’esito della estensione degli effetti da esse prodotte oltre l’hortus conclusus delle singole vicende processuali che ne determina la emanazione. Certo, si potrà pur fare al riguardo richiamo al bisogno di una maggiore economicità ed efficienza nell’esercizio della giurisdizione; in disparte tuttavia la circostanza per cui anche siffatti connotati sono pur sempre pensati al servizio, oltre che della collettività, di quanti specificamente avanzano domande di giustizia[23], il vero è che a base del rilievo oggi dato alle pronunzie in parola c’è il bisogno, ancora più intensamente avvertito e meritevole di considerazione, di apprestare una giustizia giusta, eguale per tutti coloro che versano nella identica situazione di fatto e di diritto.

 

5.Concretezza dei giudizi e vocazione dei casi, nella loro oggettiva connotazione, alla loro “universalizzazione”: i verdetti dei giudici comuni “conseguenziali” a pronunzie della Corte EDU e il bisogno che in essi sia fatto integralmente salvo il principio di eguaglianza

Qui è il cuore della questione ora sommariamente discussa.

Commettono un grave errore di prospettiva (e, di conseguenza, di ricostruzione) quanti – e, come si sa, sono tanti – ritengono che gli effetti delle pronunzie della Corte EDU non possano che restare circoscritti al caso, poiché al caso stesso rimane strettamente ed inscindibilmente legato il verdetto emesso a Strasburgo, nel dispositivo così come (e soprattutto) nella parte motiva. Il punto è, però, che il caso va pur sempre visto nella sua complessiva connotazione oggettiva, quale risulta dai materiali normativi e fattuali assieme che compongono l’oggetto del giudizio. Al di là dei soggetti, ciò che rileva è il caso in sé, la singola vicenda processuale vista però nella sua capacità di “universalizzarsi”, di tornare a ripetersi coi medesimi caratteri oggettivi in vicende processuali a parti diverse[24].

La concretezza del giudizio non si discute; è – come si sa – una risorsa preziosa che dà modo al giudice, che sappia coglierla e sfruttarla appieno, di pervenire a quella giustizia giusta, di cui un momento fa si diceva, che resterebbe altrimenti non realizzata qualora il giudice, tradendo la funzione (ed anzi la vera e propria missione) al cui esercizio è chiamato, non si piegasse sull’umana vicenda portata alla sua cognizione, sui bisogni delle persone che fiduciose gli si rivolgono, vagliandoli alla luce, sì, delle norme in vigore ma riguardate per ciò che esse hanno da dare al servizio dei valori e dell’uomo[25]. Tutto ciò non soltanto non si avrebbe ma, verosimilmente, si avrebbe in modo distorto (con le prevedibili conseguenze a discapito della giustizia e di coloro che ad essa si affidano) ove il giudice si rinchiudesse in se stesso ed assumesse di poter giudicare in vitro (ed in prospettiva formale-astratta), anziché – come, a mia opinione, deve – in vivo (ed in prospettiva assiologico-sostanziale).

Lo stesso giudice costituzionale, che pure parrebbe per tabulas abilitato ad emettere verdetti connotati da generalità e, almeno in alcuni casi, da astrattezza[26], al pari delle leggi che essi assumono ad oggetto[27], formula – è ormai provato – giudizi dotati di un “tasso” assai elevato di concretezza[28], segnatamente nei giudizi in via incidentale (ma, a mia opinione, anche al di fuori di questi[29]).

La concretezza del giudizio è, dunque, una cosa; l’attitudine del giudizio stesso a portarsi oltre la singola vicenda giudiziaria un’altra. Perché, al tirar delle somme, è il caso stesso, nella sua oggettiva conformazione, ad esprimere una irresistibile vocazione in tal senso, ad “universalizzarsi” appunto, dal momento che è insita nell’idea stessa di giustizia, per il modo con cui è venuta a maturazione a seguito di una sofferta e lunga vicenda storica di carattere istituzionale, la sua aspirazione ad essere somministrata in modo eguale a quanti versano in situazioni parimenti eguali, così come in modo diverso per situazioni diverse.

Ora, non è di qui stabilire come tutto ciò si concilii con la (supposta) mancanza di vincolo della osservanza del precedente, che si reputa essere propria dei sistemi di civil law, e, prima, ancora con l’autonomia ed indipendenza riconosciuta al singolo giudice ed all’intero ordine cui esso appartiene[30]. Ciò che solo qui importa è se del vincolo in parola si abbia (e debba aversi[31]) traccia nelle pratiche di giustizia comune “conseguenziali” – per dir così – a pronunzie della Corte EDU e, prima ancora, nelle stesse pronunzie della Corte medesima, esse pure chiamate a comporsi in “indirizzi”, nel senso appena chiarito.

 

6.Conferme della estensione del vincolo discendente dalle pronunzie della Corte EDU che si hanno per effetto della tendenza crescente del giudice europeo alla propria “costituzionalizzazione”, in un contesto segnato da un’integrazione sovranazionale ormai avanzata e dal bisogno, viepiù avvertito, di una costante, mutua alimentazione semantica delle Carte e di un parimenti costante “dialogo” tra le Corti, che per la sua parte, lungi dallo svilire, ancora di più sottolinea il ruolo di centrale rilievo svolto dai giudici comuni in vista di un’ottimale salvaguardia dei diritti

Dopo le cose dette, credo che la risposta al quesito dianzi posto a riguardo della estensione del vincolo discendente dalle pronunzie della Corte EDU, ancorché bisognosa – come avvertivo – di precisazioni che non possono in questa sede trovare posto, debba essere affermativa. E ciò, per plurime ragioni, la principale delle quali è che il giudice di Strasburgo, al pari peraltro di quello di Lussemburgo[32], manifesta una tendenza crescente e sempre più vistosa, prontamente rilevata da un’accorta e sensibile dottrina[33], alla propria “costituzionalizzazione”, così come, dal canto loro, i tribunali costituzionali (specie invero alcuni, maggiormente attenti alle suggestioni provenienti dalle Corti europee) tendono ad “internazionalizzarsi” e ad “europeizzarsi”. Una tendenza che, di necessità, ha da accompagnarsi alla (e ad appoggiarsi sulla) attitudine delle pronunzie emesse da tutti questi giudici, specificamente laddove riguardanti i diritti fondamentali, a dare, a un tempo, certezza del diritto e certezza dei diritti (e, per ciò stesso, effettività della loro tutela).

È vero – va riconosciuto – che quelle appena indicate sono appunto delle tendenze, come tali bisognose di stabilizzarsi e di dotarsi delle opportune conferme. Già però, come si faceva poc’anzi notare a riguardo delle sentenze-pilota, si hanno molti segni che le avvalorano e che rendono testimonianza del loro progressivo radicamento nell’esperienza.

Non credo di spingermi troppo oltre nel considerare questo processo irreversibile, anche (ma non solo) a motivo dell’infittirsi delle relazioni interordinamentali e – ciò che maggiormente importa – della mutua interdipendenza tra Carte (e tra Corti), sempre più bisognose di sorreggersi e di alimentarsi a vicenda nei fatti interpretativi: specchio fedele di una integrazione sovranazionale in atto ormai avanzata, pur se – come si sa – non poco sofferta ed a tratti altalenante.

In questo quadro, qui appena accennato, di non poco momento si dimostra essere il ruolo che i giudici comuni sono chiamati ad esercitare, in spirito di “leale cooperazione” coi giudici europei e coi tribunali costituzionali[34].

L’applicazione diretta della Convenzione, pur laddove si reputi ammissibile unicamente al ricorrere di talune circostanze e non pure in via generale[35], s’inscrive in questo contesto e può dar modo ai giudici di rafforzare i rapporti che li legano alla Corte europea, al pari di quelli che già da tempo essi intrattengono con la Corte di giustizia (e – naturalmente – con la Corte costituzionale)[36], rapporti che promettono di infittirsi ulteriormente per effetto, per un verso, della prevista adesione dell’Unione alla CEDU[37] e, per un altro verso, delle richieste di “consulenza” che potranno essere rivolte alla Corte di Strasburgo a seguito dell’entrata in vigore del protocollo 16 che promette di non tardare a lungo[38].

 

7.Una previsione ed un auspicio finali

Vorrei chiudere con una previsione ed un auspicio.

La prima. Riflettendo, con una certa costanza, sulle più salienti espressioni della giurisprudenza (sia interna che sovranazionale) specificamente riguardante i diritti fondamentali, vado radicandomi sempre di più nel convincimento che tanto l’applicazione diretta della Convenzione quanto l’estensione della cerchia degli effetti prodotti dalle decisioni della Corte che ne è istituzionalmente garante prenderanno sempre di più piede nelle pratiche giudiziali di diritto interno. Sarà, verosimilmente, un processo lungo ed anche non poco travagliato, ma che la tendenza sia appunto questa personalmente non ho dubbi.

Il secondo. Sono altresì persuaso che lo stesso giudice delle leggi, il cui orientamento di “chiusura” nei riguardi dell’applicazione diretta parrebbe restare fermo e saldo sulle basi concettuali edificate con le sentenze “gemelle” del 2007, andrà col tempo a ritagliare spazi di una certa consistenza a beneficio dell’applicazione stessa[39], dopo che finalmente si sarà avveduto che nulla ha da perdere né la centralità del suo posto nel sistema istituzionale né il primato della Costituzione nel sistema degli atti produttivi di norme e che, piuttosto, proprio grazie a siffatta tecnica di risoluzione delle antinomie, si potrà sensibilmente allentare la tensione che, in casi non sporadici, ha segnato lo svolgimento delle relazioni della nostra Corte con quella europea. D’altro canto, proprio allargando la cerchia delle sedi istituzionali in cui si somministra giustizia, sia costituzionale che comune, si possono evitare talune esasperazioni o personalizzazioni dei conflitti che nocciono ad una sana e vigilata “leale cooperazione” tra i giudici, allo stesso tempo ricercando, attraverso un “dialogo” il più ampio e fitto possibile, le soluzioni ottimali per l’appagamento dei bisogni elementari dell’uomo. Il concorso corale, non già la sua chiusura unicamente a due o tre voci, è, a mio modo di vedere, la prospettiva giusta e feconda, da coltivare con passione e coraggio, se si ha a cuore di rendere un buon servizio, in pari misura, a tutte le Carte ed ai diritti in esse riconosciuti.

[1] Si faccia sin d’ora caso al fatto che, a differenza di una sensibile giurisprudenza preoccupata di dare pronto e fedele “seguito” alle pronunzie della Corte EDU, l’amministrazione è restìa ad attivarsi in tal senso, dando così testimonianza di talune pastoie che ad oggi l’avvolgono e ne impediscono l’agile e sollecito svolgimento al servizio dei diritti riconosciuti nella Convenzione.

[2] Come si sa, sulla legge 40 sono ad oggi pendenti alla Consulta talune questioni di costituzionalità che riguardano proprio la sua conformità alla Convenzione; e sarà da vedere quale considerazione sarà data all’orientamento nel frattempo manifestato dal giudice europeo.

[3] Di ciò, d’altronde, il giudice non doveva farsi carico, restando per sua natura circoscritta la pronunzia che era chiamato ad emettere alle sole parti ricorrenti. Il di più avrebbe, dunque, avuto un rilievo meramente culturale, da cui nondimeno avrebbero potuto trarre profitto altri giudici.

[4] … nel quale, nondimeno, come preciserò più avanti, non mi riconosco.

[5] Così, perlomeno, si suol dire, in linea con l’orientamento della Corte costituzionale ormai invalso. In altra sede, mi sono tuttavia chiesto se, a motivo dei suoi contenuti, per il fatto cioè di “parlare” di diritti fondamentali, la CEDU non possa che confrontarsi, in modo diretto ed esclusivo, con enunciati della Carta costituzionale espressivi di principi fondamentali.

[6] Sulle non poche, gravi questioni che al riguardo si pongono, fatte oggetto – come si sa – di un nutrito e ad oggi non sopito dibattito, v., di recente, L. Marrone, Esecuzione ed efficacia delle sentenze della Corte europea dei diritti umani in Italia: ancora sul caso Sud Fondi ed altri, in Dir. um. e dir. internaz., 6/2012, 183 ss.

[7] È poi da vedere se, in una circostanza siffatta (peraltro, dallo stesso giudice delle leggi ritenuta assai remota), possa assistersi alla caducazione nelle forme usuali della legge di esecuzione della Convenzione “nella parte in cui…” ovvero alla mera sua dichiarazione d’“irrilevanza” ai fini del caso, vale a dire al riconoscimento della sua inidoneità ad integrare il parametro costituzionale (soluzione da me patrocinata in Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto – E. Rossi, Torino 2011, 149 ss., spec. 168 ss., e in altri scritti). E non è al riguardo senza significato che il giudice delle leggi, a partire dalla sent. n. 311 del 2009, si sia fatto cura di non dichiarare più che le norme convenzionali (per il tramite della legge che vi dà esecuzione) siano passibili di annullamento.

[8] Non è tuttavia da escludere che, in una congiuntura siffatta, il giudice costituzionale possa motu proprio porre a se stesso una questione di costituzionalità in relazione a norma di legge a sua volta sospetta di violare la Convenzione. L’ipotesi, nondimeno, non è di agevole configurazione. La caducazione della fonte nazionale in via conseguenziale parrebbe presupporre la previa adozione di una pronunzia di accoglimento sulla Convenzione e il conseguente annullamento di norme interne a questa funzionalmente legate e volte a darvi fedele svolgimento, non già – come per l’ipotesi ora ragionata – norme contrarie a Convenzione. È pur vero, tuttavia, che in passato si è discusso circa la eventuale ammissione di dichiarazioni d’illegittimità conseguenziale contenute in pronunzie di rigetto (segnatamente, in decisioni interpretative di rigetto), ma la soluzione al riguardo prospettata “non parrebbe del tutto razionale” (così, A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2009, 217 e, più di recente, R. Perrone, Sentenze interpretative di rigetto e illegittimità conseguenziale, in Giur. cost., 2010, 939 ss.). L’ipotesi, ad ogni buon conto, in disparte ogni obiezione di ordine teorico riconducibile alla lettera dell’art. 27, l. n. 87 del 1953, non sembra ad oggi aver trovato riscontro (sull’istituto dell’illegittimità conseguenziale, v., per tutti, l’approfondito studio monografico di A. Morelli, L’illegittimità conseguenziale delle leggi. Certezza delle regole ed effettività della tutela, Soveria Mannelli 2008, e in quest’ultimo, per l’ipotesi sopra ragionata, 37 s.; dello stesso, ora, Le conseguenze dell’invalidità: l’incerto ambito di applicazione dell’art. 27, secondo periodo, della legge n. 87 del 1953, in Giur. cost., 1/2012, 439 ss., spec. 440).

[9] A sostegno della soluzione qui patrocinata a me pare che possa richiamarsi un passaggio, contenuto nel punto 7.2 del cons. in dir., della sent. n. 210 del 2013 nel quale si rileva che “le modalità attraverso le quali lo Stato membro si adegua con misure strutturali alle sentenze della Corte di Strasburgo non sempre sono puntualmente determinate nel loro contenuto da tali pronunce, ma ben possono essere individuate con un ragionevole margine di apprezzamento”.

[10] Riprendo qui una etichetta presente in un noto scritto di G. Silvestri, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Scritti su la giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, I, Padova 1985, 755 ss.

[11] Fra i suoi molti commenti, E. Malfatti, Un nuovo (incerto?) passo nel cammino “convenzionale” della Corte, e A. Morrone, Shopping di norme convenzionali? A prima lettura dell’ordinanza n. 150/2012 della Corte costituzionale, entrambi in www.forumcostituzionale.it, rispettivamente, 29 giugno e 19 luglio 2012; G. Repetto, Corte costituzionale, fecondazione eterologa e precedente CEDU “superveniens”: i rischi dell’iperconcretezza della questione di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 3/2012, 2069 ss.; V. Magrini, La scelta della restituzione degli atti nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 150/2012; B. Liberali, La procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti esterni alla coppia fra legislatore, giudici comuni, Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo; I. Pellizzone, Sentenza della Corte europea sopravvenuta e giudizio di legittimità costituzionale: perché la restituzione degli atti non convince. Considerazioni a margine dell’ord. n. 150 del 2012 della Corte costituzionale, tutti in www.rivistaaic.it, 3/2012; U. Salanitro, Il dialogo tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale in materia di fecondazione eterologa, in La nuova giur. civ. comm., 2012, II, 636 ss.; R. Romboli, Lo strumento della restituzione degli atti e l’ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte Edu come ius superveniens e la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in Consulta Online, 26 febbraio 2013, e pure ivi, S. Agosta, La Consulta nel gioco di specchi riflessi tra Corti sopranazionali e giudici comuni (in tema di protezione giuridica della vita nascente), 23 luglio 2012, nonché, volendo, anche il mio La Corte costituzionale, i parametri “conseguenziali” e la tecnica dell’assorbimento dei vizi rovesciata (a margine di Corte cost. n. 150 del 2012 e dell’anomala restituzione degli atti da essa operata con riguardo alle questioni di costituzionalità relative alla legge sulla procreazione medicalmente assistita), 12 giugno 2012; R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, a cura di R. Cosio e R. Foglia, Giuffrè, Milano 2013, 253 ss.

[12] Consiglio questo diverso sintagma, che a me pare più preciso del primo, pure ormai d’uso comune, dal momento che il termine “politico” potrebbe far pensare a forme di produzione normativa di specifica connotazione politica, quali sono quelle che si hanno per il tramite di convenzioni costituzionali o di regolarità, non già di regole, di esclusivo rilievo presso gli operatori politici.

[13] Pure per essi, però, si dovrebbero a mia opinione fare al riguardo non poche precisazioni che qui non possono trovare spazio (per qualche spunto, v., peraltro, infra).

[14] Riprendo qui il titolo di un noto commento alla Scoppola di F. Viganò, Figli di un Dio minore? Sulla sorte dei condannati all’ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in Scoppola c. Italia. Riflessioni in attesa della decisione delle Sezioni Unite, in www.penalecontemporaneo.it, 10 aprile 2012.

[15] Su di che, part., la densa riflessione teorica di G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009 e, più di recente, di C. Salazar, I princìpi in materia di libertà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura, in corso di stampa, spec. ai §§ 10 e 11. In prospettiva giusfilosofica, acuti rilievi possono vedersi in M. Zanichelli, Il valore dell’uguaglianza nella prospettiva del diritto, in La società degli individui, 3/2011, 33 ss.

[16] … e le relazioni internormative in genere, anche nelle loro espressioni di esclusivo rilievo interno. Si pensi, per fare solo i primi esempi che vengono in mente, al limite all’abrogazione popolare costituito dall’attitudine (che va, nondimeno, provata…) della disposizione oggetto della domanda referendaria ad offrire la “tutela minima” a beni costituzionalmente protetti, laddove cioè la composizione in sistema di fonti (che, a dire della Corte, sono pariordinate) si fa e senza sosta rinnova non già in ragione della veste formale delle fonti stesse o della forza da essa discendente bensì, ed esclusivamente, in ragione delle norme da esse prodotte, per il modo con cui si rapportano ai valori e li servono. E così pure per ciò che concerne l’avvicendamento delle leggi nel tempo, con specifico riguardo al caso che leggi anteriori fissino i c.d. “livelli essenziali” delle prestazioni concernenti i diritti, come tali non soltanto idonee a porre limiti all’autonomia regionale ma – a me pare – anche a leggi statali future che assumano di abbassare i livelli stessi oltre il costituzionalmente tollerabile, con grave pregiudizio dei diritti stessi e, in ultima istanza, della dignità della persona umana. E via dicendo.

[17] … il quale peraltro – fa ora giustamente notare E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, relazione alle Giornate italo-spagnolo-brasiliane su La protección de los derechos en un ordenamiento plural, Barcellona 17-18 ottobre 2013, in paper, § 3 – rileva parimenti al piano dei rapporti col diritto dell’Unione. Dal mio canto, ho già avuto modo di osservare in più luoghi (tra cui Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.rivistaaic.it, 1/2011) che i “controlimiti”, usualmente considerati per sistema opponibili all’ingresso del diritto stesso in ambito interno, in realtà vanno di volta in volta sottoposti a verifica, nessuna norma – interna o esterna che sia – potendo vantare una presunzione assoluta di preminenza su altre e tutte invece dovendosi giocare la partita alla pari, per il modo con cui, in base ai contenuti dalle stesse esibiti, possano vantare “copertura” nella coppia assiologica di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità), siccome idonee a darne l’ottimale servizio alle condizioni oggettive di contesto.

[18] La contraria opinione, che invece vorrebbe sempre e comunque assicurata la precedenza alla Costituzione sulla CEDU, comporterebbe, se accolta, un inevitabile slittamento di piano e conversione di metodo, alla prospettiva di stampo assiologico-sostanziale, che ha riguardo alle norme ed alla loro mobile composizione in sistema per il modo con cui servono i valori, subentrando la prospettiva d’ispirazione formale-astratta, che guarda alle fonti ed assume che esse detengano sempre il medesimo posto nel sistema. Solo che, ove ci si interroghi sul “luogo” positivo in cui si situi, in relazione ad un dato caso, la tutela più “intensa”, è evidente che la prospettiva si è già portata oltre lo schermo della forma (e delle fonti) per puntare diritto alle norme, onde stabilire quale di esse sia la più idonea ad offrire la tutela stessa.

[19] In realtà, come si è tentato di mostrare altrove, le cose, nel caso nostro, non stanno affatto così, dal momento che è la stessa Convenzione a voler ritagliare per sé un ruolo meramente “sussidiario” rispetto alle garanzie offerte in ambito interno, dichiarando di poter valere alla sola condizione che la tutela assicurata in quest’ultimo risulti inadeguata o, come che sia, meno “intensa” di quella che essa è in grado di apprestare. Di modo che nessuna violazione dell’art. 117, I c., in tesi, può dirsi sussistere ogni qual volta norme legislative contrarie a Convenzione si dimostrino idonee a garantire ancora meglio di quest’ultima i diritti fondamentali.

È tuttavia interessante notare, sia pure di sfuggita, che in altri campi di esperienza, qui non rilevanti, la giurisprudenza costituzionale ha più volte ammesso la “cedevolezza” delle norme sulla normazione rispetto alle norme sostantive della Carta, in funzione della ottimale salvaguardia dei diritti fondamentali (e, in definitiva, della dignità della persona umana): ad es., al piano dei rapporti tra le leggi di Stato e Regione, considerandosi (tra le altre, sentt. nn. 10 del 2010 e 62 del 2013) quelle dell’uno, diversamente (e stranamente) però rispetto a quelle dell’altra (sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011), abilitate ad immettersi negli ambiti materiali che non sono loro propri ove ciò si giustifichi (ed anzi imponga) in nome dei valori fondamentali dell’ordinamento. La qual cosa è, poi, uno dei molti indici di una complessiva tendenza del giudice costituzionale a farsi cura più delle ragioni dell’unità che di quelle dell’autonomia (a riguardo delle più salienti “regolarità” in tal senso riscontrabili nella più recente giurisprudenza, v., tra gli altri, S. Calzolaio, Di alcune “regolarità” nella giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del Titolo V, in Ist. Fed., 2/2013, 453 ss.).

[20] Su di che, può, volendo, vedersi ora il mio Il principio personalista e le sue proiezioni, in AA.VV., Principi costituzionali, cit, nonché in www.federalismi.it, 17/2013.

[21] Sull’annosa questione, ora, la documentata (anche con riferimenti ad esperienze straniere) trattazione di V. Sciarabba, Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato, Padova 2013.

[22] V., spec., sent. n. 210, cit., e ord. n. 235 del 2013 (e, su di esse, per un primo commento, F. Viganò, La Corte costituzionale sulle ricadute interne della sentenza Scoppola della Corte EDU, e Prosegue la ‘saga Scoppola’: una discutibile ordinanza di manifesta inammissibilità della Corte costituzionale, entrambe in www.penalecontemporaneo.it, rispettivamente 19 e 26 luglio 2013). Alla sent. n. 210 ha, peraltro, fatto esplicito richiamo la decisione del giudice romano qui annotata.

[23] Da una prospettiva di ordine teorico-generale, è stato, assai di recente, finemente osservato che anche la cura di interessi che fanno capo all’intera collettività (quali la sicurezza o la difesa da attacchi del nemico) ha pur sempre la sua ragion d’essere nella salvaguardia di diritti fondamentali di ciascun individuo (G. Silvestri, I diritti fondamentali nella giurisprudenza costituzionale italiana: bilanciamenti, conflitti e integrazioni delle tutele, in AA.VV., Principi costituzionali, cit.).

[24] Maggiori ragguagli sul punto, con specifico riguardo all’oggetto nei giudizi di costituzionalità e, in relazione a questo, agli effetti delle pronunzie della Corte che li definiscono, possono – se si vuole – aversi dal mio Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Milano 1990, spec. 95 ss., con le ulteriori precisazioni che sono in Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi – M. Cavino – J. Luther, Torino 2011, 349 ss.

[25] Ho trovato di straordinario spessore, civico e scientifico a un tempo, le riflessioni al riguardo svolte da R. Conti, ancora da ultimo nel suo Le scelte morali e i diritti delle persone: il ruolo del giudice e del legislatore, relaz. all’incontro su La giustizia davanti ai temi eticamente sensibili, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Roma 25-27 settembre, in paper.

[26] Così, per una risalente opinione che sempre più stancamente si trascina, si suol dire con specifico riferimento ai giudizi in via principale, in relazione ai quali la mancanza del “caso” comporterebbe automaticamente siffatta caratterizzazione del giudizio di costituzionalità (spunti di vario segno possono al riguardo cogliersi da AA.VV., I ricorsi in via principale, Milano 2011). In disparte, però, la circostanza per cui anche il più “astratto” di tali giudizi, quale prima della riscrittura del Titolo V si aveva nei riguardi delle leggi regionali a motivo della natura preventiva del controllo, ormai ha visto mutati i connotati complessivi del sindacato, che può svolgersi su leggi nel frattempo entrate in vigore, sta di fatto che il passaggio dalla disposizione alla norma operato in sede interpretativa si consuma pur sempre in un contesto segnato da esperienze di vario genere, da un mix insomma di materiali positivi e fattuali che fanno la singola questione e ne danno la cifra identificante complessiva. Ciò posto, è tuttavia da riconoscere che è ben diverso – se così può dirsi – il “tasso” di concretezza espresso dai giudizi che hanno la loro occasio in una vicenda processuale che prende corpo nelle aule in cui si somministra la giustizia comune rispetto a quello che è proprio dei giudizi di costituzionalità aventi origine diversa.

[27] L’attributo della generalità, com’è noto, non sempre ricorre in ogni legge; qui, nondimeno, importa fermare specificamente l’attenzione su ciò che il più delle volte accade ed ha maggior rilievo.

[28] Si sente assai spesso dire: … e, per ciò stesso, di politicità. A prescindere però dal carattere fumoso di siffatta qualifica, l’automatismo suddetto non mi pare, però, provato e, comunque, sistematicamente ricorrente.

[29] Se “concretezza” vuol dire anche sensibile attenzione alle circostanze di fatto, alla posta in palio, al contesto in cui il giudizio si svolge e giunge a compimento, è fuori discussione che essa – come si accennava poc’anzi – si ha sempre, ed in assai rilevante misura, nei giudizi che prendono corpo alla Consulta.

[30] In altri luoghi (v., ad es., nel mio Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum, in Consulta Online, 29 ottobre 2012, nonché, con specifica attenzione al processo costituzionale, ne Il processo costituzionale come processo, dal punto di vista della teoria della Costituzione e nella prospettiva delle relazioni interordinamentali, in Riv. dir. cost., 2009, 125 ss. e in www.gruppodipisa.it, 28 dicembre 2010), mi sono già sforzato di argomentare la tesi secondo cui è nell’essenza stessa della giurisdizione il suo comporsi in “indirizzi” (nella ristretta e propria accezione del termine) connotati da uniformità e linearità di svolgimenti, restando altrimenti pregiudicato il valore della certezza del diritto e, con esso e per ciò stesso, quello della certezza dei diritti.

[31] In realtà, le notazioni che si vanno ora svolgendo attengono – come può vedersi – più al modello, nella sua teorica configurazione, che all’esperienza, laddove vengono tracciate e continuamente rifatte plurime ed anche reciprocamente non poco divaricate linee di sviluppo giurisprudenziale. Difettano, purtroppo, ad oggi studi organici che facciano il punto sulle tendenze al riguardo presenti nelle pratiche giudiziarie, anche per la messe estremamente copiosa di materiali bisognosi di adeguato monitoraggio e sistemazione. Resto, ad ogni buon conto, persuaso del fatto che, grazie alla sensibilità che va in modo crescente maturando presso gli operatori di giustizia nei riguardi della giurisprudenza delle Corti europee, alle indicazioni di quest’ultima anche la giurisprudenza di diritto interno perlopiù si conformi, specie laddove proprio da essa vengano gli spunti idonei a dare il maggior appagamento alle domande di giustizia in modo pressante rivolte da una umanità dolente agli operatori stessi.

[32] Quanto a quest’ultimo, andrebbero fatte ulteriori precisazioni, in ragione della varietà delle competenze che gli sono assegnate e delle circostanze in relazione alle quali esse sono esercitate, a ciascuna delle quali dovrebbe riservarsi un separato corredo di argomenti; ed è di tutta evidenza, ad es., che altro è un giudizio emesso a Lussemburgo in cui si faccia richiamo alla Carta di Nizza-Strasburgo ed altra cosa un giudizio al quale resti estranea l’esigenza di dare tutela ai diritti fondamentali. E via dicendo.

[33] Sopra tutti, O. Pollicino, Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010, e O. Pollicino – V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti – V. Piccone, Roma 2010, 125 ss.

[34] A L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice si volge, ora, la riflessione di E. Ceccherini, in Dir. pubbl. comp. ed eur., II/2013, 467 ss. (ma, in argomento, come si sa, la letteratura è ormai copiosa). Quanto poi al ruolo dei giudici al fine dell’inveramento della Convenzione in ambito nazionale, una sua vigorosa ed appassionata sottolineatura si deve a R. Conti, che ne ha fatto oggetto di studi numerosi ed approfonditi (nella forma più organica, in La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011, ma v. pure, più di recente, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., 166 ss., e Le scelte morali e i diritti delle persone, cit.). Assai interessanti, da ultimo i contributi su The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law. An Italian Perspective, a cura di G. Repetto, Cambridge-Antwerp-Portland 2013.

[35] È questo l’ordine di idee nel quale mi riconosco e che ho più volte avuto modo di rappresentare [ad es., in Applicazioni e disapplicazioni dirette della CEDU (lineamenti di un “modello” internamente composito), in www.forumcostituzionale.it, 28 febbraio 2011]: l’applicazione diretta, in particolare, può aversi, oltre che in casi, come quello odierno, in cui debba darsi esecuzione al giudicato convenzionale, ogni qual volta si abbia sostanziale coincidenza tra norma CEDU e norma della Carta di Nizza-Strasburgo self-executing; e, ancora, laddove la norma CEDU sia posteriore a norma legislativa e si dimostri idonea a prendere subito il posto di questa per ius superveniens, e, infine, in presenza di vuoti di disciplina legislativa che possano essere colmati dalle norme convenzionali.

[36] … grazie allo strumento del rinvio pregiudiziale, quanto alle relazioni con l’una Corte, ed alla facoltà loro concessa di sollevare questioni di legittimità costituzionale, quanto a quelle con l’altra Corte.

[37] Non si trascuri la ricaduta che, sia pure in via riflessa, potrebbe aversi nelle pratiche quotidiane di somministrazione della giustizia comune da un esercizio della giurisdizione da parte della Corte dell’Unione ancora più attento e sensibile agli svolgimenti della giurisprudenza EDU, in conseguenza dell’adesione alla Convenzione, la Corte stessa essendo consapevole di dover fare – le piaccia o no – i conti col giudice di Strasburgo. Futuri adattamenti degli indirizzi giurisprudenziali formatisi a Lussemburgo (e, a rimorchio, presso i tribunali di diritto interno) sono dunque da prendere in considerazione. È poi pur vero che la stessa Corte di Strasburgo non rimane – come si sa – insensibile agli svolgimenti concreti della giurisprudenza “eurounitaria”, la quale, facendo a sua volta riferimento alle “tradizioni costituzionali comuni”, tiene in cale i più salienti indirizzi interpretativi di cui si fanno portatori i tribunali nazionali (specie quelli costituzionali e, ancora più specificamente, alcuni di essi). Il circolo interpretativo risulta così, una volta di più, provato. Altra cosa, cui però non può qui riservarsi neppure un cenno, è se – al di là dei vincoli positivi – possa considerarsi maggiormente marcata l’influenza culturale esercitata dall’una sull’altra Corte. Una questione, per ciò che qui solo può dirsi, alla quale a mia opinione non può essere data una sola risposta, allgemeingültig, la risposta stessa variando in relazione ai campi materiali di esperienza e nel tempo.

[38] È dei primi di ottobre la firma posta in calce al protocollo in parola da parte del nostro Paese assieme ad altri sei (sui possibili sviluppi delle relazioni tra Carte e tra Corti per effetto dell’entrata in vigore di siffatto, importante documento normativo si sono, tra gli altri, intrattenuti R. Conti, Le scelte morali e i diritti delle persone, cit., § 5.1, e F. Vecchio, Le prospettive di riforma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tra limiti tecnici e ‘cortocircuiti’ ideologici, in paper).

[39] Non dico – si badi – che si avrà una indiscriminata apertura, che francamente neppure io mi auguro, ma che con gli opportuni distinguo, a certe condizioni ed entro certi limiti, si trovi il modo per la sua realizzazione.

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