Scacco a Orbán? Il Rapporto Sargentini e la tutela dei valori comuni europei

Il 12 Settembre scorso, il Parlamento Europeo (PE) ha assunto una di quelle rare decisioni con un impatto immediato sulla situazione politica e costituzionale del continente. Con l’approvazione del ‘rapporto Sargentini’, il PE  ha attivato nei confronti dell’Ungheria la procedura dell’Articolo 7(1) TUE. Sono stati 448 i voti a favore della risoluzione, sufficienti a raggiungere la maggioranza qualificata dei due terzi dei voti espressi. Si tratta del secondo caso di attivazione dell’Articolo 7, a soli nove mesi di distanza dalla prima, storica decisione assunta dalla Commissione nel Dicembre 2017, quella volta nei confronti della Polonia.

 

Il Rapporto Sargentini
Il lungo rapporto preparato dalla commissione LIBE e dalla relatrice Judith Sargentini esprime ampie preoccupazioni sul sistema costituzionale ungherese e sul rispetto per i valori comuni europei nel paese. Ha un respiro più ampio del documento adottato dalla Commissione nei confronti della Polonia, che si concentrò in maniera più dettagliata su solo uno dei valori proclamati dall’Articolo 2 TUE, lo stato di diritto, e coprì quasi esclusivamente le riforme dell’ordinamento giudiziario e la situazione della Corte Costituzionale. Al contrario, il rapporto Sargentini, dopo aver espresso generali preoccupazioni sul sistema costituzionale e aver analizzato i problemi relativi all’indipendenza della magistratura, si occupa anche di specifici diritti fondamentali, tra cui la libertà di espressione, la libertà accademica, in particolare relativamente alle discusse modifiche della legge sull’istruzione terziaria che potrebbero costringere la Central European University a cessare le attività accademiche, i diritti delle minoranze, di migranti e richiedenti asilo.. Come nel precedente ‘rapporto Tavares’ adottato dopo le riforme costituzionali ungheresi, il PE si dimostra di nuovo capace di un’analisi a 360 gradi, forse meno tecnica di quelle della Commissione nel caso polacco. Positiva è inoltre la scelta del PE di fare costante riferimento ad altri organismi europei (e non solo) che hanno a loro volta espresso preoccupazioni relativamente alla situazione ungherese, incluse per esempio la Corte Europea dei diritti dell’uomo e la Commissione di Venezia. Tali riferimenti irrobustiscono l’analisi del PE e mostrano come le preoccupazioni espresse non siano solo politiche, ma di natura strettamente costituzionale.

 

Articolo 7(1) TUE: non un’opzione nucleare
La risoluzione del PE attiva la procedura di cui all’Articolo 7(1) TUE. La parola passa ora al Consiglio, chiamato nei prossimi mesi a decidere, ad una maggioranza di quattro quinti, sulla proposta ragionata del PE. Nel dibattito sia precedente che successivo alla decisione di Strasburgo si è spesso evocata la possibilità dell’adozione di sanzioni nei confronti dell’Ungheria, o comunque di una ‘condanna’ del paese. Non è però questa la funzione dell’Articolo 7(1): la procedura non ha carattere sanzionatorio, ma si limita ad accertare l’esistenza di un ‘rischio evidente di violazione grave’ dei valori comuni UE da parte di uno degli Stati Membri. Perché il Consiglio possa approvare sanzioni, di cui l’Articolo 7(3) menziona solo il caso più estremo, cioè la sospensione del diritto di voto, è prima necessaria una delibera del Consiglio Europeo, adottata all’unanimità seguendo la procedura dell’Articolo 7(2). Quest’ultima è pero diversa nelle modalità e negli obiettivi: ha infatti un carattere più marcatamente conflittuale, mentre l’Articolo 7(1) lascia ancora spazio a dialogo e sforzi comuni per risolvere quel ‘rischio evidente’ di cui sopra.

La seconda attivazione dell’Articolo 7 nell’arco di pochi mesi dimostra inequivocabilmente la centralità e l’importanza delle procedure in esso contenute. Non si tratta di un’opzione nucleare, che mira solo ad avere una funzione deterrente, ma sia di fatto inutilizzabile. Al contrario, è l’unico strumento presente nei Trattati che offre alle istituzioni europee un’opportunità di intervenire direttamente a tutela dei valori alla base del progetto europeo. Se fino a pochi mesi fa, la UE ha perlopiù cercato alternative al sistema dell’Articolo 7, vuoi con interventi ‘indiretti’ tramite procedure di infrazione abbastanza limitate quanto a scopo, vuoi con strumenti di ‘soft law’, come il ‘Quadro sullo stato di Diritto’, le istituzioni sembrano ormai aver accettato che il ricorso alle procedure dell’Articolo 7 sia necessario per garantire una tutela più efficace dei valori fondamentali. Al tempo stesso, va riconosciuto come se anche si arrivasse all’intervento più ‘duro’ previsto dal sistema, cioè l’adozione di sanzioni, di fatto non esistano garanzie di successo. In ultima istanza, la UE non ha a disposizione strumenti di natura federale che consentano di intervenire direttamente nel territorio di uno Stato membro per far attuare decisioni prese a livello centrale, eventualmente anche con l’uso della forza. Rimane dunque necessario che attori politici e della società civile a livello nazionale supportino le decisioni europee e si muovano per cambiare il contesto politico-costituzionale nel loro paese.

 

Meccanismi politici e meccanismi giuridici
In ogni caso, si può dire che la decisione del PE abbia già portato i suoi primi frutti. Il voto ha avuto un elevatissimo impatto politico e mediatico, ancora superiore alla decisione della Commissione nel caso polacco. Molti membri del Partito Popolare Europeo hanno colto l’occasione per mostrare la propria insoddisfazione nei confronti di Fidesz e Viktor Orbán. L’esclusione del partito dal gruppo europeo diventa oggi meno improbabile. Questa certamente non basterebbe a risolvere le minacce ai valori comuni evidenziate dal rapporto Sargentini,, anche vista la perdurante popolarità del governo, che ha vinto per la terza volta consecutiva le elezioni politiche soli pochi mesi fa e ottentuto nuovamente una maggioranza costituzionale.

Il dibattito e le reazioni successive alla decisione del PE sembrano però dimostrare come i meccanismi politici abbiano un ruolo fondamentale nella protezione dei valori comuni UE, come già anticipato sopra. Se infatti il successo dell’azione europea dipende (anche) dalla capacità di trovare alleati a livello nazionale, le decisioni del Parlamento e di altri organi politici sembrano avere una maggiore capacità di mobilitare e supportare l’opposizione politica e sociale delle decisioni, spesso di natura più tecnica, della Corte di Giustizia o di altre corti nazionali ed europee. Si può infatti ricordare in questo senso come le riforme costituzionali del 2012 fossero state oggetto, seppur solo per alcuni profili, di procedure di infrazione, ma queste ebbero risultati limitati, anche a causa dell’assenza di una più generale mobilitazione politica. Inoltre, il voto favorevole del PE illustra anche come lo stesso non sia necessariamente un organo ‘partigiano’. L’adozione del rapporto ha infatti richiesto una maggioranza trasversale: fondamentale è stato il voto positivo di parte del PPE, ma anche per esempio del Movimento 5 Stelle.

Gli ultimi sviluppi mostrano come il dibattito accademico si sia fin troppo concentrato sulla creazione di nuove procedure giuridiche, che superassero gli attuali limiti di applicazione delle procedure di infrazione o della Carta dei Diritti Fondamentali. La discussione ha forse sottovalutato come sia invece la combinazione di meccanismi politici, incluso l’Articolo 7, e meccanismi giuridici, in primo luogo procedure di infrazione, a poter ottenere risultati più efficaci. Solo dopo la decisione del PE, l’Unione ha fatto finalmente ricorso al suo arsenale completo in entrambi i casi: in Polonia, dopo l’attivazione dell’Articolo 7 la Commissione ha iniziato o portato avanti tre procedure di infrazione relative alle riforme dell’ordinamento giudiziario; in Ungheria, la decisione del PE si affianca alle procedure di infrazione della Commissione relative alle modifiche alla legge sulle organizzazioni non governative, a quelle relative allo status della CEU, e alle riforme del sistema d’asilo. È inoltre importante sottolineare come le procedure in questione non ambiscano soltanto ad offrire una protezione indiretta dei valori comuni, come fu il caso per quelle iniziate nel 2012 dopo le riforme costituzionali, ma includano in maniera più diretta considerazioni basate sulla Carta dei Diritti Fondamentali o sull’Articolo 19 TUE, che protegge l’indipendenza delle corti nazionali, come la Corte ha recentemente affermato nel caso dei ‘giudici Portoghesi’ (C-64/16 ASJP).

 

I prossimi sviluppi
Nel caso ungherese, le responsabilità passano ora al Consiglio. Prima del voto finale, potrebbero però trascorrere molti mesi: basti pensare che il Consiglio non si è ancora espresso sulla procedura nei confronti della Polonia, cominciata come detto nel Dicembre 2017. Inoltre, è comunque richiesta (almeno) un’audizione di fronte al Consiglio Affari Generali, in modo tale da offrire al governo ungherese la possibilità di presentare i propri argomenti ‘difensivi’.  Le due procedure – quella ungherese e quella polacca – viaggeranno in ogni caso in maniera indipendente, su binari diversi: il testo dell’Articolo 7 non pare consentire un voto comune su due diversi Stati Membri.

Il dibatto si intersecherà con due questioni fondamentali per il futuro della UE: le elezioni europee del Maggio 2019, e le discussioni sul nuovo bilancio per il periodo 2021-2027. A livello politico, aumenteranno certamente all’interno del PPE le pressioni per una possibile espulsione di Fidesz, che potrebbero anche portare ad una frattura all’interno del PPE e ad una fondamentale riconfigurazione degli equilibri politici europei.

Per quanto riguarda le questioni relative al prossimo quadro pluriennale di bilancio, senza dubbio diventerà ancora più acceso il dibatto intorno alla possibile introduzione o rafforzamento di strumenti di condizionalità nel sistema dei fondi strutturali e in generale dei fondi UE, dal momento che sia l’Ungheria che la Polonia beneficiano in maniera significativa di tali fondi. Si può ricordare come la Commissione abbia proposto un nuovo Regolamento che consentirebbe alla Commissione stessa di sospendere, interamente o in parte, i fondi assegnati a uno Stato membro in caso di carenze generalizzate dello stato di diritto. In attesa di futuri decisioni in materia, si potrebbe anche riflettere se il sistema attuale non consenta già oggi di sospendere almeno parte dei fondi strutturali, come sostenuto da parte della dottrina.

Per concludere, la decisione del PE è una mossa di fondamentale importanza, destinata a incidere in profondità sugli sviluppi politici e costituzionali europei nei prossimi mesi. Per tradurre tale decisione in miglioramenti concreti dello stato di diritto e della protezione dei diritti fondamentali in Ungheria, è però necessario che i leader politici europei e nazionali agiscano con decisione e in tempi rapidi. Occorre insomma che altre pedine si muovano perché lo scacco diventi matto.