Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale*

Sommario: 1. I riflessi della questione fatta qui oggetto di esame al piano della teoria della Costituzione e a quello dei rapporti istituzionali (in ispecie, la comune opinione secondo cui il mantenimento delle forme a finalità sistematica risponderebbe allo scopo di preservare lo stacco tra civil e common law e la sua critica). – 2.  La ricostruzione corrente del sistema, secondo forma, e la descrizione più diffusamente accolta della operatività dei criteri ordinatori. – 3. La teoria dei limiti alla revisione costituzionale, l’abbandono delle forme in ordine alla sistemazione delle norme costituzionali che il suo accoglimento comporta, il mancato ricorso alla “logica” delle “coperture” secondo valore, dichiaratamente ammessa dal giudice costituzionale per il solo campo di esperienza in cui si svolgono i rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea. – 3.1. Il percorso non lineare della giurisprudenza, ovverosia le “schegge” di una sistemazione secondo le norme, non già secondo le fonti, con specifico riguardo alle discipline statali che danno i “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali. – 3.2. I limiti all’abrogazione popolare segnati dalle norme di legge che danno una “tutela minima” a beni costituzionalmente protetti. – 3.3. Il “bilanciamento” tra norme sulla normazione e norme sostantive (a proposito di alcune esperienze riguardanti le discipline legislative di Stato e Regione a presidio dei diritti, dello sperequato trattamento loro riservato, della singolare dottrina di una dignità della persona umana… a scomparsa, di cui si fa portatrice la giurisprudenza costituzionale). – 3.4. La deformalizzazione delle dinamiche della normazione, al piano delle relazioni interordinamentali e per effetto della crescente espansione del diritto di origine esterna, e la internamente composita giurisprudenza avente ad oggetto la CEDU e le forme del suo giuridico rilievo in ambito interno, oscillante tra il corno formale-astratto e quello assiologico-sostanziale in ordine alla ricostruzione e incessante rinnovo delle dinamiche costitutive del sistema. – 3.5. (Segue) Raffronti tra norme, commutazione del parametro in oggetto, e viceversa, tecniche di ripianamento delle antinomie (in particolare, applicazioni e disapplicazioni dirette della Convenzione da parte dei giudici comuni, alla luce del criterio della tutela più “intensa” offerta ai diritti fondamentali). – 3.6. (Segue) L’insegnamento che viene dall’ultima giurisprudenza sulla CEDU: la Costituzione come “intercostituzione”, i materiali offerti da altre Carte immettendosi nella struttura della Carta costituzionale e concorrendo senza sosta alla sua rigenerazione semantica, e il carattere “condizionato” di ogni fonte (Costituzione inclusa!), idonea a valere ed essere portata ad effetto unicamente in quanto ne sia provata l’attitudine a dare, in relazione al caso, la tutela più “intensa” ai diritti, vale a dire ad assicurare, a un tempo, certezza del diritto costituzionale e certezza dei diritti costituzionali. – 4. Il sistema è, a conti fatti, ricerca del… sistema, dell’armonica congiunzione di norme, “fatti” e valori, secondo una teoria della Costituzione assiologicamente orientata: una teoria che, proprio nella presente congiuntura segnata da una crisi economica lacerante, ha da esser tenuta ferma e portata alle massime realizzazioni consentite dal contesto, al servizio della Costituzione stessa, dei suoi valori, dell’uomo. 

 

1.I riflessi della questione fatta qui oggetto di esame al piano della teoria della Costituzione e a quello dei rapporti istituzionali (in ispecie, la comune opinione secondo cui il mantenimento delle forme a finalità sistematica risponderebbe allo scopo di preservare lo stacco tra civil e common law e la sua critica)

Parto dalla coda, enunciando subito la conclusione alla quale credo di poter pervenire a seguito di un monitoraggio costante che vado facendo della giurisprudenza; ed è che sembra essere confermato il giudizio evocato dal secondo frammento del titolo dato a questa mia riflessione, vale a dire che la Corte non sappia o non voglia optare né per l’uno né per l’altro corno dell’alternativa, che non abbia insomma una sola idea di sistema, di fonti o di norme che sia, che fedelmente e linearmente applica ai casi su cui è di volta in volta chiamata a pronunziarsi.
L’esito, se – come credo – avvalorato dall’esperienza (anche di quella che verrà…), è inquietante, dal momento che – come tenterò di mostrare – l’indecisione circa la conformazione strutturale del sistema ridonda ed interamente si risolve in una sostanziale indecisione circa ciò che è la Costituzione: in gioco è, insomma, la teoria della Costituzione, il modo con cui la legge fondamentale della Repubblica s’invera nell’esperienza e, per ciò stesso, dà senso sia al sistema che a… se stessa, confermandosi quale fons fontium, fondamento dell’ordinamento, nel suo essere ed incessante rigenerarsi nei suoi contenuti contingenti, tuttavia trasmettendosi sempre identico a sé.
Il quadro non è però tutto in penombra; s’intravedono, di tanto in tanto, sprazzi di luce, particolarmente frequenti proprio negli ultimi tempi e tali da indurre ad un cauto, se si vuole: molto cauto, ottimismo. Vistosi e duri a morire sono, nondimeno, i condizionamenti che vengono da una tradizione risalente, che ha nella forma il perno attorno al quale si fanno ruotare e dal quale stabilmente tenere le dinamiche della normazione: una tradizione – riconosco – che pure aveva, nel contesto in cui è maturata, una sua innegabile giustificazione, venuta tuttavia a mia opinione meno nel momento in cui quel contesto è stato soppiantato da altro, dal primo profondamente diverso[1]. La Corte in breve – è questa la tesi che mi propongo di argomentare – deve finalmente liberarsi da un vero e proprio crampo mentale che le impedisce di applicare e far valere schemi ricostruttivi originali, adeguati alla presente congiuntura e, a un tempo, idonei ad inscriversi armonicamente nel quadro costituzionale, non solo senza far luogo ad alcuna forzatura dello stesso ma anzi rendendone ancora più nitidi ed espressivi i lineamenti. Vi sono in una certa giurisprudenza, come si vedrà a breve con esempi, i semi che, opportunamente coltivati, alimentano questa speranza e che spingono decisamente per il secondo corno dell’alternativa evocata dal titolo dato a questa mia riflessione. A fronte di tale giurisprudenza sta però un’altra, diversamente orientata al piano metodico ancora prima che a quello teorico-ricostruttivo, che accusa forti ritardi culturali, siccome legata a filo doppio ad un formalismo esasperato, radicato in quel dogmatismo imperante che – come si sa – si è affermato a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento e che sta tuttora a base della più accreditata rappresentazione teorica dell’ordine delle fonti.
Le resistenze opposte da una parte assai consistente della nostra cultura giuridica ad abbandonare taluni schemi d’inquadramento sistematico di connotazione formale-astratta, pure finemente elaborati ma ormai vetusti, è comunemente spiegata col bisogno di preservare lo stacco esistente tra civil e common law, che tuttavia – com’è da molti, e sia pure con varietà di prospettive e di svolgimenti teorici, rilevato – appare ormai essere assai ridotto, proprio per effetto di una coraggiosa ed innovativa giurisprudenza[2], che ha infaticabilmente concorso (e concorre) a far mutare volto al sistema e, a un tempo, a… se stessa, incarnando il proprio ruolo in modi assai diversi rispetto al passato[3].
Rivista questa vicenda dal peculiare angolo visuale degli equilibri istituzionali, nella ricostruzione delle fonti comunemente accolta è da vedere lo sforzo di mettere al riparo la rappresentanza politica e le sue più emblematiche espressioni dalla sua “occupazione” e dal vero e proprio svilimento cui si reputa esser andata soggetta ad opera di un indirizzo scientemente e vigorosamente perseguito da parte dei giudici (sia comuni che costituzionali) e volto a debordare dagli argini agli stessi fissati per il fisiologico esercizio del ruolo ad essi assegnato[4].
Non è a mezzo di questi argomenti, tuttavia, che la questione può essere convenientemente posta e risolta, altro essendo il superamento dei limiti stabiliti per l’esercizio dell’attività di questo o quell’organo ed altro ancora il modo con cui l’attività stessa può (e deve) essere legittimamente svolta. E la circostanza per cui si assiste, anche assai di frequente, a torsioni vistose dei ruoli (ma, da parte di tutti: organi della direzione politica e preposti alla produzione giuridica, così come da parte dei garanti, persino dei massimi garanti dell’ordinamento) nulla di per sé dice a riguardo dei canoni o criteri che presiedono allo svolgimento delle funzioni assegnate agli organi stessi.
Ad ogni buon conto, anche l’indirizzo metodico-teorico che fa leva sulle forme a finalità ricostruttiva dell’ordine positivo (quale ordine di fonti, appunto) ammette che, secondo modello, i giudici non possano ormai più essere (se mai sono stati…) una mera bouche de la loi, secondo una fortunata loro immagine che tuttavia stancamente si ripete. Piuttosto, è da dire che vicende varie, a taluna delle quali si farà qui pure cenno, hanno col tempo sempre più messo in evidenza il ruolo attivo (alle volte, singolarmente attivo) dei giudici, specificamente sul terreno della salvaguardia dei diritti fondamentali; la qual cosa, per la sua parte, ulteriormente avvalora l’idea, nella quale da tempo mi riconosco e che qui pure tenterò di argomentare, secondo cui il sistema o è sistema di norme oppure semplicemente non è.

 

2.La ricostruzione corrente del sistema, secondo forma, e la descrizione più diffusamente accolta della operatività dei criteri ordinatori

L’impianto del sistema, nelle sue ricostruzioni ad oggi più diffuse e largamente fatte proprie dalla giurisprudenza, appare essere – come s’è accennato – d’ispirazione formale-astratta.
Molti sono i segni che potrebbero essere addotti a sostegno di quest’affermazione. E basti solo por mente al fatto che il criterio posto dalla Corte costituzionale a base del riconoscimento della propria competenza a giudicare della validità delle leggi e degli atti a queste equiparati fa appunto leva sulla forma degli atti, unicamente alcuni di essi essendo riconosciuti come dotati di “valore di legge” e, pertanto, esclusivamente soggetti al sindacato del giudice costituzionale. Nessun rilievo, come si sa, è assegnato alla forza sostanziale espressa dalle norme contenute negli atti stessi: i regolamenti delegati, ad es., pur essendo provvisti della capacità di statuire in contrasto di leggi vigenti, restano esclusi, per il solo fatto di portare il nome di regolamenti, dal novero degli atti impugnabili in sede di giudizio sulle leggi (non ha, infatti, come si sa, avuto fortuna la contraria e argomentata proposta di un’autorevole dottrina volta a dar modo anche a tali regolamenti di essere portati alla cognizione della Corte[5]).
Non risolutivo, a giustificazione della tesi ormai invalsa, appare tuttavia essere il rilievo per cui l’effetto abrogativo sarebbe da far risalire – secondo l’opinione fatta propria sia dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988 che dalla giurisprudenza – alla legge “delegante”, sicché, non producendolo il regolamento, non si capirebbe la ragione della sua sindacabilità da parte della Corte costituzionale. Un argomento, questo, a mia opinione privo di pregio; piuttosto, l’errore è, in realtà, a monte, proprio nella esclusiva imputazione dell’effetto abrogativo in capo alla legge di delegificazione che – come ho avuto modo di dire altrove – porta diritto a fare del regolamento delegato una fonte senza effetto, così dunque in buona sostanza degradata a mero “fatto”. Se, tuttavia, non si vuol fare della legge di delegificazione una mera fonte sulla normazione, dando pertanto il giusto peso alle sue “norme generali regolatrici della materia”, non può che concludersi – a me pare[6] – nel senso che ciascuna delle fonti in campo, la legge di delegificazione e il regolamento delegato, appare esser artefice di una quota dell’effetto da esse unitariamente ed inscindibilmente prodotto, con apporti varî a seconda della estensione delle norme in ciascun atto contenute.
Non si sta, ad ogni buon conto, ora a discutere dell’esattezza o dell’inesattezza né della tesi fatta propria dalla Corte né della tesi patrocinata dalla dottrina minoritaria appena evocata in ordine alla sindacabilità degli atti normativi in parola. Ciò che solo qui importa è che è così; e col diritto vivente – piaccia o no – occorre pur sempre fare i conti, dal momento che è in esso che si converte e interamente risolve il diritto vigente. Ormai si è dunque affermata una metanorma consuetudinaria, interpretativa del disposto di cui all’art. 134 cost., che ha determinato l’esito della estraneazione dei regolamenti (e di altri atti ancora) dalla cerchia degli oggetti possibili dei giudizi sulle leggi.
Una sola cosa tuttavia preme adesso mettere in evidenza a riguardo dell’indirizzo giurisprudenziale ora indicato e dell’orientamento dottrinale che lo sostiene; ed è che a poco giova addurre a sua giustificazione la circostanza per cui, altrimenti opinando, verrebbe senza riparo pregiudicata la certezza del diritto, nel presupposto (assiomaticamente accolto) che la forma dia certezze, la sostanza incertezze, risultando pertanto opportunamente contenuto, se non pure azzerato, il margine di discrezionalità degli operatori (e, tra questi, della stessa Corte) in ordine alla selezione degli oggetti possibili del sindacato di costituzionalità.
Un ragionamento siffatto, pure assai ricorrente, va infatti incontro, a mia opinione, ad alcuni ostacoli in ordine al suo possibile accoglimento, mostrandosi espressivo di un’idea mitica e quasi sacrale della certezza, che pure – non si discute – è valore fondamentale dell’ordinamento, secondo quanto peraltro è stato più volte riconosciuto anche in giurisprudenza, e però, al pari di qualsivoglia altro valore, passibile di bilanciamento. In disparte questa generale riserva, il vero è che è la stessa giurisprudenza, in talune sue recenti, particolarmente significative espressioni, a mostrare di intendere la certezza in un’accezione non formale bensì sostanziale (o, meglio, assiologico-sostanziale) o, per dir meglio, ad oscillare tra l’una e l’altra accezione. Ciò che, ad ogni buon conto, fa venire meno proprio la base metodica sulla quale far stabilmente reggere la costruzione teorica di cui ora si discorre. Ma di ciò, a tempo debito.
Tornando ora alla tesi di fondo fatta propria dalla giurisprudenza, il carattere formale-astratto della ricostruzione del sistema balza subito agli occhi per il modo con cui sono intesi i criteri ordinatori. La giurisprudenza (e, con essa, la comune dottrina) si dichiara dell’avviso che ogni fonte abbia un suo “posto” nel sistema, che stabilmente detenga, un “posto” appunto riportabile alla forma della fonte stessa. Si può dire, con una corta espressione che ho più volte utilizzato per sintetizzare questo stato di cose, che la forma fa la forza. Sta tutta qui, in nuce, la visione piramidale del sistema, dalle fin troppo note ascendenze teoriche perché vi si debba fare ora richiamo[7], che, partendo dall’alto, ha nelle leggi di revisione costituzionale e nelle “altre” leggi costituzionali[8] le fonti apicali del sistema[9] e da queste via via discende ai gradi ulteriori della scala gerarchica (passando attraverso la legge e gli atti a questa equiparati, rigorosamente individuati secondo criteri appunto formali, fino a pervenire ai regolamenti, alle fonti terziarie, ecc.).
Anche laddove poi si rileva l’operatività di criteri ordinatori diversi dalla gerarchia (e, segnatamente, di quello della separazione delle competenze o, più semplicemente, della competenza), le cui movenze sono state magistralmente rappresentate da una insuperata dottrina[10], ugualmente non se n’è rinnegata la conformazione secondo forma. Basti solo al riguardo pensare al modo con cui sono stati intesi (specie sul finire degli anni cinquanta e primi anni sessanta del secolo appena trascorso) i rapporti tra leggi statali e leggi regionali o quelli tra legge e regolamento parlamentare: laddove, nuovamente, è il nomen dell’atto a decidere del “posto” dell’atto stesso, della sua idoneità ad esprimere certi vincoli a carico di altri atti ovvero di resistere ai tentativi d’invasione della propria sfera di competenze posti in essere da atti aventi nome diverso.
D’ispirazione formale-astratta è, infine, anche il canone, di antichissima fattura, della lex posterior[11]: l’abrogazione e la modifica in genere è consentita a beneficio di una fonte nei riguardi di altra fonte (perlopiù – come si diceva – tutte di pari grado), ancora una volta in nome del… nome, non già di certe “qualità” possedute dalle norme degli atti in campo. Le norme rilevano, sì, al fine di stabilire se v’è contrasto o, all’inverso, se è possibile riconciliare in via interpretativa gli atti in campo; ma l’attitudine, appunto quale astratta capacità, a produrre l’effetto abrogativo (in larga accezione, comprensiva di qualsivoglia innovazione normativa) si fa riportare pur sempre alla forma: nessun dubbio, infatti, può, per la tesi ora succintamente riferita, aversi a riguardo del fatto che un atto posteriormente adottato non possa innovare ad uno anteriore nel caso che il primo sia gerarchicamente sovraordinato al secondo (e lo sia, come s’è veduto, in ragione della forma di cui si riveste).
Si vedrà tuttavia tra non molto che quest’affermazione non è sempre vera; e il fatto che non lo sia in qualche caso (non saprei dire in quanti casi, ma qui non è luogo per statistiche costituzionali…) toglie validità all’affermazione stessa, perlomeno nella sua ambiziosa proiezione a carattere generale.
Questo è, dunque, il tronco della costruzione corrente del sistema, la sua struttura portante. Ma è in grado di resistere ai colpi infertigli dalla stessa giurisprudenza trattando di alcune cruciali questioni riguardanti la composizione delle fonti in sistema e il modo con cui esse si riportano alla Costituzione?

 

3.La teoria dei limiti alla revisione costituzionale, l’abbandono delle forme in ordine alla sistemazione delle norme costituzionali che il suo accoglimento comporta, il mancato ricorso alla “logica” delle “coperture” secondo valore, dichiaratamente ammessa dal giudice costituzionale per il solo campo di esperienza in cui si svolgono i rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea

Non è agevole, come dicevo all’inizio di questa mia riflessione, rispondere a cuor leggero alla domanda da ultimo posta. Viste le cose da una certa angolazione alle volte verrebbe di dire di sì, che l’impianto secondo forma tenga a fronte di soluzioni, diversamente orientate al piano metodico e svolte al piano dogmatico, apprestate per talune questioni definite dal giudice delle leggi; altre volte, di contro, verrebbe di dire di no, la prospettiva d’ispirazione formale-astratta sembrando essere messa risolutamente da canto per far posto ad una prospettiva d’ispirazione assiologico-sostanziale. Si tratta, dunque, al tirar delle somme, di stabilire se le risposte date dalla giurisprudenza alla luce di questa seconda prospettiva siano idonee non soltanto ad incrinare la costruzione eretta alla luce della prima prospettiva ma, addirittura, a determinarne il crollo.
Lascio al lettore di queste mie scarne e succinte notazioni il verdetto finale; ciò che solo chiedo è di fare lo sforzo di non leggerle in modo preorientato, con le lenti forgiate da una pur nobile tradizione culturale ma, a mia opinione, ormai inadeguate a penetrare la struttura dell’oggetto riguardato ed a coglierne l’essenza, le incessanti movenze degli elementi che la compongono e senza sosta rinnovano.
La prima e più rilevante espressione di un indirizzo non formalista è da vedere nella dottrina, fatta propria senza esitazione e riserve dal giudice costituzionale[12], dei limiti sostanziali alla revisione costituzionale. Qualcuno dice non esser corretto al riguardo ragionare – come invece molti fanno – di una vera e propria gerarchia di norme in seno alla Carta costituzionale; sta di fatto, tuttavia, che alcune di esse esibiscono una formidabile capacità di resistenza a qualsivoglia innovazione per via legale, potendo – in via di mera ipotesi – essere travolte unicamente dall’avvento, per tabulas forzoso[13], di un nuovo potere costituente. Poi, è tutto da vedere come far luogo, in modo adeguato, al riconoscimento delle norme che, sole, possono fregiarsi del titolo estremamente selettivo di esprimere i principi fondamentali dell’ordinamento ovvero di porsi al servizio dei principi stessi in guise tali che la loro incisione o venuta meno ipso facto (e… iure) ridonderebbe in incisione o caduta dei principi medesimi[14].
Non è qui possibile indugiare a riguardo delle tecniche interpretative dei principi o, ad esser più precisi, delle tecniche che consentano di stabilire se le norme di volta in volta desunte per via d’interpretazione siano o no principi (è evidente, infatti, che questi ultimi non sono un prius bensì un posterius dei fatti interpretativi). Ciò che solo importa, come si diceva, è che si distingua in seno al corpo costituzionale elemento da elemento, norma da norma, secondo un criterio certamente non formale (tutte le norme stesse appartenendo al medesimo documento) bensì assiologico-sostanziale, dovendosi riguardare ai valori in nome dei quali si è svolta la lotta vittoriosa che ha portato all’avvento dell’ordine costituzionale vigente e da essi appunto muovere nella ricerca delle norme che nel modo più diretto, immediato, genuino li esprimano, ponendo le basi per il loro più saldo radicamento nell’ordinamento[15].
Sulla dottrina dei limiti all’innovazione costituzionale, ad ogni buon conto, si registra ormai, salvo – come si sa – un isolato dissenso[16], una unanimità di vedute, in tale dottrina riconoscendosi – e la cosa non cessa ai miei occhi di apparire misteriosa – persino quanti si dichiarano dell’idea che il sistema risulti composto – come si diceva – da fonti, ciascuna provvista di una forza sua propria in ragione della forma di cui si riveste. Seguito, infatti, a considerare[17] afflitta da una contraddizione insanabile la comune opinione che, in premessa, individua il quid proprium della Costituzione nel suo “nucleo duro”, quale costituito dai principi fondamentali che ne danno appunto la essenza[18], ricostruendo quindi le dinamiche interne al sistema in applicazione di criteri di formale fattura. In tal modo, viene però meno la ragion d’essere delle “coperture” costituzionali secondo valore; viene, cioè, scavato un solco incolmabile tra i principi fondamentali, che dei valori danno la prima e più genuina rappresentazione positiva, e tutte le norme restanti (e sottostanti) i cui rapporti si reputano essere governati da canoni (criteri ordinatori, appunto) d’ispirazione formale-astratta. Senza avvedersene, si spiana così la via al fraudolento aggiramento dei principi stessi (e, risalendo, dunque, dei valori), una volta che si recida il filo che li lega alle norme (non già, si badi, alle fonti) che vi danno il primo, diretto e necessario svolgimento, ammettendosi che le norme stesse soggiacciano in tutto e per tutto al regime valevole per gli atti cui esse appartengono. Si nega pertanto un dato di tutta evidenza, fedelmente rappresentato dall’immagine circolare che vede, sì, i principi offrire protezione (“copertura”, come si suol dire) alle norme che vi danno attuazione ma, allo stesso tempo, ricevere un servizio da queste, grazie al quale i principi possono radicarsi nel terreno dell’ordinamento e in esso inverarsi, nel migliore dei modi alle condizioni oggettive di contesto.
A conti fatti, solo in un campo di esperienza, quello dei rapporti tra Stato e Unione europea, al quale fanno capo interessi peculiari e bisognosi di una speciale salvaguardia, la “logica” delle “coperture” secondo valore ha avuto modo di affermarsi in modo esplicito, portando persino al ribaltamento della gerarchia secondo forma, regolamenti adottati al fine di dare attuazione alle norme dell’Unione mostrandosi idonei a resistere a tentativi di deroga da parte di leggi (e fonti sovraordinate in genere) che, ad essi innovando, per ciò stesso vengano ad urtare con la norma costituzionale di “copertura”, di cui all’art. 11 della Carta.
Se ne dirà meglio a momenti. Resta, ad ogni buon conto, singolare la circostanza che la “logica” in parola si consideri sprovvista di generale valenza: quasi che solo una tra le norme di cui si compone la Carta costituzionale possa essere in grado di attivare meccanismi di protezione di natura assiologica ovvero che essi possano aversi solo in un campo materiale di esperienza, quello dei rapporti con l’Unione.
Eppure, malgrado alla Consulta le “coperture” secondo valore si predichino unicamente per il campo suddetto, di fatto sono poi riconosciute e fatte valere – è questo il punto su cui vorrei qui fermare specificamente l’attenzione – in molti altri casi, venendosi così a formare, goccia dopo goccia, un vero e proprio fiume sotterraneo dall’andamento carsico, che solo a tratti affiora in superficie e che però va giorno dopo giorno a corrodere le fondamenta di quella costruzione del sistema su basi formali-astratte i cui tratti di fondo sono stati poc’anzi succintamente rappresentati.
Le tracce più vistose di questo percorso non lineare ed anche, a dire il vero, non poco sofferto si hanno nel campo della tutela dei diritti fondamentali.
Torno ora a riguardare a questa tutela da quattro angoli visuali diversi, con riferimento a talune note esperienze della giustizia costituzionale, che qui richiamo, corredandole di brevi notazioni, unicamente per le specifiche esigenze ricostruttive di questo studio. Si tratta di “schegge” – come le si sono altrove chiamate – di una sistemazione di ordine assiologico-sostanziale, che si innestano nel tronco della ricostruzione d’ispirazione formale-astratta ed alle quali è a mia opinione da riconoscere uno speciale rilievo, oltre che la capacità di irradiarsi e beneficamente contagiare altresì le parti restanti della costruzione stessa.
Di esse dobbiamo dunque ora dire, sia pure con la sintesi imposta a questa riflessione.

 

3.1.Il percorso non lineare della giurisprudenza, ovverosia le “schegge” di una sistemazione secondo le norme, non già secondo le fonti, con specifico riguardo alle discipline statali che danno i “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali

Dal primo angolo visuale si colgono le vicende riguardanti la definizione normativa dei c.d. “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti[19]. Cosa siano tali livelli non s’è mai ben capito; è certo, peraltro, che la loro definizione normativa rimanda al contesto nel quale s’inscrive, mutando pertanto col mutare di questo. Se ne ha palmare riprova proprio nella presente congiuntura segnata da una crisi economico-finanziaria senza precedenti[20], da essa discendendo un forte ridimensionamento di taluni diritti (specie di quelli c.d. “sociali”) e, in genere, di bisogni elementari dell’uomo. Eppure, v’è una soglia al di sotto della quale non è possibile, in alcun caso o modo, scendere, venendo altrimenti pregiudicata la dignità della persona umana (un valore, questo, su cui tornerò ad insistere anche più avanti, giocando un ruolo di centrale rilievo nella ricostruzione qui prospettata).
Dei “livelli” in parola si discorre animatamente, come si sa, con specifico riguardo al nuovo riparto costituzionale delle competenze operato dalla riforma del 2001 del Titolo V della Carta. Dalla prospettiva qui accolta, però, il riferimento ad essi fatto nell’art. 117, II c., lett. m) assume un’ancòra maggiore valenza, apprezzabile in prospettiva assiologicamente orientata. Le leggi statali cui è riservata la fissazione dei livelli in parola possono, dunque, spostare, per i singoli ambiti materiali, ora più in alto ed ora più in basso la linea di confine tra ciò che è “essenziale” e ciò che “essenziale” non è, ove si convenga a riguardo del carattere storicamente determinato sia dell’uno che dell’altro, ma pur sempre – come si è venuti dicendo – entro margini di escursione di campo circoscritti e soggetti a vaglio secondo ragionevolezza, nella sua conformazione internamente complessa, siccome riferita alla congruità delle norme, a un tempo, rispetto all’assetto degli interessi e rispetto ai valori, in special modo alla coppia assiologica di libertà ed eguaglianza, nelle mutue implicazioni che tra di esse s’intrattengono[21]. Le leggi statali sui “livelli” sono, perciò, sì, modificabili ma pur sempre a condizione che ne risulti integra la dignità della persona umana. È una importante testimonianza (altre si vedranno a breve) del fatto che l’operatività dei criteri ordinatori (qui, di quello della lex posterior) può cogliersi nella giusta luce non già dalla prospettiva formale-astratta, che guarda unicamente alle fonti, bensì da una storico-concreta, d’ispirazione assiologico-sostanziale, che fa capo alle norme, per il modo con cui si riportano le une alle altre e tutte assieme, a un tempo, a “fatti” e valori.
Si vedrà, nondimeno, a momenti che la giurisprudenza non si presenta sempre ferma e lineare nei suoi svolgimenti, a presidio dei diritti fondamentali (e, in ultima istanza, della dignità), esibendo incertezze non lievi ed anche vistose incoerenze (o, quanto meno, come lascia intendere il titolo dato a questa mia riflessione, oscillazioni), al punto da doversi faticare non poco a rinvenire un “nucleo duro” di una teoria giurisprudenziale delle fonti che rimanga sempre identico a sé, pur nel variare dei casi e delle rispettive soluzioni.

 

3.2I limiti all’abrogazione popolare segnati dalle norme di legge che danno una “tutela minima” a beni costituzionalmente protetti

Non dissimile è la “logica” che sta a base dell’indirizzo giurisprudenziale in materia di referendum, specificamente nella parte in cui sono messe al riparo dalle iniziative di abrogazione popolare quelle leggi (o, meglio, quelle loro norme) che danno una “tutela minima” – come la Consulta è solita chiamarla – di beni costituzionalmente protetti[22].
Qui, non sono in gioco soltanto, seppur principalmente, i diritti; il riferimento è, infatti, in via di principio esteso a tutto campo, ad ogni bene che risulti essere provvisto di riconoscimento costituzionale e che potrebbe risultare irreparabilmente pregiudicato dall’effetto abrogativo avente ad oggetto norme di legge poste a salvaguardia di quei beni.
Nuovamente, non si tratta ora di stabilire (o, con doverosa cautela, tentare di stabilire) in cosa tale “tutela minima” si risolva né se essa sia, in tutto o in parte, sovrapponibile a quei “livelli essenziali”, di cui si è appena discorso. Una sola cosa è tuttavia certa; ed è che se le norme che danno la tutela in parola resistono alla loro rimozione mediante referendum, non possono che resistere altresì alla loro abrogazione “secca” con legge.
Come si vede, le vicende della normazione, laddove incrocino i diritti (e, in genere, i beni costituzionalmente protetti), non possono essere convenientemente spiegate col mero riferimento alle fonti; è solo nel momento in cui si trapassa la corazza della forma e si punta alla sostanza in essa racchiusa (alle norme, appunto) che può stabilirsi se l’innovazione è, o no, lecita. È, dunque, solo riguardando le relazioni tra le norme in seno al contesto nel quale esse s’inscrivono ed alla luce dei valori che può dirsi se v’è, o no, vera parità tra le norme stesse, potendosi pertanto dar spazio al canone della lex posterior che ne governa la successione nel tempo, o non piuttosto gerarchia, malgrado la identità di forma e l’astrattamente non diversa collocazione nel sistema.
Ci si avvede così che nulla può dirsi a priori circa il modo con cui una fonte si pone davanti ad altre fonti e viene pertanto a trovare ricetto nel sistema; tutto, piuttosto, può dirsi solo a posteriori, per il modo con cui le norme dalle fonti prodotte si riportano le une alle altre e tutte assieme a “fatti” e valori. La gerarchia, insomma, in ultima istanza si fa e senza sosta rinnova, fissandosi per le esigenze di un’esperienza data, davanti al giudice (e, segnatamente, avuto riguardo alle vicende delle fonti di primo grado, davanti al giudice costituzionale), la certezza del diritto convertendosi ed interamente risolvendosi in certezza dei diritti, vale a dire, a conti fatti, nella effettività della loro tutela, la massima possibile alle condizioni oggettive di contesto (ma sul punto, di cruciale rilievo, anche più avanti).

 

3.3. Il “bilanciamento” tra norme sulla normazione e norme sostantive (a proposito di alcune esperienze riguardanti le discipline legislative di Stato e Regione a presidio dei diritti, dello sperequato trattamento loro riservato, della singolare dottrina di una dignità della persona umana… a scomparsa, di cui si fa portatrice la giurisprudenza costituzionale)

Non è solo il canone della lex posterior a trovarsi non di rado in crisi, fino al punto di essere messo interamente da canto; anche il canone della competenza e persino quello della gerarchia secondo forma possono – come si diceva – sottostare a grave stress ed a forte ridimensionamento della loro vis ordinativa.
A fronte del bisogno di dare appagamento ai diritti possono, dunque, alle volte “saltare” (ed effettivamente “saltano”) le quiete sistemazioni d’ispirazione formale-astratta.
A riguardo del riparto costituzionale delle competenze Stato-Regioni, la giurisprudenza ci dice che le stesse norme sulla normazione, usualmente considerate categoricamente inderogabili, da esse discendendo la integra trasmissione dell’ordinamento nel tempo, possono soggiacere a “bilanciamento” con norme sostantive della Carta: un “bilanciamento” che, tuttavia, appare essere… squilibrato, portando al loro stesso risoluto accantonamento.
Si pensi, ad es., alla “invenzione” della social card da parte dello Stato, espressamente riconosciuta come invasiva della sfera materiale di competenze delle Regioni e tuttavia ugualmente giustificata, in nome della salvaguardia della dignità di persone particolarmente bisognose[23]. È singolare la circostanza per cui la medesima “logica” non si giudica idonea a valere in modo speculare, a “copertura” di leggi regionali “anticipatrici” di leggi statali carenti[24]: laddove la invasione di campo non avrebbe comunque impedito allo Stato di riappropriarsi in ogni tempo della competenza che ad esso spetta, in applicazione – come si vede – di quell’accezione concreta del canone della competenza di cui la stessa giurisprudenza già da tempo si è fatta portatrice[25].
Rivista la vicenda dal punto di vista della salvaguardia della dignità, se ne ha che quest’ultima non appare più essere, quale invece è, un valore indisponibile, la “bilancia” – è stato detto da una sensibile dottrina[26] – su cui si dispongono i beni bisognosi di “bilanciamento”[27]; come mi è venuto di dire in altre occasioni, è piuttosto un valore a scomparsa, che ora c’è ed ora no, prestandosi a strumentali utilizzi ad esclusivo beneficio del soggetto più forte, lo Stato.
Al tirar delle somme, come si è veduto, le esperienze di giustizia costituzionale ora riguardate, con il loro non lineare, confuso svolgimento, danno l’idea di un andamento altalenante della giurisprudenza, che ora si fa attrarre dalle suggestioni del corno assiologico-sostanziale ed ora però resiste visceralmente legata al corno formale-astratto, non riuscendo pertanto a liberarsi del condizionamento esercitato dalla tradizione culturale che a quest’ultimo fa capo.

 

3.4. La deformalizzazione delle dinamiche della normazione, al piano delle relazioni interordinamentali e per effetto della crescente espansione del diritto di origine esterna, e la internamente composita giurisprudenza avente ad oggetto la CEDU e le forme del suo giuridico rilievo in ambito interno, oscillante tra il corno formale-astratto e quello assiologico-sostanziale in ordine alla ricostruzione e incessante rinnovo delle dinamiche costitutive del sistema

Il campo di esperienza nel quale questa lotta tra un “vecchio” che mostra sorprendenti capacità di resistenza e un “nuovo” che incalza per prenderne il posto si rende particolarmente visibile è quello delle relazioni interordinamentali.
Se n’è detto, sia pure con la sintesi imposta a questa riflessione, per alcuni aspetti poc’anzi. Qui, deve ora aggiungersi che la crescita esponenziale del rilievo delle fonti di origine esterna porta ad una parimenti crescente, marcata deformalizzazione delle dinamiche della normazione.
Si pensi, ancora solo per un momento, alle ricadute in ambito interno del primato del diritto dell’Unione. A seguito dell’adozione delle norme sovranazionali e del loro ingresso in ambito interno, viene non di rado in quest’ultimo ad accendersi un motore di produzione giuridica che porta alla formazione di vere e proprie catene di atti, gli uni agli altri funzionalmente connessi e assai di frequente disposti a plurimi livelli istituzionali (statali, regionali, locali, senza peraltro escludere la normazione frutto di autonomia privata, posta in essere in esercizio di poteri espressivi di sussidiarietà “orizzontale”).
In congiunture siffatte, l’effetto giuridico appare essere la risultante di più atti: si può pertanto, volendo, seguitare tralaticiamente a ragionare di una pluralità di effetti, dal momento che più d’uno sono appunto gli atti in campo; forse, però, la rappresentazione più fedele di questo stato di cose è quella di una congiunta imputazione di un unico ed unitario effetto a più atti, con una distribuzione che varia in ragione del contributo da ciascuno di essi offerto alla sua produzione[28]. Si assiste, insomma, ad una catena seriale di atti, volti al fine di dar modo alla disciplina normativa di origine esterna di radicarsi nel migliore dei modi nell’ordine interno. È questa la ragione per cui, a mia opinione, anche negli studi di diritto costituzionale (e, segnatamente, in quelli aventi ad oggetto catene siffatte di fonti), giova fare il passo che già da molti anni s’è fatto in diritto amministrativo, sotto la spinta vigorosa di una illuminata dottrina: ragionando, dunque, di una normazione per risultati, piuttosto che per atti, e volgendosi perciò alla percezione di ciò che tutti assieme possono fare, con le loro norme, al servizio del diritto dell’Unione.
Le indicazioni di maggior significato, nel quadro della ricostruzione che si viene facendo, si hanno però dalla giurisprudenza sulla CEDU, con specifico riguardo alle forme del suo giuridico rilievo in ambito interno.
Ancora una volta, è la giurisprudenza a confessare (per vero, in assai dubbia coerenza con se stessa…) non essere sempre vero che la forma fa la forza, per riprendere la formula cui s’è fatto poc’anzi ricorso. La Corte ripetutamente ammette la eventualità che la CEDU, al pari di altre Carte e fonti pattizie, possa contenere enunciati espressivi di norme materialmente consuetudinarie della Comunità internazionale[29]. La qual cosa equivale a dire che uno stesso documento può ospitare norme “graduate” o, come che sia, reciprocamente distinte per natura e, di conseguenza, per forza: a conferma, appunto, che la forza stessa è delle norme, non delle fonti.
La giurisprudenza sulla CEDU ha, nondimeno, molte facce, ora orientate verso il corno formale-astratto ed ora verso quello assiologico-sostanziale, richiedendosi pertanto per la sua compiuta comprensione e fedele rappresentazione la congiunta osservazione da plurimi angoli visuali[30].
L’impianto è, ancora una volta, di formale fattura: la Convenzione è seccamente definita come fonte “subcostituzionale”[31], soggetta in tutto e per tutto all’osservanza della Costituzione (diversamente dal diritto dell’Unione, come si sa obbligato a prestare rispetto ai soli principi fondamentali dell’ordine costituzionale) e, allo stesso tempo, idonea a condizionare la validità delle leggi di Stato e Regioni (e, ovviamente, delle fonti ancora discendenti).
Ci si può chiedere come stiano le cose al piano dei rapporti tra CEDU e leggi costituzionali.
A seguire la “logica” formale-astratta, il carattere della Convenzione di fonte “interposta” dovrebbe qui venire meno: vuoi per il fatto che la giurisprudenza – come si è appena rammentato – è ferma nel dichiarare soggetta la CEDU all’osservanza di qualsiasi norma costituzionale e vuoi per il fatto che le leggi in parola sono abilitate a derogare al primo comma dell’art. 117, a suo tempo inscritto nella Carta con legge parimenti costituzionale, a meno che non si reputi che tale disposto costituisca la mera esplicitazione di un principio fondamentale dell’ordinamento. In disparte però la circostanza per cui, anche per l’ipotesi da ultimo formulata, il vincolo resterebbe pur sempre ristretto alle sole leggi ordinarie, alle quali soltanto il dettato costituzionale si riferisce[32], va tenuto presente che la stessa giurisprudenza ha qualificato l’innovazione in discorso quale “integrazione” dell’originario dettato costituzionale, di cui avrebbe colmato una grave lacuna di costruzione lasciata aperta al momento della confezione della Carta. Dal mio canto, mi sono già altrove dichiarato dell’avviso che trattasi piuttosto di una “deroga” (e, perciò, di una violazione) a carico dei principi di cui agli artt. 10 e 11 cost.[33], nei quali è in modo esclusivo definito l’assetto dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale. La qual cosa, peraltro, è stata dalla stessa giurisprudenza, unitamente alla dottrina corrente, riconosciuta prima della “novella” costituzionale del 2001, essendosi dato modo alle leggi comuni di statuire in deroga delle leggi di esecuzione dei trattati internazionali, eccezion fatta per quelli di essi, come i concordati con la Chiesa, che risultano provvisti di specifica “copertura” costituzionale. Ad ogni buon conto, “integrazione” o “deroga” che sia, ormai il disposto di cui al primo comma dell’art. 117 è stato ripetutamente fatto valere quale parametro nei giudizi di costituzionalità (dalla giurisprudenza sulla CEDU così come con riferimento ad altri documenti internazionali). Si è, insomma, avuto ope juris prudentiae l’avvento di un’autentica metanorma consuetudinaria di riconoscimento della validità del disposto suddetto.
A seguire, di contro, la “logica” assiologico-sostanziale, la deroga di norma convenzionale ad opera di norma costituzionale può considerarsi esclusa, ove in tesi si ammetta che essa ridondi in una (inammissibile) incisione della “copertura” di cui la prima norma gode da parte degli artt. 2 e 3 della Carta, nel loro fare “sistema” coi principi fondamentali restanti. Se, poi, anche la norma interna dovesse invocare a propria giustificazione la “copertura” della coppia di libertà ed eguaglianza, si tratterebbe di stabilire, all’esito di un’operazione di bilanciamento[34], quale delle due norme in campo, la esterna e la interna, si dimostri in grado di servire meglio la Costituzione come “sistema”, secondo quanto si vedrà meglio a momenti.
Ancora una testimonianza, come si vede, del fatto che, in nome dei valori costituzionali, lo stesso canone della gerarchia secondo forma può trovarsi a recedere davanti ad una gerarchia secondo valore, che imperiosamente reclami di esser fatta valere.
L’ipotesi che la norma interna possa risultare vincente all’esito di un’operazione di bilanciamento assiologico è stata espressamente presa in considerazione dalla giurisprudenza, con specifico riguardo al caso di contrasto tra legge comune e Convenzione. La giurisprudenza ammette, infatti, in modo esplicito l’eventualità che leggi idonee a dare ai diritti una tutela ancora più “intensa” di quella che è ad essi offerta dalla Convenzione possano essere ugualmente applicate, ancorché incompatibili rispetto alla Convenzione stessa[35]. Ancora una volta – dice la Corte[36] – le norme costituzionali sulla normazione possono soggiacere a “bilanciamento” con le norme sostantive, giustificandosi pertanto la “deroga” (o, meglio, la violazione) del primo comma dell’art. 117 da parte delle leggi più avanzate della Convenzione al piano della salvaguardia dei diritti.
In realtà, in congiunture siffatte, non di vera “deroga” o violazione è appropriato discorrere, dal momento che è la stessa Convenzione a dichiarare di voler valere unicamente in modo “sussidiario”, con riguardo cioè ai soli casi in cui la tutela offerta ai diritti in ambito interno non risulti adeguata rispetto allo standard fissato nella Convenzione stessa[37].

3.5. (Segue) Raffronti tra norme, commutazione del parametro in oggetto, e viceversa, tecniche di ripianamento delle antinomie (in particolare, applicazioni e disapplicazioni dirette della Convenzione da parte dei giudici comuni, alla luce del criterio della tutela più “intensa” offerta ai diritti fondamentali)

Ora, è di tutta evidenza che la ricerca della tutela più intensa, quale che sia il criterio in applicazione del quale può essere determinata, obbliga al raffronto tra le norme, un raffronto – ed il punto è di cruciale rilievo – che non lascia indenni le stesse norme costituzionali, suscettibili di disporsi, all’esito di un siffatto raffronto, ad un “grado” inferiore rispetto a quello in cui si situa la disciplina convenzionale[38].
Solo così può invero spiegarsi la circostanza per cui, in sede di giudizio di costituzionalità, l’oggetto può commutarsi in parametro, e viceversa: una legge impugnata davanti alla Corte per supposta incompatibilità rispetto alla Convenzione (e, perciò, per violazione indiretta dell’art. 117, I c.) riuscendo – come si è appena veduto – a farla franca, ove dimostri di apprestare una più “intensa” tutela ai diritti, così come una norma convenzionale invocata a parametro potendo convertirsi in oggetto laddove appaia essere non rispettosa della Costituzione ovvero inidonea a dare quella tutela più “intensa”, di cui un momento fa si diceva.
In realtà, per un verso, la prima evenienza (della caducazione della legge di esecuzione della Convenzione “nella parte in cui…”) a me sembra estremamente remota, non riuscendo ad immaginarmi la dichiarazione d’incostituzionalità di norma convenzionale[39] (forse, qui si ha qualcosa di analogo a ciò che ricorre al piano dei rapporti col diritto dell’Unione, l’osservanza dei “controlimiti” essendo, sì, predicata ma non praticata[40]); per un altro verso, poi, quando pure si accerti essere maggiormente “intensa” la tutela offerta da norma di diritto interno rispetto a norma convenzionale, ho seri dubbi che possa, nuovamente, aversi la dichiarazione d’incostituzionalità di quest’ultima, ove si ammetta in tesi che non sussista alcuna violazione dell’art. 117, la stessa Convenzione – come si è poc’anzi osservato – richiedendo di non potere, in congiunture siffatte, essere portata ad effetto.
Resta, tuttavia, aperta la questione se l’accertamento del “grado” di tutela dato da questa o quella norma ai diritti sia affare esclusivo del giudice delle leggi ovvero possa, come a me parrebbe e sia pure unicamente per taluni casi, considerarsi rimesso ai giudici comuni. Una tesi, quest’ultima, che sembra avvalorata dalla circostanza per cui, non ricorrendo qui alcuna violazione della Convenzione, viene in radice meno la giustificazione della chiamata in campo della Corte costituzionale[41].
Come si è venuti dicendo, Costituzione e Convenzione (e altre Carte ancora, a partire da quella di Nizza-Strasburgo) sono, insomma, chiamate a giocarsi la partita alla pari, in una sana competizione al rialzo, potendo farsi valere unicamente laddove ciascuna di esse sia in grado di dimostrare di essere in grado di offrire ai diritti la maggior tutela in ragione del caso[42]. Una competizione che si svolge al piano culturale, ancora prima che a quello positivo, e che si fa apprezzare nelle sue incessanti movenze e negli esiti concretamente conseguibili specificamente in sede d’interpretazione (e per le esigenze dell’applicazione). Nel corso di queste vicende, peraltro, dandosi fondo alle formidabili risorse argomentative di cui non di rado gli operatori dispongono (e il rilievo vale per i giudici comuni non meno di quelli costituzionali)[43], si ha modo di riconciliare i materiali normativi in campo, fatti oggetto di raffinate ed incisive operazioni di mutua alimentazione semantica. È ancora una volta la stessa Corte costituzionale, in una delle sue più ispirate e ormai risalenti pronunzie (pur se non linearmente svolta dalle decisioni successive), a mettere in chiaro il principio secondo cui Costituzione e Carte internazionali dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”[44]: laddove, come si vede, nel circolo interpretativo viene a smarrirsi la diversità delle forme o la supposta ordinazione gerarchica degli atti che ne sono provvisti, gli atti stessi unicamente rilevando ed affermandosi per la sostanza che è in essi racchiusa e l’attitudine di cui sono dotati a servire i diritti.
La ricerca del primato si fa dunque apprezzare specificamente al piano culturale; ed è interessante notare che, laddove il primato stesso si risolva a beneficio della Convenzione, dal punto di vista del diritto interno esso avrebbe pur sempre fondamento nella… Costituzione, nei principi-valori di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, come si è già fatto osservare, di dignità). La Costituzione, insomma, recede per far posto ad altra Carta, ancora più adeguata, in relazione alle esigenze di un caso, a servire la coppia assiologica di cui agli artt. 2 e 3, nel loro fare “sistema” coi principi-valori restanti. Il più delle volte, però, come si è appena veduto, non è luogo per dar spazio alla “logica” dell’aut-aut: facendo leva sulla formidabile apertura strutturale degli enunciati costituzionali, si rende infatti possibile prevenire il conflitto, riconciliando in sede interpretativa le norme dell’una e dell’altra Carta, fatte oggetto di un’opera accurata, pur se alle volte non poco sofferta, di progressivo affinamento semantico che rinviene nelle punte più avanzate della giurisprudenza, sia nazionale che europea, l’indirizzo per il suo congruo svolgimento.
Ad agevolare questo compito è, poi, per un verso, l’uso non infrequente della tecnica del distinguishing a mezzo della quale le Corti hanno modo non soltanto di liberarsi di propri precedenti scomodi o, diciamo pure, imbarazzanti ma anche di “smarcarsi” dal pressing esercitato da altre Corti[45], e, per un altro, il cauto indirizzo manifestato dalla giurisprudenza costituzionale nella parte in cui considera obbligatoria la osservanza della giurisprudenza di Strasburgo non già in ogni sua parte bensì unicamente nella sua “sostanza”[46]: formula che, nuovamente, ambienta a un piano non formale-astratto la dinamiche sia della normazione che dell’applicazione; formula ambigua, se si vuole: sommamente ambigua, che rimette, di tutta evidenza, margini non poco consistenti di apprezzamento discrezionale in capo ai giudici, sia costituzionali che comuni, e che tuttavia dà modo – come si diceva – di far convergere Carte e Corti, nelle loro più espressive affermazioni al servizio dei diritti.

 

3.6. (Segue) L’insegnamento che viene dall’ultima giurisprudenza sulla CEDU: la Costituzione come “intercostituzione”, i materiali offerti da altre Carte immettendosi nella struttura della Carta costituzionale e concorrendo senza sosta alla sua rigenerazione semantica, e il carattere “condizionato” di ogni fonte (Costituzione inclusa!), idonea a valere ed essere portata ad effetto unicamente in quanto ne sia provata l’attitudine a dare, in relazione al caso, la tutela più “intensa” ai diritti, vale a dire ad assicurare, a un tempo, certezza del diritto costituzionale e certezza dei diritti costituzionali

Si tocca qui con mano quanto si diceva all’inizio di questa riflessione, laddove si avvertiva che la questione ora discussa coinvolge, a conti fatti, la Costituzione, il modo d’intenderla e di farla valere nell’esperienza. Come si è appena veduto (e in linea con un’indicazione già altrove data e qui ripresa con ulteriori argomenti[47]), ogni Costituzione[48] appare essere una sorta di “intercostituzione”, una volta che si assuma che della sua stessa struttura entrino a far parte materiali offerti da altre Carte, idonei a concorrere alla sua incessante rigenerazione semantica. È vero, naturalmente, pure l’inverso; e le Carte stesse si dispongono parimenti a farsi in varia misura “impressionare” dalle tradizioni costituzionali degli Stati che le sottoscrivono e le recepiscono, specie laddove fortemente convergenti, se non pure stricto sensu “comuni” (per riprender una nota loro definizione maturata in seno all’Unione), nelle loro statuizioni al servizio dei diritti.
Se ci si pensa, nessuna fonte (Costituzione inclusa!) può dunque dire di poter incondizionatamente valere ovvero di valere di per sè; piuttosto, ciascuna fonte vale sub condicione, sempre che appunto si dimostri idonea a fissare più in alto di altre fonti (rectius, norme) il punto di sintesi assiologica in ragione del caso[49]. Di contro, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale inaugurata nel 2007, il moto non è bidirezionale, così come parziale è la prospettiva da cui esso è riguardato, il principio dell’apertura al diritto di origine esterna (e, segnatamente, a quello convenzionale) essendo subordinato alla condizione che il diritto stesso si dimostri in tutto e per tutto compatibile col dettato costituzionale[50].
L’obiezione più grave (ed intensamente avvertita) mossa da quanti faticano a riconoscersi nell’ordine concettuale ora succintamente esposto sta – come si diceva poc’anzi – nella incidenza che se ne avrebbe a carico della certezza del diritto, un valore che sarebbe messo definitivamente in crisi per il solo fatto che la ricostruzione del sistema risulti ambientata ad un piano assiologico-sostanziale. Il carattere recessivo della forma a finalità sistematica obbligherebbe, insomma, la certezza a restare confinata ai margini del sistema stesso o, addirittura, di esserne del tutto estromessa.
L’obiezione è seria ma, a conti fatti, non risolutiva ed appare, anzi, a mia opinione, quale il frutto di una visione distorta sia della certezza che del sistema; e a darne conferma è nuovamente la stessa giurisprudenza.
Ammettendo (in sent. n. 113 del 2011) che lo stesso giudicato penale, per tabulas espressivo di certezza, possa esser rivisto laddove irrispettoso della Convenzione (e, perciò, in buona sostanza, in presenza di pronunzie della Corte EDU con esso incompatibili)[51], la Consulta parrebbe dare ad intendere di voler anteporre la certezza dei diritti alla certezza del diritto, la sostanza alle forme. Eppure anche una rappresentazione in termini siffatti, se ci si pensa, non coglie l’essenza delle cose e, piuttosto, finisce col dare un’immagine deformata delle vicende della normazione, al piano delle relazioni tra diritto interno e diritto convenzionale. Piuttosto, la Corte ancora una volta opera una sintesi ricostruttiva del sistema su basi assiologiche e restituisce alla Costituzione la sua vera natura, la sua identità, pregiudicata dal giudicato anticonvenzionale. Perché – come si sa – la Costituzione è, in nuce, riconoscimento, un riconoscimento bisognoso di convertirsi costantemente in effettiva tutela (la massima alle condizioni oggettive di contesto) dei diritti fondamentali, secondo l’aureo insegnamento consegnatoci dal rivoluzionari francesi (si rammenti il disposto di cui all’art. 16 della Dichiarazione del 1789). Non v’è, non può esservi, dunque, alcuna certezza del diritto che non si risolva in certezza dei diritti: quella senza questa è niente, solo con questa è tutto.


4.Il sistema è, a conti fatti,
ricerca del… sistema, dell’armonica congiunzione di norme, “fatti” e valori, secondo una teoria della Costituzione assiologicamente orientata: una teoria che, proprio nella presente congiuntura segnata da una crisi economica lacerante, ha da esser tenuta ferma e portata alle massime realizzazioni consentite dal contesto, al servizio della Costituzione stessa, dei suoi valori, dell’uomo

Ci si avvede così che il sistema – come mi sono sforzato di mostrare altrove – è ricerca del… sistema, una ricerca che non può farsi in modo adeguato in vitro (in prospettiva formale-astratta, appunto) e che, piuttosto, può in fin dei conti maturare con fecondità di esiti davanti ai giudici e per le esigenze dell’applicazione. Si tratta, infatti, ogni volta di rinvenire il modo ottimale di far convergere e – fin dove possibile – sostanzialmente ricongiungere norme, “fatti”, valori. Le fonti sono solo strumenti e tali pur sempre restano: strumenti al servizio dei bisogni elementari dell’uomo, in rispondenza ai valori. La giurisprudenza – come si è veduto – ripetutamente ci dice non esser decisiva la conformità delle fonti alle norme sulla normazione che presiedono alla loro adozione ed abilita anzi le prime a discostarsi dalle seconde ogni qual volta ciò si giustifichi allo scopo di apprestare un’appagante tutela ai diritti.
Il vizio di fondo delle dottrine correnti in tema di fonti – fa capire la Corte, nelle più lungimiranti espressioni della sua giurisprudenza – sta nel corto orizzonte culturale che esse si danno al momento in cui si accingono alla ricostruzione del sistema, considerando salvaguardato quest’ultimo col mero fatto del riscontro della osservanza delle norme sulla normazione da parte degli atti in campo. L’essenza del sistema però – si è qui pure tentato di mostrare – si coglie andando oltre la crosta avvolgente le fonti e correggendo perciò l’immagine deformante che se ne ha per effetto della sua osservazione in prospettiva formale-astratta.
Le norme sulla normazione valgono – come s’è veduto – alla sola condizione che per il loro tramite si dia appagamento alle norme costituzionali sostantive (segnatamente, a quelle espressive di diritti) e, appagando queste ultime, si dia modo ai valori di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, di dignità) di realizzarsi al meglio di sé, alle condizioni oggettivamente date.
Il sistema delle fonti si coglie nella sua essenza, come si è venuti dicendo, solo nella sua naturale, obbligata conversione in sistema di norme, secondo valore. Viene così a trovare conferma la tesi, patrocinata da una sensibile dottrina[52], secondo cui non è in alcun caso o modo possibile tenere innaturalmente separata la Costituzione dei diritti dalla Costituzione dei poteri ed entrambe dai principi espressivi dei valori fondanti dell’ordine repubblicano, in cui hanno la loro giustificazione e il fine.
Quella qui nuovamente patrocinata è, dunque, una teoria assiologicamente orientata della Costituzione, una teoria – si è detto in altri luoghi – esigente, a fronte della quale stanno tuttavia pratiche assai deludenti (e, in qualche caso, invero sconfortanti) della normazione subcostituzionale, nelle sue più salienti e diffuse manifestazioni. Perché esigenti (ed anzi, com’è stato detto da un’autorevole dottrina, “tiranni”[53]) sono i valori, obbligati tuttavia, specie nella presente congiuntura segnata da una crisi economica lacerante, a fare i conti con la esiguità delle risorse disponibili, alla cui considerazione non restano (non possono restare) insensibili gli stessi organi di garanzia (a partire, appunto, dalla Corte costituzionale). Il rischio, micidiale, è che all’impoverimento di fasce sempre più larghe della popolazione si accompagni altresì – mi è venuto di dire in altre occasioni[54] – l’impoverimento della Costituzione, lo smarrimento della sua vis prescrittiva a fronte di misure normative varate dagli organi della direzione politica e segnate dallo stato d’emergenza, con grave pregiudizio dei diritti fondamentali (e, in ultima istanza, della dignità). Il rischio è, insomma, che il vero fondamento dei diritti non stia più in Costituzione (o in altre Carte, come la CEDU o la Carta di Nizza-Strasburgo) bensì unicamente nel contesto: un contesto fortemente alterato e profondamente discosto dai valori che stanno a base sia dell’ordinamento che delle relazioni interordinamentali.
Non saprei ora dire se questo rischio possa essere davvero e fino in fondo parato; sono tuttavia certo del fatto che ciascuno di noi, uomini di cultura ed operatori, deve fare tutta quanta la propria parte per fugarlo: al servizio della Costituzione, dei suoi valori, dell’uomo.

 

[1] La tesi, alla quale qui pure mi rifaccio con ulteriori svolgimenti, secondo cui il sistema è sistema di norme, non già di fonti, trovasi argomentata da varî punti di vista e per esigenze ricostruttive parimenti diverse in molti miei scritti: per tutti, È possibile parlare ancora di un sistema delle fonti?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, nonché nei miei “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XII, Studi dell’anno 2008, Torino 2009, 433 ss.

[2] … per la verità, più comune ed europea che costituzionale, secondo quanto è, ancora di recente, testimoniato da Corte cost. n. 230 del 2012, nella quale si tiene a precisare esser diverso il regime, rispettivamente, proprio del “diritto legislativo” e del “diritto giurisprudenziale”: in particolare, si nega risolutamente che il mutamento giurisprudenziale, ancorché registratosi presso la Cassazione a Sezioni Unite, possa considerarsi ius novum, qual è appunto quello di produzione legislativa. Diverso l’orientamento al riguardo manifestato non solo dalla Corte di Strasburgo (peraltro, ben noto al giudice costituzionale, che vi fa espresso richiamo) ma anche dalle punte più avanzate della giurisprudenza ordinaria: v., ad es., Trib. Torino, Sez. giudici per le indagini preliminari, ord. 30 gennaio 2012, dove si riprende con originali svolgimenti l’indicazione della Corte EDU secondo cui l’interpretazione giudiziaria fa tutt’uno col dato positivo su cui si svolge, venendo pertanto a comporre un unicum inscindibile nelle sue parti; tanto più, appunto, laddove si tratti di interpretazione fatta propria dal giudice di legittimità nella sua più ampia composizione. A commento della pronunzia del giudice delle leggi sopra richiamata, v. V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it, 19 ottobre 2012, preceduto da una Nota introduttiva di F. Viganò, nonché, volendo, i miei Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012), in www.diritticomparati.it, 15 ottobre 2012, e www.giurcost.org, 16 ottobre 2012, e, pure ivi, Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum; rilievi a quest’ultimo scritto sono mossi da R. Conti, Pensieri sparsi dopo il post scriptum di Antonio Ruggeri su Corte cost. n. 230/2012, in www.diritticomparati.it, 29 ottobre 2012. Sulla questione che ha costituito oggetto della pronunzia stessa, da una peculiare prospettiva, D. Savy, La tutela dei diritti fondamentali ed il rispetto dei principi generali del diritto dell’Unione nella disciplina del mandato di arresto europeo, in www.penalecontemporaneo.it, 22 ottobre 2012.

[3] Uno degli argomenti maggiormente ricorrenti a sostegno della perdurante attualità della distinzione è nel vincolo del precedente giudiziario che varrebbe per gli ordinamenti di common law e sarebbe invece insussistente nei Paesi di civil law; si tratta però di un argomento non irresistibile, non soltanto per le ragioni ancora di recente enunciate da studiosi di varia estrazione (tra gli altri, A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, Bologna-Roma 2011, spec. 710 ss., e V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello: trapianto, palingenesi, cross-fertilization, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2012, 839 ss.) ma anche, e soprattutto, a motivo del fatto che è nel DNA della funzione giurisdizionale il suo doversi comporre in “indirizzi” connotati da linearità di svolgimento e tendenziale conformità ai precedenti, rese palesi in ispecie dalla parte motiva dei verdetti dei giudici. La qual cosa, ovviamente, nulla toglie né al carattere “creativo” (o, diciamo pure, “normativo”) della giurisprudenza, sul quale tornerò a momenti, né alla facoltà, di cui la giurisprudenza stessa è dotata, di far luogo al rinnovo degli orientamenti dapprima espressi. E, tuttavia, come ancora da ultimo si rammenta nel mio scritto per ultimo cit., mentre ai decisori politici (e, segnatamente, al legislatore) è dato in ogni tempo di innovare profondamente a decisioni dapprima adottate, proprio in ragione del loro carattere politico, al giudice è precluso di poter risolvere due questioni identiche in modi radicalmente diversi, salvo il caso di mutamento di contesto (o, come a me piace dire, di “situazione normativa”), altrimenti rinnegherebbe se stesso, vale a dire il carattere propriamente “giurisdizionale” dell’attività svolta. Come si vede, creatività e continuità sono tratti costanti della giurisprudenza, del suo modo di essere e di affermarsi, in ordinamenti sia di civil che di common law. Con ciò, resta fermo che una piena omologazione dei due sistemi sarebbe comunque forzosa, non consentita né da una tradizione culturale risalente né dalla conformazione complessiva della struttura degli ordinamenti qui sottoposti ad un rapido ed approssimativo confronto.

[4] Sintetizza questo stato di cose la formula, come si sa largamente diffusa e però caricata di sì varie valenze da rendersi a conti fatti inservibile a finalità teorico-ricostruttiva, dello “Stato giurisdizionale”: dove v’è pure – chi può negarlo? – un fondo di verità, fatto tuttavia oggetto di esasperate, deformanti rappresentazioni.

Il discorso sarebbe al riguardo assai lungo e deve perciò rimandarsi ad altro luogo di riflessione scientifica ad esso specificamente dedicato. Per ciò che se ne può ora dire, ciascuna sede istituzionale ha da fare, fino in fondo, la propria parte, concorrendo all’inveramento dei fini-valori costituzionali e, a un tempo, al mantenimento dell’equilibrio del sistema [sta in ciò la perdurante vitalità del principio della separazione dei poteri, a riguardo del quale, per tutti, la corposa indagine di G. Silvestri, La separazione dei poteri, Milano, I (1979) e II (1984)]. Le carenze, in modo particolarmente vistoso evidenziatesi, nello svolgimento dell’attività di direzione politica non possono poi essere colmate a mezzo di indebite supplenze da parte degli organi di garanzia, quanto meno in situazioni di quiete istituzionale, vale a dire per un fisiologico svolgimento delle dinamiche ordinamentali; in stati di crisi, è invece giocoforza che gli stessi organi di garanzia si addossino responsabilità che non dovrebbero loro competere, in linea peraltro con una nota teorizzazione di siffatte esperienze (mi riferisco ora, come si sarà capito, in particolare al ruolo del Capo dello Stato quale gestore dell’emergenza). Anche in situazioni di pur relativa “normalità” istituzionale, gli organi di garanzia sono nondimeno sollecitati ad usi particolarmente incisivi e coraggiosi degli strumenti di cui dispongono; e basti, al riguardo, solo rammentare l’applicazione diretta della Costituzione (e, però, anche delle altre Carte…) da parte dei giudici, nei limiti in cui può aversi con riguardo ai casi di mancanza di leggi comuni a salvaguardia dei diritti (su ciò, di recente e per tutti, F. Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Napoli 2011; A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme. Un percorso costituzionale, Napoli 2011, e L. Azzena, La rilevanza nel sindacato di costituzionalità dalle origini alla dimensione europea, Napoli 2012, 114 ss.).

[5] Il riferimento è, ovviamente, a C. Mortati, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano 1964.

[6] V., infatti, il mio “Fluidità” dei rapporti tra le fonti e duttilità degli schemi d’inquadramento sistematico (a proposito della delegificazione), in AA.VV., I rapporti tra Parlamento e Governo attraverso le fonti del diritto. La prospettiva della giurisprudenza costituzionale, a cura di V. Cocozza e S. Staiano, Torino 2001, 777 ss., spec. 792 ss.

[7] Evidente il riferimento al magistero di H. Kelsen e della Scuola da lui fondata, che anche da noi ha fatto – come si sa – non pochi proseliti.

[8] Non è di qui tornare a ragionare della distinzione tra tali specie di leggi, da taluno negata e da altri invece ammessa [indicazioni in C. Esposito, Costituzione, leggi di revisione della costituzione e “altre” leggi costituzionali, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, III, Milano 1962, 199 ss.; R. Tarchi, Leggi costituzionali e di revisione costituzionale (1948-1993), in Comm. Cost., fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma 1995, 271 ss.; M. Cecchetti, Leggi costituzionali e di revisione costituzionale (1996-2006), in AA.VV., Osservatorio sulle fonti 2006, Le fonti statali: gli sviluppi di un decennio, a cura di P. Caretti, Torino 2007, 1 ss., spec. 5 ss.; F. Bertolini, Leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali, in Il Diritto, Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, V (2007), 1 ss., spec. 7 s.; A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, cit., 392 ss.]; non è, nondimeno, privo d’interesse rammentare che l’opinione favorevole alla reciproca differenziazione rinviene il terreno sul quale essa può essere colta al piano delle norme (e, specificamente, della loro funzione), non già degli atti, identici per forma.

[9] Parimenti non è di qui riprendere la vessata questione se l’unico, vero vertice del sistema sia dato dalla Costituzione, nell’assunto che essa pure sia una… fonte. Resta, nondimeno, il fatto che le leggi provviste di forma costituzionale sono dalla stessa Costituzione abilitate a derogare a quest’ultima, sia pure entro taluni limiti cui si farà subito appresso cenno.

[10] Faccio qui solo i nomi di C. Esposito, V. Crisafulli, F. Modugno e G.U. Rescigno: nell’ordine, v., del primo, La validità delle leggi (1934), rist. inalt., Milano 1964; del secondo, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 775 ss. e Lezioni di diritto costituzionale6, II,1, L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti normative), Padova 1993; il terzo ha, poi, ripetutamente affinato e precisato la sua posizione teorica il cui impianto, nondimeno, resta quello fissato ne L’invalidità della legge, I e II, Milano 1970; del quarto, v., infine, Gerarchia e competenza, tra atti normativi, tra norme, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Napoli 2011, 2821 ss. Tra le più accurate descrizioni della operatività del criterio della competenza, segnalo qui solo quelle di L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996; R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano 1998; F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, Padova 2009; R. Bin-G. Pitruzzella, Le fonti del diritto2, Torino 2012 e, soprattutto, A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, cit. Infine, volendo, anche il mio Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Milano 1977, con gli ulteriori svolgimenti e le precisazioni che sono in Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Torino 2009.

[11] Invece la sua limitazione in nome del carattere “speciale” dell’atto anteriore fa riferimento a certi attributi strutturali ovvero sostanziali dell’atto resistente, indipendentemente dalla forma di cui esso si riveste. Quest’affermazione non è messa in discussione laddove gli atti in campo siano del medesimo grado e, perciò, astrattamente provvisti della medesima forza. L’abrogazione, tuttavia, si considera possibile anche in relazione al caso che l’atto posteriore sia gerarchicamente sovraordinato a quello inferiore, sempre che, a motivo della sua struttura nomologica, si dimostri idoneo a prenderne subito il posto e ad essere portato ad applicazione invece di quello. Nel qual caso, il canone della specialità – a quanto pare – non può più trovare il modo di farsi valere (il punto, ad ogni buon conto, richiede un supplemento di riflessione, con specifico riguardo alla conformità al canone della ragionevolezza della rimozione della lex specialis).

[12] V., part., Corte cost. n. 1146 del 1988.

[13] Una sensibile dottrina (sopra tutti, M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, in Quad. cost., 1995, 7 ss., ma anche M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elettorali in Italia, Roma 1991, 8 s. e passim, e L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. dir. cost., 1996, 124 ss., spec. 136 ss., e U. Allegretti, Il problema dei limiti sostanziali all’innovazione costituzionale, in AA.VV., Cambiare costituzione o modificare la Costituzione?, a cura di E. Ripepe e R. Romboli, Torino 1995, 29) si è dichiarata dell’idea che, con specifico riguardo alle liberaldemocrazie, non potrebbe immaginarsi l’avvento di un nuovo potere costituente che non sia quodammodo “limitato”, siccome obbligato a far comunque salva la garanzia dei diritti fondamentali. Una tesi, questa, che nondimeno attende le sue opportune (ed auspicabili…) verifiche dalla storia, la quale piuttosto, per com’è venuta fin qui maturando, esibisce non poche testimonianze di fatti di discontinuità costituzionale; proprio, anzi, quando la guardia si abbassa, maggiore si fa il rischio che essi possano aversi, ancorchè abilmente mascherati dietro le candide vesti di una continuità di facciata. Giova pertanto rifuggire dall’innalzare a teoria giuridica (in ispecie a teoria generale) un desiderio o una speranza che credo ciascuno di noi non possa non coltivare ma che potrebbero ugualmente restare inappagati.

Resta poi da chiedersi (ma in altra sede) in applicazione di quali criteri si renda possibile riconoscere senza soverchie incertezze quando si sia in presenza di un fatto di discontinuità e quando invece di uno di continuità costituzionale (con specifico riguardo ai controlli giurisdizionali sulle revisioni costituzionali e con attenzione anche alle esperienze di altri ordinamenti, v. S. Ragone, I controlli giurisdizionali sulle revisioni costituzionali. Profili teorici e comparativi, Bologna 2011). Domanda, questa, da far tremare le vene e i polsi, sol che si consideri che ogni criterio di formale fattura mostra limiti evidenti di rendimento, di modo che deve, ancora una volta, farsi ricorso a criteri di ordine sostanziale. Per un verso, infatti, la discontinuità potrebbe non aversi a mezzo di legge di revisione costituzionale che si porti oltre la soglia per essa fissata; e ciò, anche in ragione del fatto che, salvo casi clamorosi di enunciati che fanno a pugni coi principi, non di rado le stesse leggi dotate di forma costituzionale esibiscono una struttura nomologica fatta a maglie larghe o larghissime, sicché solo al momento della loro successiva specificazione-attuazione con leggi o altri atti ancora si può tentare di stabilire se si sia avuto, o no, il superamento della soglia suddetta. Per un altro verso, la discontinuità potrebbe porsi quale l’effetto di un disegno eversivo realizzato, oltre che per via legislativa (costituzionale od ordinaria che sia), tramite pratiche politiche e comportamenti in genere non formalizzati. Insomma, solo lo storico o il politologo, ancora prima o invece del giurista, può, riguardando ex post a certe vicende, accertare se vi sia stata, o no, discontinuità e quando essa abbia preso corpo.

[14] Anche il riscontro di siffatto rapporto di strumentalità necessaria intercorrente tra principi fondamentali ed altre norme, costituzionali e non, che vi diano la prima, necessaria attuazione rimanda a criteri di ordine sostanziale (o, meglio, assiologico-sostanziale) ad oggi non puntualmente definiti e piuttosto apprezzabili con l’intuito ancor prima che col ragionamento. Ciò che solo importa è che, una volta ammessa in tesi l’esistenza di siffatto rapporto, se ne ha che anche norme di legge comune volte a dare “a prima battuta” svolgimento ai principi non potrebbero essere puramente e semplicemente rimosse neppure con legge costituzionale, il loro venir meno ridondando immediatamente in irreparabile incisione dei principi. Ancora una conferma, come si vede, del sempre possibile ribaltamento della gerarchia secondo forma a fronte di una gerarchia secondo valore o – il che è praticamente lo stesso – del fatto che il sistema è di norme, più (o anzi) che di fonti.

[15] Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi dal mio Interpretazione costituzionale e ragionevolezza, in Pol. dir., 4/2006, 531 ss.

[16] Il riferimento è ad una nota tesi di P. Biscaretti di Ruffìa, espressa per la prima volta nel suo Sui limiti della revisione costituzionale, in Ann. Sem. Giur. Univ. Catania, III, 1948-49, e in seguito più volte ribadita. È ancora di recente tornato a discuterla, in prospettiva giusfilosofica, S. Colloca, Revisione costituzionale. Due contributi analitici, in Studi in onore di F. Modugno, cit., II, 994 ss.

[17] Notazioni anticipatrici sul punto già nel mio Metodi e dottrine dei costituzionalisti ed orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di fonti e della loro composizione in sistema, in Dir. soc., 1/2000, 141 ss., e quindi in altri scritti.

[18] Assai controverso non tanto se il nucleo in parola esista quanto quale possa essere il modo appropriato per individuarlo e riconoscerne i confini (su ciò, tra gli altri, A. Spadaro, in molti scritti e, spec., nel suo Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Milano 1994, nonché AA.VV., Giurisprudenza costituzionale e principî fondamentali. Alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni, a cura di S. Staiano, Torino 2006 e Q. Camerlengo, Contributo ad una teoria del diritto costituzionale cosmopolitico, Milano 2007).

[19] In argomento si è assistito ad una messe di scritti ormai imponente e di vario segno: riferimenti, per tutti, negli studi di C. Panzera, I livelli essenziali delle prestazioni tra giurisprudenza costituzionale e giurisprudenza amministrativa, in Fed. fisc., 2/2009, 133 ss.; I livelli essenziali delle prestazioni tra sussidiarietà e collaborazione, in Le Regioni, 4/2010, 941 ss., e I livelli essenziali delle prestazioni secondo i giudici comuni, in Giur. cost., 4/2011, 3371 ss., nonché, più di recente, in L. Trucco, Livelli essenziali delle prestazioni e sostenibilità finanziaria dei diritti sociali, relaz. al convegno del Gruppo di Pisa svoltosi a Trapani l’8 e 9 giugno 2012 su I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, in www.gruppodipisa.it.

[20] … e che induce ad una preoccupata riflessione circa l’idoneità della legge fondamentale della Repubblica a resistere ai colpi che, pressoché quotidianamente, le sono inferti (su ciò, il mio Crisi economica e crisi della Costituzione, in www.giurcost.org, 21 settembre 2012; adde l’Editoriale di G. Falcon, La crisi e l’ordinamento costituzionale, a Le Regioni, 1-2/2012, 9 ss., e, con specifico riguardo all’art. 41 ed alle sue possibili innovazioni, F. Angelini, Costituzione ed economia al tempo della crisi…, in www.rivistaaic.it. 4/2012).

[21] Su di che la densa riflessione teorica di G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009.

[22] Ad es., Corte cost. n. 45 del 2005; in dottrina, per tutti, A. Pertici, Il Giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, Torino 2010, spec. 153 ss.

[23] V. sent. n. 10 del 2010; in un non dissimile ordine d’idee sono altre pronunzie della Consulta, tra le quali la sent. n. 121 del 2010.

[24] Part., sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011.

[25] Sent. n. 214 del 1985.

[26] Il riferimento è, ovviamente, a G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[27] Altra dottrina, di contro, giudica la dignità passibile di bilanciamento (tra gli altri, M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare, a cura di G. Brunelli-A. Pugiotto-P. Veronesi, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, Napoli 2009, 1060 ss.).

[28] Di un “effetto dell’intero processo produttivo” si discorre nel mio Sistema integrato di fonti e sistema integrato di interpretazioni, nella prospettiva di un’Europa unita, in Dir. Un. Eur., 4/2010, 885.

[29] Ex plurimis, Corte cost. nn. 311 del 2009; 93 del 2010; 80, 113 e 236 del 2011.

[30] Dal 2007, data di nascita del nuovo corso inaugurato dalle sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 (“gemelle”, sì, ma “non… siamesi”: A. Rauti, La “cerchia dei custodi” delle “Carte” nelle sentenze costituzionali nn. 348 e 349 del 2007: considerazioni problematiche, in AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, a cura di C. Salazar e A. Spadaro, Milano 2009, 265), ad oggi l’indirizzo messo a punto dalla Corte in ordine al rilievo in ambito interno della CEDU ha avuto non pochi né poco significativi aggiustamenti, risultandone un quadro complessivo che appare per molti versi incompiuto, bisognoso di ulteriore affinamento. Di tutto ciò, nondimeno, non può ora dirsi, dovendo restare circoscritto il riferimento unicamente ai tratti maggiormente salienti ed espressivi dell’indirizzo stesso, specificamente rilevanti al fine della ricostruzione che si va qui facendo.

[31] Questa qualifica ha, ancora di recente, trovato conferma nella già cit. sent. n. 230 del 2012.

[32] È vero che il dettato stesso fa riferimento in modo generico alle leggi dello Stato (e delle Regioni), potendosi pertanto astrattamente prestare ad una lettura comprensiva di ogni specie di legge; è tuttavia evidente che il riparto delle materie di cui all’art. 117 riguarda le sole leggi comuni.

[33] Le uniche “deroghe” consentite ai principi fondamentali, giusta la tesi corrente, dietro richiamata, favorevole alla esistenza di limiti, apprezzabili al piano assiologico-sostanziale, alla revisione costituzionale, sono quelle stabilite dal Costituente e che danno vita alle c.d. “rotture della Costituzione”; le “deroghe” poste in essere con legge di revisione costituzionale si risolvono, dunque, immediatamente ed interamente in violazioni della Costituzione stessa. E così è per qualsivoglia altra manifestazione di potere costituito, il superamento dei principi – a stare alla tesi più accreditata al piano teorico-generale – potendo aver luogo unicamente con fatto espressivo di potere costituente (una notazione, questa, gravida di implicazioni con specifico riguardo alle norme consuetudinarie, in capo alle quali una dottrina ha riconosciuto l’attitudine alla “deroga” costituzionale). In realtà, le cose non stanno, a mia opinione, sempre e del tutto così, gli stessi principi fondamentali soggiacendo a modifica per via legale, unico limite all’innovazione costituzionale risultando – come si è dietro fatto notare – dai valori, in funzione servente dei quali i principi si pongono, valori che ancora meglio potrebbero essere appunto serviti da modifiche oculate dei principi stessi.

[34] … un bilanciamento – come si vede – a carattere interordinamentale, nelle forme e con gli esiti possibili che si è altrove tentato di descrivere meglio (ragguagli nel mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.rivistaaic.it, 1/2011).

[35] Attorno al canone della “intensità” della tutela è venuta formandosi una tela assai fitta di riflessioni dottrinali di vario segno ed orientamento [indicazioni in O. Pollicino, Margini di apprezzamento, art. 10, c. 1, Cost. e bilanciamento “bidirezionale”: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it; C. Salazar, Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo, giudici: “affinità elettive” o “relazioni pericolose”, in AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, cit., 49 ss.; AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010; AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti-V. Piccone, Roma 2010; AA.VV., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico e O. Pollicino, Groningen 2010; AA.VV., Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti. Scritti degli allievi di Roberto Romboli, a cura di G. Campanelli-F. Dal Canto-E. Malfatti-S. Panizza-P. Passaglia-A. Pertici, Torino 2010; R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011; G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011; AA.VV., Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo. Nei sessant’anni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950-2010), a cura di L. Mezzetti e A. Morrone, Torino 2011; T. Giovannetti-P. Passaglia, La Corte ed i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2008-2010), a cura di R. Romboli, Torino 2011, 322 ss.; A. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto-E. Rossi, Torino 2011, 313 ss.; L. Cappuccio, Differenti orientamenti giurisprudenziali tra Corte EDU e Corte costituzionale nella tutela dei diritti, in AA.VV., La “manutenzione” della giustizia costituzionale. Il giudizio sulle leggi in Italia, Spagna e Francia, a cura di C. Decaro-N. Lupo-G. Rivosecchi, Torino 2012, 65 ss.; G. Martinico-O. Pollicino, The Interaction between Europe’s Legal Systems. Judicial Dialogue and the Creation of Supranational Laws, Cheltenham (Gran Bretagna) – Northampton (Stati Uniti d’America) 2012; AA.VV., Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, a cura di L. Cassetti, Napoli 2012 (ed ivi, part., della stessa curatrice, La «ricerca dell’effettività»: dalla lotta per l’attuazione dei principi costituzionali all’obiettivo della «massima espansione delle tutele», 3 ss.); M. Mezzanotte, Legalità costituzionale e diritti fondamentali dopo il Trattato di Lisbona, in Rass. parl., 2/2012, 379 ss.; A. Schillaci, La cooperazione nelle relazioni tra Corte di giustizia dell’Unione europea e Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.rivistaaic.it, 4/2012; G. Gerbasi, Il contesto comunicativo euro-nazionale: alla ricerca di un ruolo (cooperativo) delle Corti costituzionali nella rete giudiziaria europea, in www.federalismi.it, 20/2012; V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello, cit., spec. 866 ss.; L. Cappuccio, Luces y sombras en la relación entre la Corte Constitucional italiana y el Tribunal Europeo de Derechos Humanos, in www.federalismi.it, 22/2012; D. Tega, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Milano 2012; AA.VV., I diritti dei lavoratori nelle Carte europee dei diritti fondamentali, a cura di S. Borelli-A. Guazzarotti-S. Lorenzon, Napoli 2012; A. Cardone, La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano 2012; A. Guazzarotti, I diritti sociali nella giurisprudenza CEDU, in corso di stampa in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2013; P. Caretti, I diritti e le garanzie, relaz. al Convegno dell’AIC su Costituzionalismo e globalizzazione, Salerno 23-24 novembre 2012, in www.rivistaaic.it. V., infine, dall’interno della stessa Corte, il punto di vista manifestato da F. Gallo, Rapporti fra Corte costituzionale e Corte EDU, relaz. all’incontro su Applicazione della Convenzione Europea dei Diritti Umani come diritto comunitario, Bruxelles 24-26 maggio 2012, in www.cortecostituzionale.it, spec. al § 4].

[36] Spec. sent. n. 317 del 2009.

[37] Stessa cosa, mutatis mutandis, dovrebbe dirsi con riguardo all’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione, laddove parimenti si enuncia il principio – autentica Grundnorm delle relazioni interordinamentali, al piano della salvaguardia dei diritti – secondo cui l’interpretazione della Carta stessa non può risolversi in una limitazione nel godimento dei diritti per come assicurato, oltre che dallo stesso diritto dell’Unione, da norme di diritto internazionale (e, segnatamente, dalla CEDU), nonché dalle Costituzioni degli Stati membri. Molto di recente, il disposto in parola è stato fatto oggetto di una questione d’interpretazione dietro rinvio pregiudiziale da parte del tribunale costituzionale spagnolo. Al riguardo, si segnala il contrario avviso manifestato nelle sue Conclusioni dall’avvocato generale Y. Bot, presentate il 2 ottobre 2012, in causa C-399/11, a cui opinione il livello di protezione assicurato ai diritti in ambito interno non potrebbe in alcun caso comportare una violazione del diritto dell’Unione, non ostando pertanto all’applicazione di quest’ultimo pur laddove dovesse tradursi in una riduzione delle garanzie costituzionali dei diritti. Una opinione, questa, a parer mio, sorretta da argomenti alquanto gracili ed approssimativi [ragguagli nel mio Alla ricerca del retto significato dell’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione (noterelle a margine delle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot su una questione d’interpretazione sollevata dal tribunale costituzionale spagnolo), in www.diritticomparati.it, 5 ottobre 2012; pure ivi, 9 ottobre 2012, un commento di G. Repetto].

[38] Ancora una volta, al pari di ciò che si è dietro veduto ragionando dei limiti alla revisione costituzionale, potrebbe considerarsi improprio discorrere di una “graduatoria” (qui, tra Convenzione e Costituzione); nei fatti, però, il risultato non cambia, una volta che la nostra legge fondamentale dovesse essere messa da canto per far posto alla fonte convenzionale. Si vedrà, tuttavia, a momenti che la soluzione maggiormente appagante è quella che riconcilia le fonti a mezzo di un uso sapiente e coraggioso delle tecniche interpretative.

[39] … che, poi, nei fatti porterebbe alla caducazione della disposizione, che quella norma esprime, in ogni suo possibile significato, dal momento che nella pratica giuridica ormai invalsa e considerata irreversibile (ancora un caso di metanorma consuetudinaria interpretativa del “sistema” di cui agli artt. 134 e 136 cost.) l’effetto di annullamento colpisce una norma data per quindi stranamente (e, a mia opinione, inammissibilmente) irradiarsi alla disposizione, facendo venir meno ogni altra norma astrattamente da essa desumibile. Una soluzione, questa, che, a tacer d’altro, fa del giudice delle leggi un organo d’interpretazione autentica, appiattisce l’effetto di annullamento rispetto all’effetto di abrogazione (segnatamente di abrogazione nominata) e, perciò, incide senza riparo sul principio della separazione dei poteri, che vuole nettamente distinto il ruolo del giudice (sia pure peculiare, qual è il giudice costituzionale) e quello del legislatore.

[40] Ancora di recente, una sensibile dottrina ha fatto notare che “la riserva di far valere i principi fondamentali o l’intera costituzione nazionale come barriera per non permettere l’ingresso di principi estranei si sta rivelando, con il passare del tempo e lo scarso o nullo ricorso ad essi, come una forma di ‘placebo’, per mettere tranquilli i residui sostenitori della sovranità statale” (S. Cassese, La giustizia costituzionale in Italia: lo stato presente, in Riv. trim. dir. pubbl., 3/2012, 613). Sulle ragioni che hanno portato a quest’esito, da ultimo, M. Bignami, I controlimiti nelle mani dei giudici comuni, in www.forumcostituzionale.it, 16 ottobre 2012, pur in un ordine concettuale non coincidente con quello da me in altri luoghi patrocinato. Sulle prospettive che, specie col trattato di Lisbona, potrebbero aprirsi per usi originali della dottrina dei “controlimiti”, v., ora, S. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primauté eurounitaria, in Quad. cost., 3/2012, 533 ss.

[41] Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi dal mio Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in www.rivistaaic.it, 3/2012, spec. al § 3; ivi pure la presa in considerazione di altri casi al ricorrere dei quali il giudice comune possa considerarsi legittimato a fare applicazione ovvero disapplicazione diretta della Convenzione.

[42] Su ciò ho molto insistito nelle mie più recenti riflessioni in tema di rapporti tra Carte e tra Corti (indicazioni, ancora nel mio scritto per ultimo cit.). V., inoltre, utilmente, A. Guazzarotti, Precedente CEDU e mutamenti culturali nella prassi giurisprudenziale italiana, in Giur. cost., 5/2011, 3779 ss., spec. 3799 ss.

[43] Particolarmente, opportunamente sottolineato il ruolo dei giudici comuni da una sensibile dottrina (sopra tutti, R. Conti, nello scritto appena richiamato e in molti altri; diversamente, ora, A. Ciancio, A margine dell’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali in ambito europeo, tra luci ed ombre, in www.federalismi.it, 21/2012), peraltro in linea con la generale tendenza alla valorizzazione degli elementi di “diffusione” nell’ambito del nostro sistema di giustizia costituzionale (su di che, da ultimo e per tutti, L. Azzena, La rilevanza nel sindacato di costituzionalità, cit., spec. il cap. V). Non si trascuri, tuttavia, l’influenza culturale esercitata dalla giurisprudenza costituzionale su quella comune, persino laddove, come con riguardo alle pratiche d’interpretazione conforme, il ruolo dei giudici sembri essere singolarmente attivo e dalla stessa Consulta incoraggiato ad estese ed incisive applicazioni [ma v., su ciò, le avvertenze che sono nel mio La giustizia costituzionale italiana tra finzione e realtà, ovverosia tra esibizione della “diffusione” e vocazione all’“accentramento”, in Riv. dir. cost., 2007, 69 ss. Cfr. al mio punto di vista quello al riguardo di recente manifestato, oltre che da L. Azzena, nello scritto appena richiamato, da G. Laneve, L’interpretazione conforme a Costituzione: problemi e prospettive di un sistema diffuso di applicazione costituzionale all’interno di un sindacato (che resta) accentrato, in www.federalismi.it, 17/2011; G. Pistorio, I “limiti” all’interpretazione conforme: cenni su un problema aperto, in www.rivistaaic.it, 2/2011, e, dello stesso, ora, Interpretazione e giudici. Il caso dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Napoli 2012; G. Gerbasi, La Corte costituzionale tra giudici comuni nazionali e Corti europee alla ricerca di una più efficace tutela dei diritti fondamentali, in AA.VV., Diritti fondamentali e giustizia costituzionale. Esperienze europee e nord-americana, a cura di S. Gambino, Milano 2012, 110 ss., spec. 126 ss., ed E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari 2012, part. 109 ss.; di quest’ultima, già, La fabbrica delle interpretazioni conformi a Costituzione tra Corte costituzionale e giudici comuni, in AA.VV., La fabbrica delle interpretazioni, a cura di B. Biscotti-P. Borsellino-V. Pocar-D. Pulitanò, Milano 2012, 43 ss. e, ora, The italian Courts and interpretation in conformity with the Constitution, EU law and the ECHR, in www.rivistaaic.it, 4/2012. Lo studio più organico della nostra dottrina resta, nondimeno, quello di G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano 2006, con le ulteriori precisazioni che sono in La Costituzione “sottintesa”, in AA.VV., Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, Milano 2010, 3 ss. V., inoltre, utilmente, A. Ciervo, Saggio sull’interpretazione adeguatrice, Roma 2011, nonché, ora, A. Longo, Spunti di riflessione sul problema teorico dell’interpretazione conforme, in www.giurcost.org, 24 gennaio 2012; I. Ciolli, Brevi note in tema d’interpretazione conforme a Costituzione, in www.rivistaaic.it, 1/2012, e, con specifico riguardo alla materia penale, V. Manes, Metodi e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Arch. pen., 1/2012, e, nella stessa Rivista, P. Gaeta, Dell’interpretazione conforme alla C.E.D.U.: ovvero, la ricombinazione genica del processo penale, ed ivi altra bibl.].

[44] Sent. n. 388 del 1999.

[45] Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi dal mio Tutela dei diritti fondamentali, squilibri nei rapporti tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corti europee, ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in www.giurcost.org, 17 marzo 2012, spec. § 7. V., inoltre, A. Guazzarotti, Precedente CEDU e mutamenti culturali nella prassi giurisprudenziale italiana, cit.

[46] Assai di recente, Corte cost. n. 230 del 2012, cit. Riferimenti di giurisprudenza risalente in R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 214 ss. e 235 ss. e, ora, F. Vari, A (ben) cinque anni dalle sentenze gemelle, (appunti su) due problemi ancora irrisolti, in www.federalismi.it, 18/2012, 7 del paper.

La circostanza per cui la giurisprudenza EDU dev’esser tenuta tendenzialmente presente porta, ad ogni buon conto, al riconoscimento – si è fatto notare da una sensibile dottrina (C. Salazar, Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo, giudici, cit., 67) – della “inevitabilità del dialogo” tra le Corti (testuale il corsivo). Una “inevitabilità” – vorrei aggiungere – che non va vista al pari di una sorta di male incurabile bensì, all’opposto, quale risorsa che, una volta spesa in modo adeguato, può condurre alla ottimale salvaguardia dei diritti [riserve e perplessità, invece, a riguardo del “dialogo” in parola sono in G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna 2010, e S. Troilo, (Non) di solo dialogo tra i giudici vivranno i diritti? Considerazioni (controcorrente?) sui rapporti tra le Corti costituzionali e le Corti europee nel presente sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali, in www.forumcostituzionale.it].

[47] Da ultimo, v. il mio Corti e diritti, in tempi di crisi, in www.gruppodipisa.it, 26 settembre 2012, spec. al § 3, e già in altri scritti.

[48] … o, per dir meglio, ogni Costituzione di stampo liberaldemocratico, non escludendosi che possano darsi (così come, invero, si danno in ordinamenti espressivi di culture dalla nostra profondamente discoste) Costituzioni chiuse in modo autoreferenziale in se stesse, indisponibili a farsi permeare e rigenerare senza sosta alla luce di materiali offerti ab extra (e, segnatamente, dalle Carte dei diritti). Molto discussa, come si sa, da tempo la questione se, anche a riguardo di tali ordinamenti, possa appropriatamente ragionarsi del loro essere fondati su una “Costituzione” (su ciò, richiamo qui solo gli approfonditi studi di A. Spadaro, a partire dal suo Contributo per una teoria della Costituzione, cit., nonché da L’idea di Costituzione fra letteratura,  botanica e geometria. Ovvero:  sei diverse  concezioni “geometriche”  dell’“albero” della Costituzione e un’unica, identica “clausola d’Ulisse”,  in Aa.Vv., The Spanish  Constitution  in  the European Constitutionalism Context, a cura di F. Fernández Segado, Madrid 2003, 169 ss.; un fitto ed animato confronto su ciò che è ed a cosa serve la Costituzione si è, poi, svolto per iniziativa di Quad. cost., con contributi di R. Bin, Che cos’è la Costituzione?, 1/2007, 11 ss., seguito dal mio Teorie e “usi” della Costituzione, 3/2007, 519 ss. e, quindi, da G. Bognetti, Cos’è la Costituzione? A proposito di un saggio di Roberto Bin, e O. Chessa, Cos’è la Costituzione? La vita del testo, entrambi nel fasc. 1/2008, rispettivamente, 5 ss. e 41 ss.; A. Barbera, Ordinamento costituzionale e carte costituzionali, 2/2010, 311 ss.; ancora G. Bognetti, Costantino Mortati e la Scienza del diritto, 4/2011, 803 ss. e, in quest’ultimo fasc., anche F. Di Donato, La Costituzione fuori del suo tempo. Dottrine, testi e pratiche costituzionali nella Longue durée, 895 ss. Inoltre, G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna 2008; F. Gallo, Che cos’è la Costituzione? Una disputa sulla rifondazione della scienza giuridica, in www.rivistaaic.it, 1/2011; F. Rimoli, L’idea di costituzione. Una storia critica, Roma 2011, e, ora, I. Massa Pinto, L’istituzione di una Costituzione: una chiarificazione dei concetti, in www.rivistaaic.it, 4/2012).

[49] Quest’affermazione è gravida di implicazioni al piano della teoria delle norme, con specifico riguardo appunto alla loro prescrittività (bisognosa di essere avvalorata caso per caso), per la cui indagine deve tuttavia farsi rimando ad altri luoghi.

[50] Cfr. al mio il diverso punto di vista al riguardo espresso da C. Panzera, Il bello dell’essere diversi. Corte costituzionale e Corti europee ad una svolta, in AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, cit., spec. 232 ss.

[51] Una ferma difesa del giudicato, ma con specifico riguardo alla eventualità che ad esso si opponga un sopravveniente mutamento d’indirizzo giurisprudenziale maturato in ambito interno, è nella più volte cit. sent. n. 230 del 2012, dove è patrocinata una soluzione che invero, di norma, merita accoglienza ma che pure non è generalmente valida (in particolare, non lo è proprio con riferimento al caso che risulti sacrificata la libertà del soggetto).

[52] Per tutti, M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Scritti in onore di V. Crisafulli, II, Padova 1985, 497 ss. (va, tuttavia, avvertito che anche quest’a. si fa portatore di un’idea di “sistema” assai distante da quella in cui io mi riconosco).

[53] Ovvio il riferimento all’insegnamento di C. Schmitt, Die Tyrannei der Werte, Stuttgart-Berlin 1967, tr. it. La tirannia dei valori. Riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori, Milano 2008, in merito al quale, di recente, T. Gazzolo, «Valore» e «limite» in Carl Schmitt. Per una lettura della «Tirannia dei valori», in Mat. st. cult. giur., 2/2010, 417 ss. Fuor di dubbio, come si sa, il fatto che negli ordinamenti, quale il nostro, di tradizioni liberaldemocratiche valga il “metaprincipio” – autentica Grundnorm che sta a base della composizione dei principi in sistema – secondo cui i principi stessi sono tenuti a mostrarsi “tolleranti” gli uni verso gli altri (per tutti, G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, cit., spec. 281 ss.) ed a conformarsi, nelle loro applicazioni ai casi (e perciò, in buona sostanza, nei modi della loro concreta vigenza), alla ragionevolezza, che viene così a confermarsi – secondo la felice definizione datane da L. D’Andrea, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano 2005 – quale autentico “principio architettonico del sistema”.

[54] Di recente, in Crisi economica e crisi della Costituzione, cit., spec. al § 5.