Si scrive Ungheria ma si legge Europa: prove tecniche di secessione culturale

In preda ad una sorta di furore antimoderno, l’Ungheria, con la firma del Presidente della Repubblica Pál Schmitt del 25 aprile scorso, ha adottato una nuova Costituzione. Prima, durante e dopo l’approvazione del testo, è cosa nota, la reazione dell’Europa (istituzionale ed intellettuale) ai percorsi costituzionali disegnati a Budapest è stata “violenta”. In questi ultimi mesi, tramite i post di Katalin Kelemen, diritticomparati ha seguito i documenti ufficiali e le contestazioni che sono emerse (in particolare da parte dell’Unione europea e, per il tramite della Commissione di Venezia, da parte del Consiglio d’Europa). Al fine di un confronto sul merito, in questo commento la sostanza delle questioni ungheresi viene ripercorsa seguendo tre direttrici, che rappresentano altrettanti spunti per il dibattito.

I) Sul piano assiologico, la scelta del Costituente ungherese è netta: propende per un testo conservatore ed antimoderno. È questa una novità nel panorama costituzionale europeo? In caso di risposta affermativa, la “novità” può trovare ospitalità nel paniere dei valori del continente?

«We are proud that our king Saint Stephen built the Hungarian State on solid ground and made our country a part of Christian Europe one thousand years ago» proclamano solennemente gli ungheresi. Ma oltre i richiami generali del preambolo (né più né meno suggestivi di tanti testi costituzionali) ciò che ha scioccato l’Europa del terzo millennio è stata la specifica statuizione di alcune previsioni normative palesemente ispirate ai valori cristiani che hanno animato i dibattiti (assai brevi in verità) di un Parlamento dominato da una coalizione di centrodestra (che controlla 2/3 dei seggi parlamentari a disposizione), valori che non sono estranei ad un Paese che, viceversa, aveva sempre rifiutato l’ateismo di stato dell’era sovietica.

Non potendo entrare nel dettaglio di tutti i passaggi contestati, sarà qui sufficiente richiamare un solo esempio, ma significativo, quello relativo alla tutela del diritto alla vita ed alla dignità umana fin dal momento del concepimento. L’articolo in questione, il numero II della Carta, non si discosta dalle previsioni normative di altri contesti costituzionali (basti pensare all’articolo 40 della Costituzione irlandese o al numero 30 di quella polacca). Sul piano europeo, inoltre, la Corte EDU, pur consapevole del consenso europeo in tema di aborto, non ha mai in principio escluso i “non nati” dalla fondamentale tutela del diritto alla vita stabilito dall’articolo 2 della Convenzione. Nel recente A.B.C. contro Irlanda (16 dicembre 2010) la Camera grande ha esplicitamente affermato che «Article 8 cannot be interpreted as conferring a right to abortion» (§ 214), in ossequio alla dottrina per cui, in materia, la tutela internazionale dei diritti dell’uomo prevede a floor of protection, not a ceiling. Conseguentemente, gli Stati possono incrementare le forme di tutela previste nei rispettivi ordinamenti. Il diritto internazionale, infine, offre più di un appiglio alle declinazione ungherese del diritto alla vita; basti pensare alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, il cui preambolo afferma che il fanciullo ha diritto ad una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita, mentre il successivo articolo 6 specifica che: «Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura del possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo».

A mio giudizio, la decisione sovrana del Costituente ungherese di estendere il diritto alla vita a partire dal concepimento appare legittima ed in linea con gli standard costituzionali europei ed internazionali, a prescindere dal fatto che questa posizione possa spiacere alle burocrazie di Strasburgo e Bruxelles o alla galassia delle ONG progressiste (gruppi LBGT, associazionismo secolarista/ateo e così via). A conclusioni analoghe, sempre con riferimento ai valori cristiani incastonati nel corpo del nuovo testo, si giunge esaminando tutte le altre materie del contendere, affini alla questione ora esaminata (declinazione del rapporto Stato-Chiesa, tutela della Famiglia e del matrimonio eterosessuale, proibizioni di pratiche eugenetiche, etc.). La sensazione, al di fuori di ogni dietrologia, è quella che, avendo profondamente messo in discussione i “mantra” politicamente corretti dell’occidente contemporaneo, l’assiologia valoriale proposta nella nuova Carta fondamentale di Budapest sia stata aprioristicamente rigettata.

Prima di passare all’analisi precipua dei congegni costituzionali stabiliti dalla nuova Carta, un breve commento potrebbe essere dedicato anche ad un altro passaggio che, pur non essendo correlato al tema della matrici cristiane della sistemazione dei diritti, ha nondimeno sollevato gli allarmismi più disparati, ovvero l’articolo D del testo che, agli occhi dei detrattori, sancirebbe il primato della c.d. “nazione basata sulle origini etniche”: «Hungary, guided by the notion of a single Hungarian nation, shall bear responsibility for the fate of Hungarians living outside its borders». Tale previsione sa più di espediente politico impiegato per rassicurare la pancia di quella parte dell’elettorato maggiormente spaventata dai processi di integrazione sovranazionale che di una nuova “dottrina dello spazio vitale”. Politica che, a prescindere dagli espedienti con cui venga perseguita, si rinviene nei programmi e nelle prassi di tutte le altre formazioni partitiche parlamentari delle democrazie europee, anche di quelle progressiste. E comunque, la disposizione incriminata non è nuova nel panorama contemporaneo. L’Art. 2 della costituzione irlandese stabilisce ad esempio che: «the Irish nation cherishes its special affinity with people of Irish ancestry living abroad who share its cultural affinity and heritage». Ancor più famosa è forse la c.d. “Legge del Ritorno” di Israele del 5 luglio 1950 per consentire il rientro e l’acquisto della cittadinanza da parte degli ebrei della Diaspora. Francamente non si vede all’orizzonte una nuova Jugoslavia nel cuore dell’Europa; piuttosto, avendo a mente il più ampio dibattito politico scatenato dall’adozione del testo, si potrebbe concludere che il Governo ungherese propende per un rigetto del modello sociale del multiculturalismo, seguendo così le indicazioni di altri leader europei (significativamente Angela Merkel, David Cameron e Nicolas Sarkozy) che ne hanno recentemente dichiarato il fallimento.

II) La seconda direttrice di questo commento riguarda l’analisi dell’architettura costituzionale disegnata dalla nuova Carta; anche qui, come per il discorso sui diritti fondamentali, data la complessità dell’argomento, non si può che procedere con un solo esempio, rinviando ai documenti sopra citati per un’analisi più precisa di tutte le critiche che, anche su questo piano, sono state rivolte al Costituente ungherese. Le istituzioni europee (Consiglio d’Europa e Parlamento dell’Unione in testa) hanno aspramente criticato una delle linee guida della riforma, ovvero il tentativo di riequilibrio dei poteri dello Stato nel senso di un rafforzamento dei circuiti esecutivo-legislativi a detrimento di quelli giudiziari, con particolare riguardo al nuovo ruolo disegnato per la Corte costituzionale (Cfr. opinioni della Commissione di Venezia: CDL-AD(2011)001 e CDL-AD(2011)016). Non potendo entrare nel merito delle singole disposizioni, la questione rimessa al dibattito è la seguente: nel ridisegnare la mappa del principio di separazione dei poteri, era possibile per il Costituente ignorare le peculiarità derivanti dalle circostanze storiche della transizione?

Gli studiosi dei processi di democratizzazione della contemporaneità (i vari Huntington, Linz, Stepan, O’Donnel, Lipset, Whitehead, etc.) concordano nel riconoscere che, assieme alla mancata influenza dei militari, l’altra grande caratteristica delle transizioni costituzionali dell’Europa orientale è stata una “unprecedent international influence”. Ebbene, una delle pressioni più vigorose del sistema dell’organizzazione internazionale nell’area fu proprio nel senso di assegnare ai nuovi (o comunque rinnovati) Giudici costituzionali un ruolo decisivo nella gestione del cambio di regime.

In questo panorama, il caso dell’Ungheria fu ancora più peculiare. Come ben messo in evidenza dallo studio monografico di Catherine Dupré del 2003, la Corte costituzionale ungherese, a partire da uno dei primissimi casi decisi (l’ormai celebre decisione 8/1990 sui poteri delle rappresentanze sindacali) importò letteralmente (per usare il gergo impiegato dall’Autrice) massicce quote di giurisprudenza tedesca, una comparazione ruotata attorno al perno della dignità umana. Tuttavia, distanziandosi dall’organicismo tedesco, la rappresentazione che la Corte costituzionale fece della persona umana fu quella di un essere considerato nella sua individualità e in lotta contro lo Stato per la protezione dei propri diritti. Questa torsione “individualistica” non derivò da una differente percezione (teorica) della dignità umana; piuttosto, da una (pratica) necessità (imposta dalla transizione politica) di conferire una natura oppositiva al rapporto fra Stato e società, al fine di liberarsi, anche simbolicamente, di un’ideologia (quale quella comunista) che aveva finito per appiattire i due concetti. Questa impostazione, per dirla con Radoslav Procházka, concesse al Giudice ungherese l’occasione storica di impiegare il judicial review come una sorta di “decommunistation tool” per assumere un indiscusso ruolo di “agent of social change”, impegnato con gli altri organi costituzionali nella battaglia per imporre la propria specifica agenda transizionale. Approccio che, come si può leggere nei lavori di Wojciech Sadurski, a diversi gradi d’intensità, fu caratteristico dell’area geopolitica presa in considerazione. Gli Autori citati concordano pure nel ritenere che, a fronte di tutte queste considerazioni, quella ungherese divenne una delle Corti costituzionali più potenti del mondo.

Questa stagione decisionista del Giudice costituzionale risultò funzionale ai primi stadi della transizione democratica, dal momento che consentì una rapida assimilazione dei paradigmi del liberalismo politico e del liberismo economico per una società che si doveva aprire alle logiche del mercato europeo ed agganciarsi a quel traino tedesco che, a seguito della riunificazione, si sarebbe imposto come primo motore dell’integrazione europea e quindi come naturale custode dei regime changes del continente. E tuttavia, utilizzando la sintesi del citato Procházka a commento di un altro famoso pronunciamento del 5 Marzo 1992 della stessa Corte ungherese, «the transition occurs only once. Transitional specifics may not be relied upon as a default device legitimizing measures that would not be constitutionally perfect under ‘normal’ circumstance». A mio avviso, dopo la stagione emergenziale, appare del tutto comprensibile che i poteri di indirizzo politico ritornino nell’alveo naturale del raccordo esecutivo-legislativo.

III) Riflettere sull’evoluzione costituzionale di un qualsivoglia paese europeo e ritrovarsi a parlare dell’intera Unione, era un’operazione che, fino ad oggi, appariva inevitabile. Verrebbe da domandarsi se sarà così ancora per molto considerando i riflessi della crisi economica sui circuiti istituzionali. L’ipotesi di fallimento pilotato della Grecia diviene col trascorrere delle ore sempre più una certezza (il tabù era stato rotto dal vicecancelliere e ministro dellEconomia tedesco, Philipp Rosler, che, dalle colonne del quotidiano conservatore Welt, aveva chiarito che linsolvenza per Atene non andasse più considerata come un tabù), scenari che il Foglio del 10 settembre ha poi descritto come prove tecniche di secessione di Berlino dalla UE. Pur volendo schivare interpretazioni meccanicistiche semplificative

della realtà, può riscontrasi un nesso fra il cortocircuito economico-finanziario delle capitali europee e la controversa “crociata” costituzionale di Budapest?

Con riferimento alla prima delle due direttrici di questo documento, quella relativa al complesso dei principi e dei valori costituzionali che emergono dal nuovo testo licenziato da Budapest, verrebbe da rispondere positivamente alla domanda appena posta. Parafrasando l’articolo del Foglio ora richiamato, quella ungherese potrebbe proprio considerarsi un’ipotesi di “secessione culturale”. Allargando lo spettro di questa prospettiva, è utile ricordare come l’Ungheria rientri fra quella ventina di paesi che (caso unico nella storia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) avevano preso congiuntamente e pubblicamente posizione in favore della presenza pubblica del Crocifisso nello spazio pubblico europeo, nel recente e famosissimo caso Lautsi contro Italia. Tenendo presente che questo inedito gesto collettivo ha visto la partecipazione di quasi tutti i Paesi ex comunisti (a cominciare dalla stessa Russia), Grégor Puppinck interpreta il pronunciamento della Camera grande dello scorso 18 marzo come uno spartiacque nella storia giuridica del vecchio continente. Si è sempre pensato che l’unità europea si sarebbe fatta ineluttabilmente dall’Ovest all’Est, attraverso una “conquista dell’Est” al liberalismo economico, e culturale dell’occidente. Dal quel momento è emerso con nettezza come la visione post-moderna della società non rappresenti più un modello irresistibile. È innegabile che, si tratti di singoli, di masse, di istituzioni o di interi Stati, vi è una fetta di umanità europea che immagina uno spazio pubblico di “identità” e non di sola burocrazia.

Con riferimento alla seconda direttrice di questo lavoro, quella relativa ai congegni costituzionali, di nuovo, Strasburgo e Bruxelles sono apparse assai superficiali nel richiamare all’ordine costituzionale un Paese di cui paiono ignorare la storia. Una conferma indiretta si può desumere guardando alle critiche che le istituzioni europee hanno riservato non solo al merito ma anche al metodo del percorso costituente ungherese: le accuse si sono concentrate sul fatto che il processo sia stato rapido ed escludente, un blitz reso possibile solo grazie dalla schiacciante supremazia della coalizione di centrodestra in Parlamento. L’azione congiunta del Fidesz (l’Unione Civica Ungherese) e del Partito Democratico Cristiano ungherese si è effettivamente intensificata negli ultimi anni (solo negli ultimi mesi del 2010 la Costituzione era stata emendata una decina di volte, fino al progetto di una riscrittura integrale giunto a compimento nei primi mesi dell’anno successivo), un precorso che, stando alle critiche europee, avrebbe marginalizzato gli altri partiti (socialisti, verdi, l’estrema destra rappresentata dai nazionalisti ultraconservatori del Jobbik) e l’opinione pubblica. Tibor Navracsics, vice primo ministro ungherese, in un’intervista del 19 aprile scorso al Wall Street Journal spiega che approvare una nuova Costituzione era stato il sogno di tutti i governi succedutesi a partire dal 1989, un dibattito durato vent’anni nel Paese e che il Governo di centrodestra è riuscito a concretizzare. Come dire, vent’anni di dibattiti non sono pochi e la forza parlamentare, parafrasando Talleyrand ed Andreotti, logora solo chi non ce l’ha. Ma oltre le difese d’ufficio, è più interessante un commento di J.C. Von Krempach (apparso sul Blog Turtle Bay and Beyond del 19 aprile) che critica una UE rigorosa nel fare la democratica con le Costituzioni degli altri: «[t]he first attempt, the so-called ‘Constitutional Treaty of the EU’, was subject to a referendum in only four of the 27 Member States: while Spain and Luxembourg voted ‘yes’, the outcome was negative in France and the Netherlands. And what happened next? A new draft Treaty with identical substance was adopted–the sole difference being that the word ‘Constitution’ was not used any more. This new draft was subject to a referendum only in one of 27 Member States (Ireland), and when the outcome of that referendum was negative, Ireland was pressed … to repeat the poll as many times as was necessary to get to a yes». Con riferimento alle costituzioni nazionali, Von Krempach si domanda perché poi l’assenza di un’approvazione referendaria (altro accorato suggerimento europeo) sia improvvisamente diventata un totem per la sola Ungheria: «23 new constitutions have been enacted in Eastern and Central Europe since 1990, and only 10 of these were subject to a popular referendum in the country concerned, whereas 13 were adopted by the legislative body alone».

Insomma, il deficit democratico dell’Unione non è più solo una formula da manuale di scienze politiche, i popoli dell’Unione avvertono tutto il peso della proverbiale contraddizione di aver lasciato la vecchia strada dei riferimenti nazionali ed esser incappati nel vuoto politico del nuovo orizzonte.

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