Soggetti terzi e limiti dell’autodichia degli organi costituzionali. Ancora un importante chiarimento da parte della Corte di Cassazione
Quella che può essere ormai descritta come la “saga” della verifica dei limiti dell’autodichia degli organi costituzionali, a seguito delle precisazioni a suo tempo formulate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 262 del 2017, si arricchisce ora di un nuovo capitolo con la decisione delle Sezioni Unite della Cassazione che qui si commenta.
Come noto, nella citata sentenza del 2017 i giudici di Palazzo della Consulta sciolgono il dubbio che avevano in altra sede sollevato circa la natura «controversa» dell’estensione dell’autodichia anche ai «rapporti di lavoro dei dipendenti e [ai] rapporti con i terzi» e fissano una serie di coordinate per tracciare il confine tra l’autonomia costituzionale dell’organo e la tutela giurisdizionale dei diritti.
Dopo aver chiarito che l’autodichia rappresenta una «manifestazione tradizionale della sfera di autonomia riconosciuta agli organi costituzionali» e che questa autonomia «si manifesta, innanzitutto, sul piano normativo», la Corte costituzionale rileva come l’autonomia normativa «logicamente investe anche gli aspetti organizzativi, ricomprendendovi ciò che riguarda il funzionamento degli apparati amministrativi “serventi”» e quindi anche i rapporti con i dipendenti; nonché che essa «non si esaurisce nella normazione, bensì comprende […] il momento applicativo delle norme stesse».
Poste queste premesse la Corte osserva però che l’autonomia normativa «ha un fondamento che ne rappresenta anche il confine», ragion per cui «se è consentito agli organi costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa, né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali)».
Tali controversie, infatti, «pur potendo avere ad oggetto rapporti non estranei all’esercizio delle funzioni dell’organo costituzionale, non riguardano in principio questioni puramente interne ad esso e non potrebbero perciò essere sottratte alla giurisdizione comune» (corsivi aggiunti).
Nonostante la chiara lettera della sentenza n. 262 avrebbe dovuto indurre la Camera dei deputati ad ottemperare al giudicato costituzionale, provvedendo ad una sollecita revisione del regolamento per la tutela giurisdizionale che attribuisce al Consiglio di giurisdizione le decisioni in primo grado sui ricorsi contro gli atti dell’amministrazione presentati anche da soggetti esterni, non solo non è stata avviata alcuna iniziativa in proposito, ma anzi l’organo costituzionale si è orientato in senso diametralmente opposto, contestando davanti al giudice amministrativo qualunque pretesa volta a collocare questo genere di controversie al di fuori della giurisdizione domestica.
Proprio da questo arroccamento a difesa di una interpretazione estensiva della propria autodichia nasce il caso giudiziario approdato davanti alle Sezioni Unite. La Camera dei deputati indice una procedura negoziata per l’affidamento dei servizi di monitoraggio dei contratti relativi ai servizi informatici. La società arrivata prima in graduatoria viene in seguito esclusa in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta ed impugna il provvedimento di esclusione davanti al TAR del Lazio. La Camera dei deputati eccepisce l’inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione.
Il TAR respinge l’eccezione e nel merito dà ragione all’Amministrazione della Camera. La società soccombente propone allora appello al Consiglio di Stato, davanti al quale l’organo costituzionale resiste reiterando l’eccezione di difetto assoluto di giurisdizione.
Anche i giudici di Palazzo Spada disattendono l’eccezione, ma accolgono l’appello principale e annullano l’atto di esclusione. A questo punto la Camera impugna la sentenza del Consiglio di Stato con ricorso in Cassazione ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., deducendo che la questione avrebbe dovuto essere devoluta ai suoi collegi giudicanti interni.
Nel negare la giurisdizione del giudice domestico le Sezioni Unite forniscono un prezioso contributo alla formazione di un diritto vivente che esclude dal perimetro dell’autodichia le controversie in materia di appalti e forniture di servizi a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali.
Si tratta di un arresto importante nella prospettiva di individuare quali siano quei «soggetti terzi» i cui rapporti controversi con gli organi costituzionali, ai sensi della sentenza n. 262 del 2017, sono attratti nell’orbita della giurisdizione comune.
Le Sezioni Unite non condividono la tesi riduttiva della Camera dei deputati la quale, derubricando a mero obiter dictum il passaggio della sentenza che sottrae alla giustizia domestica la cognizione delle liti con i terzi in materia di appalti, deduce l’erroneità della pronuncia del Consiglio di Stato che proprio su quell’affermazione aveva fondato il riconoscimento della propria giurisdizione.
Per la Cassazione, infatti, il passaggio in questione ha «un valore non soltanto esemplificativo», ma rappresenta «un preciso principio con efficacia orientativa», che esprime «lo spirito della decisione» e pertanto non può essere relegato «nel fragile limbo della divagazione argomentativa».
D’altra parte – osserva la Suprema Corte – nelle sentenze della Corte costituzionale, a differenza di quelle del giudice comune, la stessa differenza tra ratio decidendi e obiter dictum tende a diluirsi, poiché «le affermazioni di principio contenute nelle motivazioni di quelle pronunce […] hanno di mira la tutela di norme, di valori e di attribuzioni costituzionali, in una continua dialettica tra astratto e concreto».
Non è tutto. La Corte regolatrice evidenzia che nella fase di selezione del contrente non solo non si è (ancora) costituito alcun rapporto di servizio tra la società che partecipa alla gara e l’organo costituzionale, ma non può neppure essere instaurata quell’equazione posta dal giudice costituzionale tra normazione e giurisdizione domestica – «ubi autonomia ibi autodichia» come la si è definita altrove (sia consentito il rinvio a L. Castelli, L’autodichia degli organi costituzionali. Assetti, revisioni, evoluzioni, Torino, Giappichelli, 2019, 210) –, dal momento che la disciplina sostanziale del rapporto è essenzialmente recata da fonti nazionali e dell’Unione europea la cui applicazione, non incidendo sull’esercizio delle funzioni primarie dell’organo, non pone l’esigenza di garantire ad esso alcuna riserva di valutazione indipendente.
In sostanza quello che manca, nel caso di specie, è «il nesso di funzione» tra l’applicazione del diritto comune degli appalti alla procedura bandita dalla Camera e il pregiudizio che può concretamente derivarne al libero esercizio dell’autonomia costituzionale dell’organo, ciò che solo può giustificare la non interferenza dell’autorità giudiziaria nel relativo contenzioso.
L’esplicito riferimento al criterio del nesso funzionale merita di essere segnalato per le virtualità espansive che è in grado di sprigionare. A volerlo applicare magis ut valeat, infatti, esso andrebbe riferito anche ai rapporti di lavoro dei dipendenti. I quali andrebbero del pari distinti a seconda che siano funzionalmente connessi all’esercizio delle funzioni primarie dell’organo, con la conseguenza che l’applicazione delle norme regolamentari che li disciplinano non può che essere rimessa in via esclusiva alla cognizione dei giudici interni; ovvero esulino dall’esercizio di quelle funzioni e quindi non c’è ragione per non assoggettarli alla «grande regola» dello stato di diritto.
Come noto, però, la Corte costituzionale nella più volte richiamata sentenza n. 262 non ha accolto la lettura funzionalista della prerogativa, che sembrava in qualche modo potersi fare strada alla luce della precedente sentenza n. 120 del 2014, ma ha aderito ad una «concezione geografica» di autodichia (G. Buonomo), che assorbe al proprio interno l’intera gamma dei rapporti di lavoro dei dipendenti.
Nondimeno il richiamo al criterio del nesso funzionale, per di più espressamente contenuto in una pronuncia delle Sezioni Unite, sembra suscettibile di spiegare effetti anche al di là del caso concreto e potrebbe essere foriero di sviluppi promettenti da parte della giurisprudenza successiva.
Un ultimo accenno merita la questione – che in realtà nell’economia della sentenza ha carattere pregiudiziale – relativa al mancato esperimento da parte del Consiglio di Stato del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, ritenuto dalla Camera dei deputati l’unico strumento con cui sarebbe stato possibile sindacare l’autodichia.
Ad avviso della Camera, infatti, di fronte al difetto di giurisdizione da essa eccepito il giudice amministrativo non avrebbe potuto che prendere atto della giurisdizione domestica dell’organo costituzionale e dichiarare il ricorso inammissibile, sollevando eventualmente conflitto ove avesse ritenuto la disciplina regolamentare lesiva della sua funzione di rendere giustizia nel caso concreto.
Le motivazioni con cui le Sezioni Unite respingono tale doglianza rappresentano, a ben vedere, delle vere e proprie “istruzioni” impartite a tutti i giudici allorché si trovino al cospetto dell’eccezione di autodichia.
Il giudice non deve abdicare al suo potere-dovere di interpretare le norme regolamentari per verificare se la controversia di cui è investito rientri nel campo di applicazione dell’autodichia o appartenga alla sua giurisdizione. E ciò, può aggiungersi, a maggior ragione dopo che la Corte costituzionale (sent. n. 120 del 2014) ha definitivamente affrancato i regolamenti parlamentari dal retaggio statutario della loro rilevanza meramente interna, qualificandoli a tutti gli effetti come «fonti dell’ordinamento generale della Repubblica, produttive di norme sottoposte agli ordinari canoni interpretativi» (corsivo aggiunto).
Solo una volta che avrà accertato di trovarsi di fronte ad una fattispecie coperta da autodichia l’organo giudicante potrà decidere se chiudere in rito il processo oppure promuovere conflitto ove lamenti la menomazione delle sue attribuzioni costituzionalmente garantite. Altrimenti, qualora reputi di avere giurisdizione, deve decidere il giudizio nel merito e sarà eventualmente l’organo costituzionale a contestare questa valutazione in sede di conflitto, dolendosi che il giudice adito abbia interferito nell’esercizio delle sue prerogative.
Da questo punto di vista, dunque, l’eccezione di autodichia non produce lo stesso «effetto inibente» che consegue all’eccezione di insindacabilità proposta dal singolo parlamentare ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost.
Questa ricostruzione appare alla Suprema Corte anche la più aderente alla logica del conflitto di attribuzione, come rimedio che presuppone, a pena di inammissibilità, il carattere attuale e concreto del contrasto su cui il giudice costituzionale è chiamato a decidere. E dunque bene ha fatto il Consiglio di Stato a non sollevare conflitto non avendo alcun interesse attuale da tutelare, dal momento che avrebbe ben potuto interpretare il regolamento parlamentare anche come non lesivo della propria sfera di attribuzioni.
A questo punto, la Camera dei deputati ha davanti a sé due strade: prestare acquiescenza alla decisione delle Sezioni Unite che ha negato la giurisdizione dei suoi giudici domestici e quindi prendere definitivamente atto del confine stabilito dalla Corte costituzionale in materia di autodichia per i terzi; oppure sollevare un conflitto di attribuzione contro la decisione, lamentando che essa determini una compressione delle sue prerogative costituzionali.
Nel momento in cui si scrive non risulta pendente alcun conflitto davanti alla Corte costituzionale, ma non essendo previsti termini di decadenza per la proposizione del ricorso, a differenza di quanto avviene per i conflitti intersoggettivi (ex multis ord. n. 91 del 2016), non è da escludere che la Camera possa comunque insistere in sede contenziosa per difendere la dimensione “assoluta” – senza alcun limite – della propria autodichia.
Ove ciò accadesse la “saga” si arricchirebbe di un ulteriore capitolo. Ma c’è da immaginare che, a quel punto, sarebbe la Corte costituzionale a porre la parola fine ribadendo, stavolta all’esito di un giudizio avente ad oggetto questo specifico profilo, che la materia dell’affidamento a terzi dei contratti di forniture e servizi non rientra in alcuno degli ambiti guarentigiati dell’organo costituzionale.
Se invece la Camera si orientasse sin d’ora in favore della prima opzione, nulla più osterebbe ad una pronta modifica del regolamento per la tutela giurisdizionale dei non dipendenti che finalmente lo adegui alle indicazioni del giudice costituzionale, avallate dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione.