Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento “intercostituzionale”*
Sommario: 1. Una Corte costituzionale che “predica bene e razzola male” o, all’inverso, “predica male e razzola bene”, per il fatto di delineare un certo modello di rapporti tra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo e di non restare poi ad esso in tutto fedele nelle soluzioni di merito apprestate per i singoli casi? – 2. I lineamenti della giurisprudenza costituzionale relativa alla condizione giuridica della CEDU in ambito interno e i casi in cui, contrariamente all’avviso del giudice costituzionale, può aversi applicazione diretta della Convenzione stessa. – 3. I conflitti tra norma convenzionale e norma costituzionale e le tecniche decisorie a mezzo delle quali essi sono abilmente camuffati (in particolare, l’obbligo di prestare ossequio alla Convenzione unicamente nella sua “sostanza” e l’assunto, assiomaticamente posto ed espressivo di una singolare idea di “Costituzione-totale”, per cui la tutela apprestata ai diritti dalla Carta costituzionale non sarebbe, in tesi, meno “intensa” di quella offerta da altre Carte). – 4. Segue: la tecnica decisoria con la quale si ammette, sì, l’esistenza di un conflitto tra norma convenzionale e norma interna (anche costituzionale), ma lo si supera facendo riferimento alla Costituzione come “sistema”. – 5. La ricerca della norma – quale che sia la provenienza, la forma ed il rango della fonte che la produce – idonea a dare la più “intensa” tutela ai diritti e, perciò, a rivendicare a buon diritto il primato sulle norme restanti (interne o esterne che siano). – 6. I rimedi prospettabili al fine di parare il rischio, sempre incombente in certa giurisprudenza, di un nazionalismo o patriottismo costituzionale infecondo ed ingenuo, convertendo la superbia in umiltà costituzionale, all’insegna di un modello di “Costituzione-parziale”: una Costituzione che si dimostri perciò, nei fatti, disponibile ad aprirsi all’alto ed all’altro ed a farsi rigenerare senza sosta da altri documenti normativi essi pure adottati al servizio dei diritti, presentandosi pertanto quale un’autentica “intercostituzione”, punto di convergenza e di vera e propria immedesimazione dei sistemi preposti a dare tutela ai diritti. – 7. Il ruolo dei giudici in un ordine “intercostituzionale”: a chi spetta la ricognizione di “nuovi” diritti fondamentali? Critica delle opposte opinioni che vorrebbero ora categoricamente esclusi i giudici da siffatta opera definitoria ed ora invece gli artefici in sovrana solitudine della stessa, specie alla luce del presente contesto caratterizzato dal sensibile avvicinamento del ruolo da essi giocato rispetto a quello proprio del legislatore. – 8. La sofferta ricerca del modo migliore col quale preservare la tipicità dei ruoli rispettivamente giocati dal legislatore e dai giudici, i cui problematici rapporti richiedono di essere riequilibrati attraverso misurate discipline normative, essenzialmente per principia, che quindi si rimettano per la loro opportuna attuazione ed integrazione (e non la mera applicazione o esecuzione) alle sedi presso le quali si somministra giustizia, sia ordinaria che costituzionale.
1.Una Corte costituzionale che “predica bene e razzola male” o, all’inverso, “predica male e razzola bene”, per il fatto di delineare un certo modello di rapporti tra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo e di non restare poi ad esso in tutto fedele nelle soluzioni di merito apprestate per i singoli casi?
Toccherò, con la massima rapidità, unicamente due punti tra i molti di particolare interesse riguardati dal tema della protezione dei diritti fondamentali nel c.d. costituzionalismo “multilivello”[1]: quello dei rapporti tra la tutela apprestata dalla Costituzione e la tutela delle Carte internazionali dei diritti (con specifico riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: d’ora innanzi CEDU)[2] e l’altro dei rapporti tra la tutela apprestata dal legislatore e la tutela offerta dai giudici (costituzionali e non): due profili che – come si tenterà di mostrare – solo ad una prima (ma erronea) impressione parrebbero essere reciprocamente distinti ma che, in realtà, risultano strettamente, inscindibilmente legati l’uno all’altro.
Comincio dal primo.
Non faccio qui cenno alcuno alle più varie opinioni manifestate in dottrina circa il modo con cui si atteggiano, secondo modello, i rapporti tra la Costituzione e le Carte suddette, vale a dire a seconda che si adotti quale angolo visuale a finalità di ricostruzione, rispettivamente, quello risultante dalla prima ovvero dalle seconde[3]. I modelli, infatti, come si sa, sono non poche volte ed in maggiore o minore misura fatti oggetto di adattamenti e vere e proprie torsioni nella pratica giuridica e per le sue più pressanti esigenze, manipolazioni tutte queste che hanno proprio nella giurisprudenza il terreno più fertile per la loro emersione e diffusione. Trovo dunque conveniente guardare qui, piuttosto che al diritto vigente (secondo questa o quella delle sue più accreditate letture), al diritto vivente, segnatamente a quello che si afferma per mano dei giudici costituzionali (e, ulteriormente specificando, per mano della nostra Corte).
Ora, assai singolare e meritevole di essere subito messo in evidenza appare ai miei occhi il fatto che la Corte italiana (ed ho motivo di pensare che non diversamente vadano le cose anche presso altre Corti), per un verso, dichiari di aver ormai messo a punto un proprio modello di relazioni tra Costituzione e CEDU nitidamente delineato nella sua struttura portante, appunto quello che – a suo dire – è l’unico modello desumibile dalla Carta costituzionale e disegnato a partire dalle famose sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 del 2007, quindi riconfermato nelle ormai numerose pronunzie nelle quali è fatto riferimento alla CEDU[4]. Per un altro verso, però, il modello stesso, proprio in alcuni dei suoi tratti maggiormente espressivi e significanti, è fatto oggetto di significativi (seppur abilmente mascherati) scostamenti, in ragione dell’appagamento di talune esigenze che – a quanto pare – si reputa di non poter altrimenti salvaguardare.
Qual è allora – ci si deve chiedere – il vero “diritto vivente”? Quello in cui si dichiara essere il modello o l’altro in cui, nella stessa pronunzia, dopo avervi fatta menzione ci si discosta in una non secondaria misura?
E ancora: come valutare questo stato di cose? Dobbiamo dire che la Corte predica bene e razzola male oppure, rovesciando (innaturalmente…) su se stesso questo noto adagio, che predica male e razzola bene?
Dico subito che la mia idea è che nessuna delle due opzioni secche racchiuse nell’alternativa suddetta può essere pienamente ed incondizionatamente accolta e che piuttosto – come non di rado accade – la verità sta a mezza via, pur se con una certa qual propensione per le deroghe al modello operate nei singoli casi anziché per la salvaguardia dello stesso.
Le notazioni che seguono si sforzano di argomentare quest’idea.
2.I lineamenti della giurisprudenza costituzionale relativa alla condizione giuridica della CEDU in ambito interno e i casi in cui, contrariamente all’avviso del giudice costituzionale, può aversi applicazione diretta della Convenzione stessa
Richiamo qui, unicamente a beneficio dei colleghi di altri Paesi partecipanti alle nostre Giornate, solo i punti maggiormente rilevanti su cui si regge la costruzione giurisprudenziale eretta nel 2007.
La Corte costituzionale, in breve, 1) qualifica la CEDU (e viene da pensare ogni altra fonte internazionale pattizia[5]) quale fonte “subcostituzionale” ed interposta, in virtù della “copertura” assicuratale dall’art. 117, I c., cost.: come tale, per un verso, tenuta a prestare ossequio a qualunque norma costituzionale[6] e, per un altro verso, bisognosa a sua volta di essere osservata dagli atti comuni di normazione (leggi ed atti aventi forza di legge), a pena della loro invalidità (e del conseguente possibile annullamento[7]); 2) dichiara che, per quanto possibile, è fatto obbligo al giudice comune[8] di interpretare le leggi di cui è chiamato a fare applicazione in senso conforme (oltre che alla Costituzione) alla CEDU stessa (ed alle altre fonti al pari di essa protette dal disposto costituzionale surrichiamato); 3) ove una siffatta interpretazione “conciliante” si dimostri essere impossibile (per le resistenze oppostole dai testi), al giudice non resta altro che sollevare una questione di legittimità costituzionale (appunto per violazione indiretta dell’art. 117, sopra cit.), restando in ogni caso esclusa la eventualità della disapplicazione diretta della norma interna accompagnata dalla contestuale applicazione in sua vece della norma convenzionale; 4) è pur sempre fatta salva l’eventualità che sia la stessa norma astrattamente idonea a porsi a parametro in un giudizio di “convenzionalità-costituzionalità” a convertirsi in oggetto del sindacato della Corte, ove si dubiti della sua conformità a Costituzione (nel qual caso, si è detto fino alla sent. n. 311 del 2009, la Corte può intervenire a tutela della Costituzione, caducando la norma convenzionale[9] incostituzionale. A partire dalla decisione ora richiamata, la Corte si è limitata a dichiarare che la norma stessa non potrà integrare il parametro costituzionale; la qual cosa autorizza a pensare che potrebbe aversi una dichiarazione di mera “irrilevanza” per il caso del parametro convenzionale, in tal modo in buona sostanza disapplicato[10]); 5) non è detto che l’acclarato contrasto tra norma convenzionale e norma legislativa porti sempre e comunque all’annullamento della seconda, che di contro potrebbe avere la meglio, a condizione però che si dimostri che essa offra un’ancòra più “intensa” tutela ai diritti fondamentali e, più largamente, ai beni costituzionalmente protetti, visti nel loro fare “sistema” (dovendosi, cioè, in buona sostanza, fare riferimento all’“insieme” delle norme costituzionali, per come evocato in campo dal caso)[11].
Partendo proprio da quest’ultimo punto, può subito notarsi la stranezza costituita dal fatto che, ad opinione della Corte, in una circostanza siffatta si assisterebbe pur sempre ad una violazione indiretta dell’art. 117, conseguente all’accertamento del contrasto (insanabile per via interpretativa) tra legge e CEDU, a fronte della quale tuttavia – come s’è detto – dovrebbe darsi prioritaria considerazione al fatto che, allo stesso tempo, la legge offra una maggior tutela ai beni costituzionalmente protetti di quella discendente dalla CEDU. Solo che, così stando le cose (e prescindendo ora dalla questione micidiale riguardante il parametro o il criterio in nome del quale poter far luogo, senza soverchie incertezze, all’accertamento della norma, interna o esterna, in cui si situi la più “intensa” tutela), nessuna violazione, in tesi, può dirsi che si abbia della Convenzione, dal momento che è quest’ultima a volersi fare da parte, dichiarando (art. 53) essere il proprio ruolo meramente “sussidiario”, esercitabile appunto unicamente nei casi in cui la norma convenzionale fissi più in alto di quella interna la salvaguardia dei diritti.
Ora, non dandosi, in una congiuntura siffatta, lesione della Convenzione, dovrebbe essere affare esclusivo del giudice comune far luogo ad un siffatto riscontro, senza perciò che ad esso possa o debba seguire l’interpello del giudice costituzionale. Quest’ultimo è, infatti, il “giudice naturale” dei conflitti reali tra norme legislative interne e norme convenzionali (ed internazionali in genere), non già di quelli meramente apparenti o astratti. La stessa Convenzione va cioè vista, al pari della Costituzione, come “sistema”, vale a dire per il modo con cui i suoi singoli disposti si considerano sia inter se che nel loro riporto all’art. 53, ora cit., col quale ora si apre ed ora si chiude la porta che dà modo alla Convenzione stessa di uscire dal proprio ambito materiale di competenza e di immettersi nell’ambito interno per spiegare in quest’ultimo la sua azione benefica a salvaguardia dei diritti.
Si aggiunga che, in una circostanza quale quella ora presa in esame, il carattere meramente apparente dell’antinomia può essere ulteriormente avvalorato dal fatto che, a prendere in considerazione le singole norme (a prima impressione) incompatibili, potrebbe darsi il caso che si sia in presenza di una tutela “graduata” del diritto in gioco, maggiore da parte dell’una e minore da parte dell’altra: insomma, volendo ricorrere ad un’immagine che ho già rappresentato altrove[12], sarebbe come se due treni corressero, a velocità diverse, nella stessa direzione e su binari paralleli, di modo che l’uno riesca a portarsi più avanti dell’altro ovvero a raggiungere la meta prima di esso, non già perciò due treni fatalmente destinati allo scontro siccome disposti l’uno di fronte all’altro sui medesimi binari.
Così come possono darsi casi di non applicazione della Convenzione, possono di contro darsi casi di applicazione diretta, malgrado il giudice costituzionale ad essi si dichiari decisamente, incondizionatamente ostile[13].
Mi limito ad elencarli, soffermandomi quindi su uno soltanto di essi, specificamente riguardante il secondo profilo, sul quale di qui a breve mi intratterrò.
Il primo di essi si ha ogni qual volta si abbia una sostanziale coincidenza tra una norma convenzionale ed una norma della Carta di Nizza-Strasburgo suscettibile di applicazione diretta. È vero che questa condizione va provata, così come va verificato se il caso ricada in ambito materiale di competenza dell’Unione, al quale soltanto – come si sa – resta circoscritta l’applicazione della Carta suddetta. L’una e l’altra cosa, tuttavia, potrebbero aversi non di rado[14], sol che si consideri la tendenza crescente a fare applicazione diretta delle norme costituzionali sui diritti (e le norme delle Carte sono esse pure materialmente costituzionali) e si consideri altresì l’espansione vistosa dell’area materiale di competenza dell’Unione, essa pure dovuta ad una coraggiosa giurisprudenza sovranazionale cui non è mancato il sostegno o, quanto meno, l’acquiescenza da parte dei giudici nazionali[15].
Il secondo potrebbe aversi (in verità, in un numero progressivamente decrescente[16]) ogni qualvolta la norma convenzionale sia cronologicamente posteriore alla norma interna con essa contrastante ed allo stesso tempo la prima si dimostri in grado di prendere subito il posto della seconda[17], facendosi pertanto luogo all’utilizzo dello schema dell’abrogazione piuttosto che a quello della invalidità (quale presupposto del successivo annullamento da parte del giudice costituzionale). Ancora una volta, dunque, l’antinomia è meramente apparente, non dandosi la simultanea vigenza delle disposizioni normative in “conflitto”, una soltanto perciò essendo quella da applicare al caso[18].
Il terzo potrebbe aversi in presenza di acclarata violazione della Convenzione da parte di norma di legge tuttavia non (ancora) rimossa a seguito e per effetto della pronunzia della Corte europea; dopo di che – quanto meno alle parti attivatesi per ottenere giustizia a Strasburgo[19] (ma, a mia opinione, anche a terzi…[20]) – non dovrebbe applicarsi la norma interna illegittima bensì, in modo diretto ed esclusivo, la norma convenzionale[21].
La questione merita invero un supplemento di riflessione in altra e più acconcia sede. L’ipotesi nondimeno di un diverso modo di farsi valere del primato della Convenzione in relazione ai soggetti, per quanto sia da prendere in conto, sembra per più aspetti lasciare perplessi alla luce del principio di eguaglianza, nel suo fare “sistema” col principio dell’apertura dell’ordine interno al diritto internazionale e sovranazionale.
Il quarto ed ultimo caso si ha laddove non si dia l’esistenza di una norma interna e il giudice possa pertanto colmare il vuoto facendo immediato riferimento alla norma convenzionale. Non si capisce infatti la ragione per cui, mentre diffusamente si ammette, quanto meno con riferimento a taluni casi, la possibile (ed anzi doverosa) applicazione diretta della Costituzione, non possa dirsi lo stesso delle Carte internazionali dei diritti (e, segnatamente, della CEDU), tanto più che esse sono rese esecutive con legge (dunque, come si vede, una vera e propria lacuna legislativa in una siffatta circostanza non si ha).
Su quest’ultimo punto, tuttavia, si rendono necessarie alcune precisazioni, delle quali mi farò carico più avanti. Avverto comunque sin d’ora come non siano di raro riscontro nella pratica giuridica i casi in cui, volendo il giudice comune fare applicazione diretta della Convenzione e consapevole del contrario avviso al riguardo manifestato dal giudice costituzionale, si circoscriva in modo artificioso l’area materiale “coperta” dalle previsioni legislative e, al contempo, si faccia espandere quella delle previsioni convenzionali, sollecitate in tal modo ad un loro “forte” e talora eccessivo utilizzo.
3.I conflitti tra norma convenzionale e norma costituzionale e le tecniche decisorie a mezzo delle quali essi sono abilmente camuffati (in particolare, l’obbligo di prestare ossequio alla Convenzione unicamente nella sua “sostanza” e l’assunto, assiomaticamente posto ed espressivo di una singolare idea di “Costituzione-totale”, per cui la tutela apprestata ai diritti dalla Carta costituzionale non sarebbe, in tesi, meno “intensa” di quella offerta da altre Carte)
Il punto però nel quale si rende con maggiore evidenza visibile lo scostamento dal modello, per come dalla stessa giurisprudenza delineato, si ha laddove, riscontrato il contrasto tra norma convenzionale e norma costituzionale, non si fa luogo né all’annullamento della prima né alla formale, solenne dichiarazione della sussistenza del contrasto stesso quale causa – come si diceva – della “irrilevanza” della Convenzione per la definizione del caso.
Il contrasto – come si avvertiva all’inizio di queste notazioni – è, in realtà, abilmente mascherato.
Due le tecniche decisorie al riguardo utilizzate. Con l’una, il conflitto è ad arte evitato, sia pure col costo di far luogo a corpose selezioni delle norme convenzionali evocabili in campo, scartando quelle suscettibili di entrare in rotta di collisione con la Costituzione e facendo esclusivo riferimento unicamente a quelle con essa – a dire del giudice costituzionale – compatibili; con la seconda, il conflitto è apertis verbis ammesso, e però ancora una volta si evita accuratamente di far seguire a siffatto accertamento la caducazione della norma convenzionale o, comunque, la formale dichiarazione della sua “irrilevanza” per il caso, pur nei fatti ottenendosi il medesimo scopo che per il suo tramite si conseguirebbe.
La prima tecnica poggia sulla premessa secondo cui ciò che conta non è il diritto convenzionale vigente bensì quello vivente: ricorrenti sono, infatti, le attestazioni fatte alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale tuttavia – qui è il punto – rileva unicamente per la sua “sostanza”, va cioè osservata dagli operatori di diritto interno non già in ogni sua parte, per filo e per segno, bensì per ciò che essa in nuce rappresenta[22].
Per vero, la Corte costituzionale non ha mai chiarito cosa esattamente s’intenda per la “sostanza” in parola, in particolare se essa vada riferita ad indirizzi ormai consolidati (a delle vere e proprie consuetudini interpretative ricorrenti), sì da potersi considerare non cogenti singole pronunzie o gli stessi indirizzi suddetti laddove ancora ad uno stadio iniziale, complessivamente immaturo, ovvero se di ogni pronunzia si possa (e debba) avere riguardo al solo suo “nucleo duro”, tralasciando espressioni marginali, di secondario rilievo (ammesso pure che si possa con chiarezza, nettamente, distinguere il “nucleo” stesso dalle parti che vi stanno attorno). Non credo che il giudice delle leggi abbia la convenienza di dare un chiarimento siffatto, che comunque potrebbe essergli d’intralcio in successive decisioni. Sta di fatto che, grazie a siffatto artificio retorico-argomentativo (ché di questo, a conti fatti, si tratta), si rende possibile far luogo a selezioni anche cospicue dei casi, scartando le indicazioni della giurisprudenza europea che appaiano “scomode” ed attingendo a quelle idonee a saldarsi in modo armonico agli indirizzi del giudice costituzionale.
Forse, non è appropriato al riguardo discorrere – come pure ho poc’anzi fatto – di una vera e propria selezione di “norme” convenzionali, la selezione stessa appuntandosi su orientamenti giurisprudenziali relativi anche ad una stessa norma. Non di rado però sono in gioco plurime interpretazioni somministrate dal giudice europeo con riferimento ad una stessa disposizione della Convenzione, dalla quale dunque col tempo vengono estratte norme diverse, solo alcune o magari una soltanto delle quali giudicate dalla Corte nazionale rilevanti per il caso.
Come si vede, la giurisprudenza costituzionale finisce con l’allineare non già la propria giurisprudenza a quella europea bensì questa a quella, utilizzando cioè le indicazioni che vengono da Strasburgo a conferma di quelle a dire del giudice di Roma desumibili dalla nostra Carta costituzionale. In fondo, se ci si pensa, prende qui corpo quella previsione, fatta ormai parecchi anni addietro (sent. n. 388 del 1999), secondo cui “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione”, malgrado subito appresso si trovi scritto che la Costituzione e le Carte dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”. Due affermazioni – mi è parso in altri luoghi di poter dire – assai problematicamente riducibili in modo armonico ad unità, la prima sembrando voler fare da specchio ad un “nazionalismo o patriottismo costituzionale ingenuo ed infecondo”[23], diversamente dalla seconda nella quale il principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale rinviene una delle sue più incisive e significative espressioni. E non è senza significato rilevare come la seconda delle affermazioni suddette muova dall’assunto di quella parità di condizioni in cui stanno tutti i documenti normativi che danno il riconoscimento (in senso proprio) dei diritti fondamentali, che è invece negata dalla giurisprudenza inaugurata nel 2007, con la qualifica in essa data della CEDU (e, perciò, di ogni altra Carta di origine esterna) quale fonte “subcostituzionale”.
Sta di fatto che, a mezzo della tecnica in parola, la CEDU è, a conti fatti, utilizzata meramente a rinforzo di una tutela dei diritti che si assume esservi già, tutta quanta, in Costituzione, in quest’ultima vedendosi l’atto per eccellenza idoneo ad offrire piena garanzia a qualsivoglia diritto fondamentale; le Carte restanti possono, perciò, solo dare ulteriore testimonianza o conferma di una garanzia comunque validamente apprestata in ambito interno[24].
Come si vede, quella sopra riportata, appare essere una dichiarazione – se posso dire con franchezza – di superbia costituzionale, che muove dall’assunto (a mia opinione, essenzialmente inesatto) che la nostra sia una sorta di “Costituzione-totale”, che non contenga lacuna alcuna di previsione: una Costituzione perfetta, insomma, ultraterrena (se si conviene che la perfezione non è di questo mondo…).
Ora, non soltanto questo punto di vista è rigettato fuori delle nostre mura domestiche, la stessa Convenzione – come si è rammentato – dichiarando di avere una missione da compiere, proprio al fine di colmare le lacune di costruzione esistenti in ambito interno, ma è la stessa giurisprudenza costituzionale, in fin dei conti, a riconoscerlo, ammettendo che possa essere denunziata la violazione, in modo diretto ed esclusivo, da parte di leggi nazionali della Convenzione stessa (o di altre Carte).
D’altro canto, quale pratico senso potrebbe mai avere la sottoscrizione delle Carte stesse (e, fra queste, della CEDU) ove esse dovessero limitarsi a ripetere, magari con parole diverse, le previsioni della Carta costituzionale fatte a beneficio dei diritti?
La nostra è, dunque, una “Costituzione-parziale”, che dà numerosi e importanti riconoscimenti ai diritti fondamentali ma non, appunto, a tutti e in modo pieno, se si eccettua la norma di sintesi di cui all’art. 2 della Carta costituzionale, nella quale l’inviolabilità dei diritti stessi è in modo fermo e chiaro dichiarata. Altro è però – si convenga – un riconoscimento fatto una volta per tutte (e genericamente) ed altra cosa il puntuale ed espresso riconoscimento operato a beneficio di singoli diritti, nella stessa Costituzione o, appunto, in altre Carte alle quali la prima rimandi ed alle quali, pertanto, offra “copertura”: una “copertura” che è, nel modo più saldo ed efficace, assicurata proprio dall’art. 2, nel suo fare “sistema” col principio di eguaglianza, di cui all’art. 3[25], più e prima ancora che a mezzo di altri enunciati costituzionali pure a buon diritto evocabili in campo (oltre al già cit. art. 117, I c., in particolare, gli artt. 10 e 11[26]), e, in ultima istanza, col valore “supercostituzionale” della dignità della persona umana, da cui costantemente si alimenta e riceve senso la coppia assiologica fondamentale di libertà ed eguaglianza, dalle cui mutue e varie combinazioni si fa ed apprezza la giustizia[27].
Sta di fatto che, circoscrivendosi l’obbligo della osservanza della CEDU alla sola “sostanza” della relativa giurisprudenza, il nostro giudice delle leggi può parare sul nascere il rischio del conflitto tra la CEDU stessa e la Costituzione, salva l’eventualità, astrattamente prospettabile ma di assai remoto riscontro, che il conflitto stesso non emerga in modo vistoso per effetto di un orientamento della Corte di Strasburgo consolidato, pressoché sistematicamente ripetuto (come si diceva, un vero e proprio “indirizzo” di consuetudinaria fattura). Non si trascuri poi che, se è vero che lo stesso giudice europeo non ha (perlomeno a tutt’oggi…) preteso scrupolosa osservanza per le proprie pronunzie, non è meno vero che l’individuazione della “sostanza” da tener presente potrebbe aversi con esiti divergenti o, diciamo pure, reciprocamente incompatibili, rispettivamente, da parte del giudice europeo e da parte del giudice nazionale. La qual cosa renderebbe il conflitto insanabile, proprio perché inconciliabili sarebbero, in tesi, i punti di vista da cui si fa luogo a siffatta ricognizione, spianandosi così la via per la ricerca delle soluzioni maggiormente adeguate al suo superamento[28].
4.Segue: la tecnica decisoria con la quale si ammette, sì, l’esistenza di un conflitto tra norma convenzionale e norma interna (anche costituzionale), ma lo si supera facendo riferimento alla Costituzione come “sistema”
È qui che però subentra la seconda delle tecniche decisorie, cui si faceva poc’anzi cenno.
Messa con le spalle al muro, la Corte italiana ammette talora l’esistenza di una insanabile divergenza interpretativa riscontrabile tra la propria giurisprudenza e quella forgiata a Strasburgo. Ne dà però una spiegazione in teoria persuasiva, che tuttavia si presta a pratiche sue applicazioni non poco discutibili. Dice infatti il nostro giudice delle leggi (spec. sentt. nn. 236 del 2011 e 264 del 2012 e, più di recente, 170 e 202 del 2013[29]) che, mentre a Strasburgo si presta attenzione alla singola norma della Convenzione che offre tutela ad uno specifico diritto[30], trascurandosi il riferimento alle norme stesse nel loro fare “sistema” (un’affermazione, questa, che, pur non priva di un suo fondamento, non è tuttavia sempre e del tutto vera), il giudice nazionale (e questo vale per lo stesso giudice delle leggi come pure per il giudice comune) ha da guardare ogni volta all’intero “sistema” di norme[31], un sistema nel quale il riconoscimento dei diritti si accompagna alla garanzia di beni di altra natura, essi pure meritevoli di protezione (talora, persino di una prioritaria protezione)[32].
Ecco allora che l’operatore che, pensoso, s’interroghi dove si situi la più “intensa” tutela ai diritti e, in genere, ai beni costituzionalmente protetti ha da guardare ogni volta all’intero “sistema”. In astratto, può pure darsi il caso che, con riferimento ad uno stesso diritto di cui si faccia menzione sia nella Convenzione che in Costituzione, la tutela maggiore sia da riconoscere in capo alla prima Carta, che nondimeno viene a trovarsi costretta a recedere nel corso di una data vicenda processuale in considerazione della soluzione al riguardo imposta dal “sistema”.
Si tratta dunque ogni volta di far luogo ad un operazione di bilanciamento che abbia appunto nel “sistema” l’orientamento verso il quale si svolga e il fermo ancoraggio dal quale si tenga, al fine di fissare il più in alto possibile, in ragione delle condizioni complessive di contesto, il punto di sintesi assiologicamente significante tra i beni costituzionalmente protetti.
È questa – come si è sopra veduto – la direttiva d’azione impartita da Corte cost. n. 317 del 2009 e già, sia pure confusamente accennata, nella prima delle sentenze “gemelle” del 2007.
5.La ricerca della norma – quale che sia la provenienza, la forma ed il rango della fonte che la produce – idonea a dare la più “intensa” tutela ai diritti e, perciò, a rivendicare a buon diritto il primato sulle norme restanti (interne o esterne che siano)
Di qui due conclusioni alle quali, a mia opinione, occorre prestare la massima attenzione.
La prima è che la ricerca della fonte nella quale è da rinvenire la più “intensa” tutela, svolgendosi al piano suo proprio delle norme e secondo i valori, non può essere condotta né i suoi esiti possono essere apprezzati se non in prospettiva appunto assiologico-sostanziale, non già da una formale-astratta, che guardi alle fonti ut sic, per la forma di cui sono dotate, l’ordinamento di origine o il rango astrattamente detenuto.
La seconda è che tutte le fonti possono giocarsi la partita ad armi pari, sollecitate – come sono – a dar vita ad una sana competizione a chi è in grado di offrire di più e di meglio a salvaguardia dei diritti e, in genere, dei beni costituzionalmente protetti nel loro fare “sistema”. Non c’è più fonte “subcostituzionale” o costituzionale o ordinaria; ci sono solo norme che da se medesime si assegnano questo o quel “posto” nel sistema[33], per il modo con cui dimostrano di saper dare appagamento ai beni della vita costituzionalmente protetti e, in ultima istanza, a libertà, eguaglianza, dignità.
Le stesse leggi comuni – come si è fatto poc’anzi notare – potrebbero portare ancora più in alto della Costituzione la salvaguardia di diritti pure in questa nominativamente indicati, dislocandosi in tal modo ad un’ancòra più corta distanza – se così può dirsi – rispetto alla luce abbagliante della coppia assiologica fondamentale, di cui agli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale. D’altro canto, i principi fondamentali, che – come si sa – costituiscono la trascrizione grafica più immediata e genuinamente, densamente, espressiva dei valori parimenti fondamentali[34], in nome dei quali è stata condotta la battaglia vittoriosa per la edificazione del nuovo ordine costituzionale dopo le macerie della seconda grande guerra, sono norme a carattere tendenziale, perché tendenziali sono i valori cui esse danno voce. Prefigurano, insomma, un modello di società ideale (di uomini laboriosi, liberi, eguali, partecipi del governo che essi stessi si danno ed impegnati nell’adempimento dei doveri di solidarietà che gravano su ciascuno verso tutti) ancora di là da venire e che forse nella sua purezza e grandiosità mai appieno verrà, un modello i cui lineamenti quanto più ricevono appagamento da parte delle norme sottostanti, tanto più pretendono di essere ulteriormente svolti, in vista di future, accresciute acquisizioni a beneficio dei diritti e, in ultima istanza, della dignità della persona umana.
L’esito teorico cui naturalmente conduce una impostazione metodica siffatta, un esito che si è tentato di argomentare in altri luoghi[35], è che il “sistema” è sistema di norme, non già di fonti, secondo valori: un sistema che viene ogni volta rifatto secondo le esigenze dei casi, assumendo come punto costante di riferimento i principi fondamentali dell’ordinamento di appartenenza di ciascun operatore. La qual cosa, tuttavia, non dovrebbe portare acqua al mulino di quel nazionalismo o patriottismo costituzionale sterile ed insensato, di cui poc’anzi si diceva. L’esito corretto dovrebbe piuttosto essere esattamente quello opposto, ove si convenga che tra i principi fondamentali del nostro come pure di altri sistemi di norme v’è pure quello dell’apertura verso l’altro: un’apertura che risulti essere la massima possibile in considerazione delle esigenze complessive del “sistema” e, perciò, in buona sostanza, della salvaguardia dei principi che lo compongono.
Quanto meno così dovrebbe essere secondo modello, se non pure però sempre è secondo esperienza[36].
6.I rimedi prospettabili al fine di parare il rischio, sempre incombente in certa giurisprudenza, di un nazionalismo o patriottismo costituzionale infecondo ed ingenuo, convertendo la superbia in umiltà costituzionale, all’insegna di un modello di “Costituzione-parziale”: una Costituzione che si dimostri perciò, nei fatti, disponibile ad aprirsi all’alto ed all’altro ed a farsi rigenerare senza sosta da altri documenti normativi essi pure adottati al servizio dei diritti, presentandosi pertanto quale un’autentica “intercostituzione”, punto di convergenza e di vera e propria immedesimazione dei sistemi preposti a dare tutela ai diritti
Si tratta allora di chiedersi quali rimedi possano prospettarsi al fine di porre un argine all’affermazione di quel nazionalismo costituzionale di cui si è ripetutamente detto e di cui si ha sì frequente riscontro nella giurisprudenza di tutte le Corti.
Ora, non v’è dubbio che molte soluzioni sono astrattamente pensabili al piano dei rapporti tra le Corti stesse, in aggiunta a quelle di cui già si dispone (ad es., per ciò che concerne l’esercizio del rinvio pregiudiziale, anche da parte delle stesse Corti costituzionali[37], o la prevista consultazione da parte dei giudici comuni della Corte di Strasburgo). Un’autentica svolta, di carattere metodico, nel senso di convertire la superbia in umiltà costituzionale, all’insegna di quel modello di “Costituzione-parziale”[38] di cui un momento fa si diceva, richiede tuttavia la maturazione di un’apertura culturale ad oggi incompleta. Non dico, ovviamente, che di essa non si abbia nitida traccia: sarebbe un giudizio ingeneroso e, a conti fatti, profondamente ingiusto. Dico solo che la strada da fare prima di pervenire alla meta è ancora lunga ed irta di ostacoli e resistenze, legate ad una mentalità dalle risalenti e nondimeno tuttora salde radici, che vedeva (e vede) nella Costituzione una fonte in sé perfetta, autosufficiente, fondante e non fondata, punto fermo dal quale l’intero ordinamento si tiene ed attorno al quale ruotano le più salienti vicende istituzionali, al piano sia della normazione che dell’applicazione (amministrazione e, soprattutto, giurisdizione). Un’idea – come si vede – quasi sacrale di Costituzione, debitrice del mito rivoluzionario formatosi al crepuscolo del secolo decimo ottavo che voleva la Costituzione figlia di un potere costituente illimitato ed illimitabile, in tesi idoneo a dar vita ex nihilo ad un nuovo ordine costituzionale connotato da discontinuità, apprezzabile in prospettiva assiologico-sostanziale, rispetto all’ordine preesistente dallo stesso a forza abbattuto, quali che siano i processi storico-politici che abbiano portato all’affermazione del potere stesso.
Oggi questo modo di vedere le cose non è – come si sa – in tutto e per tutto rinnegato (basti solo pensare alla dottrina dei limiti alla revisione costituzionale); e, tuttavia, si dimostra essere bisognoso di talune corpose correzioni, la più significativa delle quali – per ciò che qui specificamente interessa – è quella per cui la Costituzione non appare più, nel presente contesto segnato da un costituzionalismo c.d. “multilivello” (ma che – come si diceva – ancora meglio si dovrebbe piuttosto chiamare “interlivello”), idonea a giustificarsi da se medesima, riproponendosi dunque quale fonte fondante ma non fondata sia dell’ordinamento di appartenenza che delle relazioni interordinamentali. Di contro, la Costituzione si giustifica solo nel momento in cui si dichiara disponibile a farsi alimentare e rigenerare senza sosta da altri documenti parimenti costituzionali quoad substantiam (se non pure quoad formam[39]), aprendosi all’alto ed all’altro e dichiarandosi disponibile a farsi persino da parte per cedere il posto ad altre Carte che, in relazione alle esigenze di un caso, si dimostrino idonee ad offrire un’ancòra più intensa tutela agli stessi beni costituzionalmente protetti (e, segnatamente, ai diritti fondamentali).
Come si è tentato di argomentare in altri luoghi, pur laddove la Costituzione dovesse mostrarsi “cedevole” davanti ad altre Carte, in realtà essa realizzerebbe appieno se stessa, appagando nel modo migliore quei valori transepocali di libertà ed eguaglianza che sono la cifra identificante e più immediatamente espressiva delle Carte venute alla luce al fine di restituire all’uomo la dignità che gli era stata brutalmente sottratta prima e durante la seconda grande guerra. La “logica” vincente non è tuttavia quella conflittuale, dell’aut-aut nell’utilizzo di questa o quella Carta con esclusione delle restanti, bensì l’altra, conciliante, della convergenza e della stessa immedesimazione delle Carte nei fatti interpretativi, secondo la felice (ma parziale) formula della sent. del 1999, dietro richiamata. È così, e solo così, che la Costituzione può farsi punto di integrazione fra sistemi di norme posti a garanzia dei diritti, sistema di sistemi insomma.
Lo scenario qui nuovamente prefigurato spinge dunque vigorosamente per l’avvento di un autentico ordine “intercostituzionale”, come lo si è altrove chiamato[40]: ogni Costituzione (in senso materiale) ponendosi infatti quale una “intercostituzione”, per il fatto stesso di racchiudere in sé il principio fondamentale dell’apertura ad altre Carte che parimenti possono offrire il loro fattivo concorso alla piena salvaguardia, in ragione delle condizioni oggettive di contesto, dei valori fondamentali di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità), nel loro fare “sistema” coi valori restanti.
7.Il ruolo dei giudici in un ordine “intercostituzionale”: a chi spetta la ricognizione di “nuovi” diritti fondamentali? Critica delle opposte opinioni che vorrebbero ora categoricamente esclusi i giudici da siffatta opera definitoria ed ora invece gli artefici in sovrana solitudine della stessa, specie alla luce del presente contesto caratterizzato dal sensibile avvicinamento del ruolo da essi giocato rispetto a quello proprio del legislatore
In uno scenario siffatto un ruolo di cruciale e crescente rilievo sono chiamati – per diffuso riconoscimento – a giocare i giudici (non solo costituzionali[41]). Molto essi hanno fatto e molto ancora possono (e devono) fare al servizio dei diritti; si tratta, tuttavia, di dare un governo a siffatta complessiva e complessa attività, ad oggi fiorita in modo spontaneo ed espansasi in forme talora non opportunamente vigilate, fissando degli argini al suo libero[42], imparziale ed equo svolgimento.
Ho già accennato poc’anzi alla questione di particolare importanza relativa alla disciplina dei rapporti tra le Corti, una disciplina nondimeno solo in parte demandabile a regole positive, per un’altra, cospicua parte restando piuttosto rimessa all’autodeterminazione delle stesse Corti e perciò, in buona sostanza, a regolarità cui esse danno vita con le pratiche giudiziarie che quotidianamente formano e rinnovano senza sosta.
Dirò ora, con la consueta rapidità imposta a questa riflessione, dell’altro versante, quello dei rapporti col legislatore, essi pure ad oggi profondamente squilibrati e dunque bisognosi di corpose correzioni.
Muovo da una premessa che mi parrebbe sufficientemente salda nelle sue basi metodico-teoriche; ed è che, con riguardo alla questione di fondo riguardante la definizione di “nuovi” diritti fondamentali, debbano scartarsi gli eccessi ricostruttivi di chi vorrebbe categoricamente esclusi da questo compito i giudici (nel presupposto che esso debba essere unicamente assolto dal legislatore) e chi vorrebbe invece che esso fosse in buona sostanza demandato ai giudici stessi, quanto meno per il caso che venga meno la regolazione con legge[43].
La prima tesi è, a dir poco, ingenua, seccamente smentita dalla storia, viziata da palese astrattismo, complessivamente insostenibile insomma. Alla fin fine, essa ripropone l’antico dogma o mito della onnipotenza del legislatore e del giudice bouche de la loi, che ha avuto sì numerose e risolutive confutazioni da non richiedere che se ne debba fare qui ulteriore parola.
La seconda tesi è, invece, assai più difficile da smontare, se non altro perché fotografa abbastanza fedelmente una realtà di cui, da noi come altrove (e da lunga pezza)[44], si ha largo riscontro[45]. Dove v’è un vuoto di potere – è legge antica quanto il mondo[46] – v’è sempre chi è pronto ad occuparlo: il ruolo “sussidiario” dei giudici, dunque, risponde quasi ad una sorta di legge di natura, ad una necessità cui non si saprebbe altrimenti come far fronte (senza tuttavia, con ciò, sottacere le non poche deviazioni riscontrabili nelle pratiche giudiziarie, specie con riguardo ai casi in cui le discipline legislative in realtà vi siano e siano fatte oggetto di corpose, ancorché non sempre immediatamente visibili, manipolazioni). La stessa Corte costituzionale italiana ha più d’una volta ammesso a denti stretti di far luogo, con le sue sentenze “normative”[47], ad una “supplenza” – com’è ormai uso chiamarla – nei riguardi del legislatore “non richiesta e non gradita”[48], ma tant’è… Ciò che conta è, a quanto pare, il fine, pur se il suo raggiungimento possa talora comportare il ricorso a mezzi costituzionalmente non appropriati.
Alcune precisazioni tuttavia subito si impongono.
La prima è che la infungibilità dei ruoli, sia tra organi che tra atti, non è da mettere in discussione: ne verrebbero pregiudicati senza rimedio principi fondamentali della liberaldemocrazia, a partire da quelli della separazione dei poteri, della sovranità democraticamente esercitata, della legalità. Eppure, ciò posto, non può passarsi sotto silenzio che oggi i ruoli stessi ricevano una conformazione assai diversa da quella loro propria secondo antichi, ma ormai inesorabilmente invecchiati, schemi qualificatori. Una delle più probanti conferme di questo stato di cose è dato dalla impossibilità di seguitare a tipizzare i ruoli stessi, segnatamente quello del legislatore e l’altro dei giudici costituzionali (in senso materiale), ricorrendo alla dicotomia astratto-concreto.
V’è, ormai da tempo, in atto un processo di progressivo avvicinamento, in struttura e funzione, dell’attività del legislatore e di quella del giudice (segnatamente, del giudice costituzionale).
L’uno è chiamato a farsi carico dell’“impatto” nell’esperienza – come suole essere chiamato – degli atti che ha in cantiere, lo studio del quale comporta alcune “analisi” – come pure sono qualificate – il cui pratico rilievo tuttavia non sembra all’altezza delle aspettative nutrite al momento della loro introduzione[49]. È anche per ciò (ma, invero, non solo per ciò[50]) che assai di frequente gli atti legislativi, una volta adottati ed anche a ridosso della loro adozione, sono fatti oggetto di complessivi aggiustamenti, al fine di adeguarli come si conviene alle esigenze della pratica giuridica[51]: aggiustamenti che, non di rado, hanno proprio nelle sedi giudiziarie la sollecitazione per la loro messa in atto.
L’altro, poi, manifesta una spiccata vocazione a dotare gli atti dallo stesso emanati della capacità di portarsi oltre il caso, di “universalizzarsi” insomma; quanto meno, ciò sembra valere – e non a caso – per i giudici che, nell’ordinamento di appartenenza, si pongono come giudici “unici”, non avendo altri organi giudicanti a sé omologhi o “concorrenziali” (e il discorso, ancora una volta, riguarda in ispecie i giudici formalmente ovvero materialmente costituzionali)[52].
Il punto richiede un momento di riflessione, tornando a riguardare a queste esperienze non già – come di consueto – da una prospettiva d’ispirazione formale-astratta bensì da una di carattere sostanziale. Non si tratta, cioè, solo di ribadire qui l’attitudine, che è propria delle sentenze di accoglimento del giudice costituzionale[53], a produrre effetti erga omnes; è importante, altresì, dare il giusto rilievo alle numerose regolarità cui la giurisprudenza ha dato e dà luogo e che si ripropongono con costanza di caratteri, stabilizzandosi in vere e proprie consuetudini decisorie.
Per altro verso, con specifico riferimento alle Corti europee, esse pure – come si faceva poc’anzi notare – manifestano la spiccata tendenza alla loro “costituzionalizzazione”, una tendenza cui è stato quindi dato avallo dagli stessi giudici costituzionali, di modo che quella che in origine poteva considerarsi una sorta di convenzione costituzionale, frutto della convergenza su di essa riscontratasi tra giudici europei e giudici nazionali, può forse ormai dirsi essere divenuta una vera e propria consuetudine interordinamentale (perlomeno, fintantoché non sarà rimossa e sostituita da un’altra…[54]). In disparte il peculiare regime che è proprio delle pronunzie della Corte di giustizia, cui – come si sa – è riconosciuta natura di vere e proprie fonti del diritto (di forza “paracostituzionale”)[55], una delle più vistose testimonianze in tal senso è data dalle c.d. sentenze-pilota della Corte di Strasburgo, il cui rilievo è stato, ancora di recente, riconosciuto anche dal nostro giudice delle leggi[56]. Ciò che più conta, poi, è il fatto che alcune tecniche decisorie ormai collaudate nelle esperienze processuali invalse presso i giudici costituzionali sono state quindi riprese, sia pure con sostanziali adattamenti, da parte dei giudici europei: al di là, cioè, degli effetti prodotti dalle decisioni, v’è il dato, forse ancora più meritevole di considerazione, relativo al modo con cui esse vengono a formazione, al modo cioè di essere del processo che porta alla loro adozione e che appare, in molti suoi punti, accostabile a quello che è proprio dei giudizi di costituzionalità.
8.La sofferta ricerca del modo migliore col quale preservare la tipicità dei ruoli rispettivamente giocati dal legislatore e dai giudici, i cui problematici rapporti richiedono di essere riequilibrati attraverso misurate discipline normative, essenzialmente per principia, che quindi si rimettano per la loro opportuna attuazione ed integrazione (e non la mera applicazione o esecuzione) alle sedi presso le quali si somministra giustizia, sia ordinaria che costituzionale
Ora, ferma la tendenza, sopra rilevata, al ravvicinamento dell’attività, rispettivamente svolta, dal legislatore e dai giudici, il punto è però che la confusione dei ruoli non sembra, come si diceva, in alcun caso o modo, tollerabile: sia con riguardo ai casi in cui i secondi prendano il posto del primo e sia pure nei casi in cui sia il legislatore ad interferire sulla imparziale amministrazione della giustizia[57].
Cosa fare, allora, per preservare la tipicità dei ruoli stessi? Va subito detto, senza troppi giri di parole, che le maggiori responsabilità circa lo stato di cose per come si è venuto affermando è del legislatore: a questi compete, infatti, farsi carico dell’onere di rimediarvi, forgiando discipline normative – come subito si dirà, per essentialia – riguardanti i diritti, specie i “nuovi”, la cui individuazione e “regolazione” (nei limiti in cui il termine possa essere utilizzato con riguardo alle espressioni della giurisprudenza) sono fin qui state in buona sostanza rimesse in larga parte (e talora per intero) ai giudici.
La estrema varietà dei casi, unitamente alla strutturale complessità degli interessi emergenti in taluni campi di esperienza (e penso ora soprattutto agli sviluppi del biodiritto, anche alla luce degli avanzamenti della ricerca scientifica e tecnologica[58]), ha reso ancora più evidente lo scarto tra le carenze (per talune fattispecie, la vera e propria latitanza[59]) della regolazione legislativa e l’impellente bisogno di appagamento di taluni bisogni elementari dell’uomo. A fronte di questo stato di cose, che è quello che è, i giudici hanno fatto quanto era (ed è) in loro potere (e, forse, però, anche di più…) per porvi rimedio, senza tacere che alcuni loro orientamenti appaiono essere alquanto improvvisati e forzati, come tali problematicamente riconducibili al quadro costituzionale ed alle stesse indicazioni delle Carte dei diritti (e, segnatamente, della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo).
È ormai provato[60] che il modo migliore per il legislatore di intervenire nei campi suddetti è quello soft, a mezzo di discipline positive strutturalmente duttili, costituite in larga parte da disposizioni di principio, più (o anziché) espressive di regole[61]. Disposizioni che, dunque, aprano spazi considerevoli ai giudici per quelle operazioni di bilanciamento in concreto tra gli interessi meritevoli di tutela cui essi fanno, in ragione dei casi, quotidianamente luogo.
Come si accennava poc’anzi, poi, a mia opinione la disciplina legislativa dovrebbe disporsi in forme e gradi di generalità discendente: alla legge costituzionale dovrebbe spettare la normazione di base, vale a dire il riconoscimento (in senso ristretto e proprio) dei “nuovi” diritti, il loro – per dir così – disvelamento, quale esplicitazione della formula di sintesi di cui all’art. 2 della Carta[62]; l’aggravamento della procedura stabilita per la venuta alla luce degli atti di forma costituzionale, con l’incontro necessario che essa naturalmente incoraggia ed implica tra le forze politiche di opposto schieramento[63], dovrebbe quindi valere a rendere testimonianza della esistenza di quelle vere e proprie consuetudini culturali diffuse nel corpo sociale aventi ad oggetto i “nuovi” diritti, di cui si è venuti dicendo e che poi costituisce la più efficace risorsa circa la loro effettiva osservanza nella pratica giuridica[64]. A rimorchio della disciplina costituzionale dovrebbe quindi porsi quella con legge comune (statale o regionale che sia[65]), cui verrebbe pertanto demandato il compito di apprestare la prima, diretta specificazione-attuazione della disciplina stessa, la sua tutela insomma (sia pure ancora al piano delle previsioni normative), a mezzo di formulazioni normative nondimeno caratterizzate – come si diceva – da ampiezza strutturale di disposti[66]. Ai giudici, infine, il compito di assicurare in concreto la tutela stessa, a mezzo di un’attività che risulti essere non meramente di applicazione[67] bensì di attuazione e persino d’integrazione del dettato legislativo, tra le maglie larghe del tessuto costituzionale immettendosi e svolgendosi un’attività giurisdizionale non meramente esecutiva.
Tra il piano delle previsioni costituzionali (in senso materiale) e quello della pratica giudiziaria si dispone, dunque, come si vede, quello della disciplina legislativa, quale strumento ordinario di svolgimento del dettato costituzionale; ordinario e tuttavia non necessario, diversamente da quanto ritenuto da una pur argomentata e raffinata costruzione teorica, che appunto vorrebbe comunque assicurata la mediazione della legge tra la Costituzione ed altre fonti ed atti giuridici in genere[68].
Non si esclude, infatti, che si diano casi in cui i giudici possano a buon titolo fare applicazione diretta della Costituzione e delle altre Carte (ma, il più delle volte, dovrebbe piuttosto dirsene in termini di attuazione[69]), a presidio dei diritti e, in genere, di interessi costituzionalmente protetti[70]. Non è questa tuttavia, a mia opinione, la regola; e non posso qui tacere che questa mia presa di posizione mi costa molto, consapevole che, per effetto di essa, molti beni della vita di cui è fatta menzione nella Carta costituzionale (o in altre Carte), perdurando la mancanza della mediazione necessaria del legislatore, verrebbero a trovarsi gravemente esposti, praticamente sguarniti di tutela.
La soluzione opposta, tuttavia, come si è venuti dicendo, fa correre rischi ancora più gravi, a conti fatti portando a considerare la legge una sorta di optional, di cui la pratica giuridica parrebbe di poter fare disinvoltamente a meno. Si tratta piuttosto di ricercare e preservare un pur disagevole e sofferto equilibrio di ordine istituzionale, in seno al quale ciascun operatore (legislatore e giudici e, prima ancora, come si è veduto, legislatore costituzionale e legislatore comune) abbia finalmente riconosciuto il proprio giusto posto, la funzione e la vera e propria missione da compiere, al servizio dei diritti dei singoli e degli interessi dell’intera collettività.
Non è facile stabilire in concreto se e fino a che punto questo equilibrio possa dirsi davvero raggiunto, quanto meno in un’apprezzabile misura. È, come sempre, la pratica giuridica, con le sue complessive e varie movenze, a dover da se medesima far luogo a siffatto riscontro, suggerendo quindi gli opportuni, eventuali correttivi.
La giurisprudenza costituzionale costituisce al riguardo un indice altamente attendibile: si pensi solo alle numerose occasioni in cui il giudice delle leggi confessa la propria impotenza a dare soddisfacente, effettiva tutela ad interessi costituzionalmente protetti, non potendo invadere il campo riservato alle opzioni c.d. “discrezionali” del legislatore[71]. Ancora una volta, tuttavia, non spetta ai soli giudici costituzionali bensì a tutti gli operatori (in primo luogo, dunque, ai giudici comuni), con la sensibilità che è loro propria, sollecitare il legislatore ad onorare l’impegno cui è istituzionalmente chiamato, così come, peraltro, a quest’ultimo compete – come s’è veduto – predisporre le più adeguate discipline normative, sì da agevolare l’assolvimento del compito gravante sui giudici a beneficio dei diritti e degli interessi in genere meritevoli di tutela. Ed è fin troppo evidente, perché vi sia qui il bisogno di evidenziarlo ulteriormente, che il “dialogo” intergiurisprudenziale, sia in ambito interno (dei giudici comuni inter se e col giudice costituzionale) che al piano interordinamentale[72], non può che trarre profitto da un’accorta ed incisiva disciplina legislativa, da cui possono venire feconde suggestioni per la crescita e la diffusione di una cultura dei diritti, vecchi o nuovi che siano, al servizio dei più intensamente avvertiti bisogni elementari dell’uomo.
La legislazione è – come si sa – un’arma a doppio taglio: se fatta come si deve, può fare molto bene, così come però, all’inverso, può recare non poco danno, laddove non fatta a misura d’uomo e per le sue più impellenti esigenze. Quei conflitti, aperti o mascherati che siano, tra le Corti, di cui si è detto nel corso della prima parte di questa esposizione, possono dunque ulteriormente inasprirsi ovvero essere stemperati, fino a sostanzialmente dissolversi, per effetto del sopravvenire di discipline legislative che, rispettivamente, si discostino (pur non dando l’apparenza di volervi apertamente contrastare) rispetto agli indirizzi delle Corti europee ovvero si mostrino sensibili e sia pure originali interpreti delle loro più salienti indicazioni a tutela dei diritti. Si tratta, perciò, di far sempre di più diffondere una cultura dei diritti capace di fare breccia nelle resistenze tuttora esistenti in ambienti politici e negli strati più profondi della società e che tenacemente si oppongono al suo saldo radicamento.
Siamo tutti chiamati, ciascuno secondo il proprio ruolo, a questo ambizioso ed impegnativo, ma anche non poco gratificante, compito: uomini di scienza, praticanti di giustizia, autori di leggi. È solo dandosi concretezza a questa “santa alleanza” che può essere offerto il migliore servizio, alle pur difficili (e talora persino proibitive) condizioni oggettive di contesto, all’uomo, ai suoi diritti, alla sua dignità.
* Comunicazione alle Giornate italo-spagnolo-brasiliane su La protección de los derechos en un ordenamiento plural, Barcellona 17-18 ottobre 2013, alla cui data lo scritto è aggiornato.
[1] … e che, però, come si tenterà di mostrare, ancora meglio dovrebbe chiamarsi “interlivello” (acuti rilievi al riguardo in L. D’Andrea, Diritto costituzionale e processi interculturali, in www.forumcostituzionale.it, 29 aprile 2009, spec. l’ult. §, sia pure da una prospettiva e con esiti teorico-ricostruttivi non in tutto coincidenti con quelli di qui). V., inoltre, da ultimo, i contributi di più autori che sono sotto il titolo Diritti e conflitti nel costituzionalismo transnazionale: dal territorio allo spazio. Verso un nuovo (dis)ordine globale policentrico?, in Dir. Pubbl. comp. ed eur., II/2013, a cura di G. D’Ignazio e A.M. Russo, 423 ss.
[2] Adopero per il momento il termine “tutela” et similia in larga accezione; sul finire di questa esposizione tuttavia si svolgeranno alcune precisazioni al riguardo.
[3] Faccio qui specifico riferimento al modello costituzionale italiano, al quale le notazioni che seguono vogliono restare circoscritte. Si vedrà tuttavia che alcune di esse possiedono una più larga valenza, siccome espressive di un modo d’intendere la Costituzione che può essere altresì riferito a Carte diverse da quella italiana.
[4] Se ne può ora vedere un’accurata rassegna in R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, a cura di R. Cosio e R. Foglia, Giuffrè, Milano 2013, 166 ss.
[5] Forse, come mi fa notare O. Pollicino, le cose potrebbero andare diversamente per gli accordi in forma semplificata, la cui capacità di vincolo nei riguardi delle leggi di Stato e Regione è stata – come si sa – messa in dubbio da una sensibile dottrina. Sta di fatto che la formula costituzionale, nella sua testuale dizione, parrebbe non porre limite di sorta ai vincoli discendenti dagli obblighi internazionali omnicomprensivamente intesi, quale che sia dunque il modo con cui essi sono contratti. Se poi, alla prima occasione utile, la Corte costituzionale dovesse darci un’interpretazione “sanante” del generico dettato costituzionale, sarei il primo ad esserne contento.
[6] Stranamente, la Corte non s’interroga a riguardo del fatto che, per la materia oggetto di disciplina e per il modo della sua trattazione, la Convenzione possa naturalmente ed esclusivamente confrontarsi con principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, non pure con norme diverse da questi.
[7] Fa, tuttavia, notare E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, relazione alle nostre Giornate, in paper, § 2, come a tutt’oggi i giudici non abbiano azionato il giudizio di costituzionalità ex art. 117, I c., per la supposta violazione di trattati diversi dalle Carte dei diritti (e, segnatamente, della CEDU), preferendo far utilizzo del canone della specialità allo scopo di assicurare la prevalenza dei trattati stessi.
[8] … e viene di pensare, però, allo stesso giudice costituzionale.
[9] … per il tramite della legge che ha dato esecuzione alla Convenzione “nella parte in cui…”.
[10] Questa soluzione è stata da me teorizzata in più scritti, a partire da Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto e E. Rossi, Giappichelli, Torino 2011, 149 ss., spec. 168 ss.
[11] Il canone della tutela più intensa – rileva E. Lamarque, op. ult. cit., § 3 – è da considerare valevole anche al piano dei rapporti tra l’ordinamento interno e l’ordinamento dell’Unione, pur nella diversità delle tecniche a mezzo delle quali sono ripianate le antinomie tra di essi riscontrabili rispetto a quelle esistenti tra l’uno ordinamento e la CEDU. È, in fondo, quanto io stesso vado dicendo da tempo a riguardo della non opponibilità per sistema dei “controlimiti” all’ingresso in ambito interno del diritto dell’Unione, gli stessi principi fondamentali (o, meglio, alcuni di essi) potendosi trovare costretti a farsi da canto davanti a norme “eurounitarie” – come a me piace chiamarle – che si dimostrino ancora più adeguate ad offrire l’ottimale servizio, alle condizioni oggettive di contesto, ai valori di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità della persona umana) per come fanno “sistema” in relazione alle esigenze di un caso dato.
[12] … in Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in www.rivistaaic.it, 3/2012, § 3.
[13] Tornando a trattare di siffatta, spinosa (e, a mia opinione, non definitivamente chiusa) questione, E. Lamarque, op. ult. cit., § 2, giudica “molto saggia” l’opzione fatta dalla Consulta con l’avocare a sé tutti i casi di possibile contrasto tra norme convenzionali e norme interne di grado primario.
[14] Non dispongo di dati certi al riguardo ma ho l’impressione che la giurisprudenza comune tardi ancora oggi a prendere consapevolezza delle straordinarie opportunità che le sono offerte facendo un uso “forte” della Carta di Nizza-Strasburgo nella quotidiana amministrazione della giustizia cui è chiamata (così pure E. Lamarque, op. et loc. ult. cit., ma con diversa valutazione del fenomeno).
[15] Indicazioni di giurisprudenza, da ultimo, in M. Pacini, Lussemburgo e Karlsruhe a duello sull’applicabilità della Carta UE, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, Osservatorio, settembre 2013.
[16] … se non altro a motivo del carattere ormai risalente della legge di esecuzione della Convenzione. È appena il caso, nondimeno, di osservare che questa circostanza non si ha per altre Carte di fresca formazione.
[17] Una eventualità, questa, invero non di frequente riscontro e, ciò nondimeno, non scartabile a priori.
[18] Che le antinomie risolte a mezzo dello schema dell’abrogazione, diversamente da quelle che danno luogo ad annullamento, siano meramente apparenti è argomentato nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Giappichelli, Torino 2009, 25 ss.
[19] Segnalo, a questo riguardo, una recente, interessante pronunzia del Tribunale di Roma, I Sezione Civile, del 23 settembre 2013, con la quale è stato accolto il ricorso presentato dai coniugi Costa e Pavan ex art. 700 c.p.c. volto a dar seguito immediato alla pronunzia della Corte di Strasburgo, II Sez., del 28 agosto 2012, confermata dalla Grande Camera l’11 febbraio 2013, che dà loro ragione per ciò che concerne la sottoposizione della donna alle procedure di fecondazione in vitro con impianto dei soli embrioni sani, in deroga a quanto al riguardo previsto dalla legge n. 40 del 2004 [in argomento, può, volendo, vedersi la mia nota, dal titolo Spunti di riflessione in tema di applicazione diretta della CEDU e di efficacia delle decisioni della Corte di Strasburgo (a margine di una pronunzia del Trib. di Roma, I Sez. Civ., che dà “seguito” a Corte EDU Costa e Pavan), in www.diritticomparati.it, 8 ottobre 2013 e in Consulta Online; quanto, poi, al divieto di fecondazione eterologa, che – come si sa – ha animato un fitto dibattito, per tutti, v. S. Agosta, Bioetica e Costituzione, I, Le scelte esistenziali di inizio-vita, Giuffrè, Milano 2012, e, ora, AA.VV., La fecondazione vietata. Sul divieto legislativo di fecondazione eterologa, a cura di A. Cossiri e G. Di Cosimo, Aracne, Roma 2013, e G. Repetto, “Non di sola CEDU …”. La fecondazione assistita e il diritto alla salute in Italia e in Europa, in corso di stampa in Dir. pubbl.].
[20] … per le ragioni che mi sono sforzato di argomentare nel mio scritto da ultimo cit.
[21] … persino, come si rileva ancora nel mio scritto ora richiamato, nel caso che la norma convenzionale non appaia dotata dell’attitudine ad essere portata ad immediata applicazione, presentandosi la “direttiva” impartita dal giudice europeo a mo’ di “additiva di principio” che chiama, a un tempo, il legislatore a darvi l’opportuno svolgimento normativo e il giudice, per l’intanto, a desumere dal “principio” la regola buona per il caso.
[22] Fa, da ultimo, richiamo alla tecnica in parola anche E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 3. Una recente messa a punto del rilievo assunto dal diritto convenzionale nell’esperienza giudiziale è in AA.VV., The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law. An Italian Perspective, a cura di G. Repetto, Intersentia, Cambridge-Antwerp-Portland 2013. Fa, nondimeno, ad oggi difetto un organico, sistematico monitoraggio della giurisprudenza di diritto interno – impresa, peraltro, si conviene, improba – al fine di stabilire il grado effettivo di penetrazione del diritto convenzionale vivente in ambito interno, anche per effetto della tecnica decisoria di cui si fa ora parola nel testo.
[23] Così nel mio CEDU, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei sistemi”, in Consulta Online, 19 aprile 2013, § 4.
[24] Da ultimo, anche E. Lamarque, op. ult. cit., § 2, rammenta che il riferimento ai diritti delle Carte di origine esterna “è poco più di un artificio retorico per rendere più ricca e convincente la motivazione della decisione” del giudice nazionale.
[25] Sulle mutue implicazioni che tra i due principi fondamentali in parola si riscontrano, v., sopra tutti, G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2009; v., inoltre, utilmente, C. Salazar, I princìpi in materia di libertà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura, in corso di stampa, spec. ai §§ 10 e 11, e, in prospettiva giusfilosofica, M. Zanichelli, Il valore dell’uguaglianza nella prospettiva del diritto, in La società degli individui, 3/2011, 33 ss.
[26] L’uno, pur riferendosi nel suo primo comma alle norme internazionali consuetudinarie, cui è assicurato rango “paracostituzionale”, può infatti parimenti valere – ne ha convenuto la stessa giurisprudenza costituzionale – anche per le norme pattizie, laddove si dimostri la loro sostanziale coincidenza (ciò che, in materia di riconoscimenti di diritti fondamentali, può affermarsi per più di un caso), mentre, quanto al secondo comma, nel quale è data protezione alle norme internazionali specificamente riguardanti la condizione dello straniero in Italia, può esso pure essere in più d’una circostanza evocato in campo a tutela dei diritti fondamentali del non cittadino. Quanto poi all’art. 11, nel quale la giurisprudenza ha – come si sa – rinvenuto la garanzia della osservanza del diritto dell’Unione europea, si è escluso (con le sentenze “gemelle” del 2007 e successive) che esso possa offrire altresì “copertura” alla CEDU. Una presa di posizione, questa, apparsa però a molti autori troppo rigida e piuttosto meritevole di complessivo ripensamento.
[27] Della dignità come valore “supercostituzionale” si è iniziati a discorrere a partire da A. Ruggeri – A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss., cui si è dato svolgimento in altri scritti. Si è, da ultimo, discostato da questa indicazione S. Rossi, Salute mentale e dignità della persona: profili di un dialogo costituzionale, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, Università di Roma Tre 20 settembre 2013, in www.gruppodipisa.it, spec. al § 5, muovendo dall’assunto secondo cui la dignità sarebbe per intero rimessa, in ordine alla sua definizione ed al complessivo apprezzamento, all’autodeterminazione di ciascun soggetto; un’idea avverso la quale, tuttavia, possono, volendo, vedersi i rilievi che sono nel mio Dignità versus vita?, in www.rivistaaic.it, 1/2011.
[28] In prospettiva di riforma, potrebbe al riguardo tornare utile la previa consultazione del giudice europeo da parte del giudice nazionale, così come prevista dal protocollo 16 di fresca approvazione e che – come si sa – potrebbe a breve entrare in vigore (diciamo, una sorta di rinvio pregiudiziale, ad imitazione di quanto si ha nei rapporti col giudice dell’Unione, ma di grado minore, siccome privo di effetti vincolanti). Staremo ad ogni buon conto a vedere quali forme l’istituto potrà in concreto assumere (in argomento, ora, R. Conti, Le scelte morali e i diritti delle persone: il ruolo del giudice e del legislatore, relaz. all’incontro su La giustizia davanti ai temi eticamente sensibili, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Roma 25-27 settembre, in paper, § 5.1, a cui opinione lo strumento in parola aprirebbe una prospettiva affascinante ma allo stesso tempo inquietante per la Cassazione, e F. Vecchio, Le prospettive di riforma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tra limiti tecnici e ‘cortocircuiti’ ideologici, in paper, che esprime talune riserve a riguardo della previsione in parola, nel timore delle negative ricadute che se ne potrebbero avere per la funzionalità della Corte, già notevolmente gravata di una mole di lavoro crescente. Dal lato opposto, vanno tuttavia tenuti in conto i non pochi vantaggi che potrebbero aversene al fine della maturazione e diffusione presso le sedi in cui si somministra giustizia di una “cultura dei diritti” connotata da un’ancòra più spiccata, sensibile attenzione nei riguardi della giurisprudenza europea).
[29] La penultima delle pronunzie ora richiamate è parsa a taluno segnare “una tregua nel conflitto” tra la Corte di Strasburgo e il nostro giudice delle leggi, a motivo del sostanziale allineamento giurisprudenziale del secondo rispetto alla prima (così E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 2, di cui è l’espressione testualmente riprodotta); una non coincidente lettura ne dà, però, C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, relaz. al Convegno AIC su Spazio costituzionale e crisi economica, Padova 18 e 19 ottobre 2013, in www.rivistaaic.it, 4/2013, § 6.
[30] Il punto è stato già messo in chiaro da una sensibile dottrina (v., part., E. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 7/2010, 955 ss., spec. 961).
[31] È quanto è, ad es., avvenuto con riferimento alla nota vicenda delle leggi d’interpretazione autentica, giudicate a Strasburgo, in via di principio, inammissibili laddove interferenti con l’amministrazione della giustizia, salvo che non abbiano fondamento in “preminenti ragioni d’interesse pubblico”, ed invece considerate dal nostro giudice costituzionale giustificate nella certezza del diritto (riferimenti, da ultimo e per tutti, in E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., § 3; R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., 216 ss.; A. Valentino, Ancora sulle leggi d’interpretazione autentica: il contrasto tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale sulle cc.dd. “pensioni svizzere”, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, Osservatorio, settembre 2013; C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, cit., § 6).
[32] Ad es., si è soliti dire, la sicurezza della collettività o il bisogno di far quadrare i conti pubblici, in conformità ai vincoli di bilancio imposti dall’Unione europea (a riguardo dei quali, tra i molti altri e di recente, M. Luciani, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in www.astrid-online.it, 3/2013; F. Donati, Crisi dell’euro, governance economica e democrazia nell’Unione europea, in www.rivistaaic.it, 2/2013; A. Cerruti, I poteri pubblici alla prova della governance economico-finanziaria: bilancio e vincoli costituzionali, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, cit., nonché i contributi al Convegno su Decisione di bilancio e sistemi di governo. Vincoli europei e processi nazionali, Genova 11 e 12 ottobre 2013, e C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, cit. Infine, in prospettiva comparatistica, AA.VV., Constitutions in the Global Financial Crisis, A Comparative Analysis, a cura di X. Contiades, Ashgate, Farnham 2013). È stato tuttavia osservato da un’accorta dottrina che dietro l’interesse dell’intera collettività stanno pur sempre i diritti fondamentali dei singoli che la compongono (così, ora, G. Silvestri, I diritti fondamentali nella giurisprudenza costituzionale italiana: bilanciamenti, conflitti e integrazioni delle tutele, in AA.VV., Principi costituzionali, cit.). Ciò che più rileva, ad ogni buon conto, è che nessun interesse costituzionalmente protetto può, in alcun caso o modo, giustificare il sacrificio della dignità della persona umana. Un bene primario, questo, molte volte (ma – ahimè – non sempre) fatto scrupolosamente valere dalla giurisprudenza costituzionale (così, ad es., per ciò che concerne l’eventuale superamento del riparto costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni, talora ammesso a beneficio delle leggi statali, in ragione appunto della salvaguardia di diritti fondamentali e, in ultima istanza, della dignità, e, di contro, decisamente negato per ciò che concerne leggi regionali che a titolo precario assumano di volersi immettere nei campi materiali riservati allo Stato, pur facendo difetto l’esercizio dei poteri di normazione da parte di quest’ultimo: v., nel primo senso, sentt. nn. 10 del 2010 e 62 del 2013 e, nel secondo, sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011).
[33] Il posto, ovviamente, a conti fatti, glielo danno gli operatori (e, segnatamente, i giudici). La qual cosa la dice lunga a riguardo di quell’equilibrio (o squilibrio), di cui tra breve si dirà, al piano dei rapporti tra legislatore e giudici, impegnando nella ricerca delle soluzioni più adeguate a preservarlo (ovvero a porvi rimedio).
[34] Sulla nota, vessata distinzione tra principi e valori, tra i molti altri, v. A. Longo, I valori costituzionali come categoria dogmatica. Problemi e ipotesi, Jovene, Napoli 2007, spec. 136 ss. e 357 ss., ma passim; A. Morrone, Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. dir., Ann., II, t. 2 (2008), 198 ss.; G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna 2008, spec. 205 ss.; G. Silvestri, Dal potere ai princìpi, cit., spec. 35 ss., ma passim; G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna 2010, e, dello stesso A., Principi, ponderazione e la separazione tra diritto e morale. Sul neocostituzionalismo e i suoi critici, in Giur. cost., 1/2011, 965 ss.; L. Mezzetti, Valori, principî, regole, in AA.VV., Principî costituzionali, a cura dello stesso M., Giappichelli, Torino 2011, 1 ss.
[35] … e, tra questi, nei miei Dal caos delle fonti, secondo forma, all’ordine delle norme, secondo valore: note dolenti su un’annosa e spinosa questione, in AA.VV., Gli atti normativi del Governo tra Corte costituzionale e giudici, a cura di M. Cartabia, E. Lamarque e P. Tanzarella, Giappichelli, Torino 2011, 467 ss., e Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in Consulta Online, 22 novembre 2012.
[36] Le stesse Corti europee, pur operando in contesti positivi nei quali è espressamente stabilito il rispetto dei principi fondamentali degli ordinamenti nazionali ed il carattere sussidiario delle Carte di cui esse sono garanti rispetto alla tutela offerta dalle Carte costituzionali (v., in particolare, gli artt. 4 del trattato di Lisbona e 53 della Carta dell’Unione, nonché 53 della CEDU, dietro citt.), tardano a dare concretezza a siffatte previsioni. Se n’è avuta una particolarmente eloquente testimonianza nel noto caso Melloni, nel quale la Corte di giustizia si è dichiarata nel senso dell’incondizionato primato del diritto dell’Unione, a dispetto del principio della più “intensa” tutela che, perlomeno in taluni casi, potrebbe portare alla prevalenza del diritto interno (in realtà, nella circostanza, la soluzione non parrebbe essere scorretta nel merito; ma è, appunto, la dichiarazione di principio che ora importa, col carattere perentorio che la connota a favore del primato del diritto sovranazionale).
[37] Alquanto restìo appare tuttavia al riguardo essere il nostro giudice costituzionale, che nondimeno ha, ancora di recente, fatto utilizzo dello strumento in parola (ord. n. 207 del 2013 e, su di essa, tra gli altri, i commenti di U. Adamo, Nel dialogo con la Corte di giustizia la Corte costituzionale è un organo giurisdizionale nazionale anche nel giudicio in via incidentale. Note a caldo sull’ord. n. 207/2013, in www.forumcostituzionale.it, 24 luglio 2013; V. De Michele, L’ordinanza “Napolitano” di rinvio pregiudiziale Ue della Corte costituzionale sui precari della scuola: la rivoluzione copernicana del dialogo diretto tra i Giudici delle leggi nazionali ed europee, in www.europeanrights.eu, e, ora, C. Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, cit., § 8 e 9).
[38] Intendo qui il termine “Costituzione” in senso materiale e lo faccio dunque valere altresì per le Carte dei diritti che, per il fatto stesso di dare appunto riconoscimento a questi ultimi, sono da intendere quali Costituzioni in senso materiale, della Costituzione stessa riproducendo l’essenza, secondo il mirabile, ad oggi attualissimo, insegnamento consacrato nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789. Le stesse Corti europee, d’altro canto, vanno sempre di più conformandosi quali Corti costituzionali, senza nondimeno abdicare alla loro originaria natura e peculiare funzione, avvalorate dalla loro stessa composizione (in senso proprio) “internazionale” (su questa tendenza, per tutti, O. Pollicino, che ne ha trattato a più riprese e con fini svolgimenti teorici: tra gli altri suoi scritti, v., part., Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Giuffrè, Milano 2010, e O. Pollicino – V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti – V. Piccone, Aracne, Roma 2010, 125 ss.).
[39] Si pone, a questo riguardo, la questione, altrove discussa e sulla quale pure si tornerà sul finire di questa esposizione, relativa alla opportunità di dare esecuzione alle Carte dei diritti non già con legge comune bensì con legge costituzionale: non tanto – si badi – allo scopo di garantire ancora meglio l’osservanza delle previsioni in esse contenute, già sufficientemente assicurata dall’art. 117, I c., e, più (e prima) ancora, dagli artt. 2 e 3; piuttosto, si tratta di far luogo ad un vaglio ancora più ponderato ed approfondito al momento di immettere tali documenti normativi in ambito interno, quale si ha per effetto della procedura aggravata stabilita per la venuta alla luce degli atti di forma costituzionale.
[40] Ho iniziato a discorrerne nel mio Sovranità dello Stato e sovranità sovranazionale, attraverso i diritti umani, e le prospettive di un diritto europeo “intercostituzionale”, in Dir. Pubbl. comp. ed eur., 2/2001, 544 ss. e ne ho precisato i tratti maggiormente salienti ed espressivi in altri luoghi di riflessione scientifica.
[41] Non si perda di vista la circostanza per cui gli stessi giudici costituzionali entrano in campo solo in seconda battuta, laddove aditi, e per il modo con cui lo sono, dai giudici comuni (non poche volte – come si sa – questioni di costituzionalità “giuste” non ricevono il loro coerente seguito presso i giudici costituzionali a motivo del fatto che esse sono mal poste, obbligando pertanto questi ultimi a far luogo alla loro reiezione). Dal loro canto, poi, le Corti europee, per un verso, sono esse pure sollecitate dai giudici comuni a pronunziarsi (e mi riferisco adesso specificamente ai rinvii pregiudiziali alla Corte dell’Unione), mentre, per un altro verso, possono trovarsi a dover rimediare a lacune e carenze complessive della tutela offerta ai diritti da parte dei giudici nazionali (e questo vale soprattutto per la Corte di Strasburgo). Sono, insomma, sempre questi ultimi, nel bene e nel male, a determinare l’esito delle questioni cui danno vita. Con riguardo al ruolo giocato dai giudici comuni, specie nei loro rapporti col giudice costituzionale, v., per tutti, E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2012. Utili indicazioni possono poi trarsi da AA.VV., Il ruolo del giudice nel rapporto tra i poteri, a cura di G. Chiodi e D. Pulitanò, Giuffrè, Milano 2013. Con specifico riferimento al piano dei rapporti tra diritto interno e CEDU, v. ancora E. Lamarque, Las relaciones entre los órdenes nacional, supranacional e internacional en la tutela de los derechos, cit., spec. al § 4, che discorre di un “clima di fraterna condivisione dei compiti e delle responsabilità” tra giudici comuni e giudice costituzionale (affermazione che trovo francamente un po’ forzata sol che si considerino i non sporadici casi di “ribellione” di alcuni giudici alle indicazioni date dalla Corte costituzionale, specificamente per ciò che concerne la “non applicazione” delle leggi contrarie alla CEDU operata ora alla luce del sole ed ora abilmente mascherata per via interpretativa, a mezzo di forzate riletture dei testi di legge o della stessa Convenzione). Per una vigorosa sottolineatura del ruolo dei giudici al piano suddetto, v., poi, sopra tutti, R. Conti, che vi ha dedicato studi numerosi ed approfonditi, tra i quali rammento qui La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Aracne, Roma 2011; CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., e Le scelte morali e i diritti delle persone, cit. In prospettiva comparatistica, infine, E. Ceccherini, L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice, in Dir. Pubbl. comp. ed eur., II/2013, 467 ss.
[42] … “soggetto soltanto alla legge”, secondo la lapidaria, particolarmente espressiva, formula della nostra Carta costituzionale, nondimeno bisognosa di essere riletta in considerazione del presente contesto nel quale la legge non è ormai più la fonte delle fonti né – come si è venuti dicendo – tale è, invero, sempre e comunque, la stessa Costituzione, con la quale fanno “sistema” le Carte dei diritti e le altre fonti di origine esterna che, in modo sempre più consistente ed incisivo, si immettono in ambito interno ed ivi spiegano i loro effetti al servizio dei più pressanti bisogni dell’uomo.
[43] Va sempre di più diffondendosi oggi il convincimento che la vera posta in palio non sia questa o quella regolazione ma, soprattutto, a chi spetti farvi luogo, vale a dire appunto quale assetto si voglia in merito al rapporto tra potere politico e potere giudiziario [notazioni di vario segno al riguardo, ora, in AA.VV., La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: “casi difficili” alla prova, a cura di M. Cavino e C. Tripodina, Giuffrè, Milano 2012; utili indicazioni possono poi aversi, sia pure in un contesto teorico-ricostruttivo non coincidente con quello di qui, da R. Romboli, I diritti fondamentali tra “diritto politico” e “diritto giurisprudenziale”: qualche osservazione in margine alla vicenda Englaro, in Studi in onore di L. Arcidiacono, VI, Giappichelli, Torino 2010, 2831 ss.; M. Luciani, Funzioni e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in www.rivistaaic.it, 3/2012; v., poi, i contributi alle nostre Giornate, spec. alla terza sessione dedicata a Las relaciones juez-legislador en la garantía de los derechos fundamentales (con rell. di M. Luciani, L.A.D. Araujo e M. Revenga, relaz. di sintesi di P. Caretti ed interventi di G.V. Marcílio Pompeu-C. Fonseca Maia, R. Romboli, G. Azzariti e di altri ancora); v., inoltre, AA.VV., Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, cit., e, con specifico riferimento alla vessata questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, I. Massa Pinto, Il potere di definire la sostanza veicolata dalla parola «matrimonio» tra politica e giurisdizione: note in margine alla recenti sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, in www.costituzionalismo.it, 2/2013, 22 luglio 2013. Infine, F. Colombi, Gli strumenti di garanzia dei diritti fondamentali fra Costituzione e CEDU: riserva di legge e base legale. Riflessioni a margine di un obiter dictum di Corte cost. sent. 8 ottobre 2012, n. 230, in www.rivistaaic.it, 3/2013, e D. Falcinelli, “In nome della legge penale italiana”. Giudici d’Europa, custodi del diritto penale (appunti sulla sentenza della Corte costituzionale n. 230/2012), in www.federalismi.it, Focus Human Rights, 3/2013].
La tesi che qui si tenterà di argomentare è che tutti sono chiamati, nella tipicità del ruolo proprio di ciascuno, a spendersi al servizio dei diritti.
[44] Faccio al riguardo richiamo al solo M. Cappelletti, Giudici legislatori?, Giuffrè, Milano 1984.
[45] È appena il caso di precisare che le notazioni che si vanno ora facendo restano circoscritte al solo campo qui specificamente rilevante, quello della tutela, normativa e giudiziaria, dei diritti fondamentali, laddove ritardi e complessive carenze della legislazione si avvertono in una sensibile misura (forse perché, o anche perchè, come fa ora notare M. Luciani, Legislatore e giudici nella protezione dei diritti fondamentali, relaz. alle nostre Giornate, cit., § 2, il legislatore è naturalmente portato a sfuggire alle proprie responsabilità “quando gli è troppo scomodo affrontarle”); in altri campi di esperienza, di contro, la legislazione interviene (alle volte, in modo massiccio), in forme tuttavia tali da portare non di rado al medesimo esito che assai spesso si ha in presenza di un numero eccessivo di disposizioni di legge che confusamente e senza costrutto si accavallino, disorientando gli operatori e, però, allo stesso tempo, sovraccaricandoli di responsabilità che non dovrebbero competergli (ancora M. Luciani, ivi, in nt. 12, opportunamente rammenta che “paradossalmente, normare troppo può avere effetti equivalenti a non normare affatto, perché l’eccesso di confusione normativa mette nelle mani dei giudici, comunque, un enorme margine di discrezionalità”).
[46] Ci rammenta, ancora di recente, un sensibile studioso, G. Azzariti, Assetti di potere nella trasformazione della nostra forma di governo: le istituzioni di garanzia nel vuoto della politica, in www.costituzionalismo.it, 22 luglio 2013, essere “regola eterna” quella per cui “nel vuoto della politica le istituzioni di garanzia tendano ad assumere poteri governanti, supplendo alle mancanze dei soggetti titolari”.
[47] Riprendo qui una nota espressione di G. Silvestri, coniata con riferimento alle decisioni più di frequente chiamate “manipolative” del giudice costituzionale: v., dunque, il suo Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Scritti su la giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, I, Cedam, Padova 1985, 755 ss.
[48] … qual è quella che, ad es., ha fatto (e fa) nella materia penale e processuale (indicazioni, da ultimo, in G. Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta: note sparse a margine di Corte cost. n. 210 del 2013, in www.penalecontemporaneo.it, 1 ottobre 2013).
[49] In una certa misura (e per un certo verso), è inevitabile che così sia, dal momento che anche le “analisi” in parola si svolgono pur sempre ad un piano generale-astratto, che è ben diverso da quello, concreto per antonomasia, nel quale prendono corpo le pronunzie dei giudici, varie così come varî sono i casi della vita, con le sofferenze umane che non di rado in essi si rendono palesi e che si sottopongono ai giudici stessi perché su di esse esercitino il loro ufficio ispirato ad equità e giustizia. Questo rilievo sembra poter valere anche per la c.d. “valutazione delle politiche pubbliche” che, secondo una proposta avanzata dalla Commissione per le riforme costituzionali (v. il punto 17, cap. II, della relazione finale, esitata il 17 settembre 2013), dovrebbe rientrare tra i nuovi compiti delle assemblee parlamentari (e, in ispecie, del Senato), quale forma peculiare del controllo parlamentare ed anche in vista dell’ulteriore produzione legislativa.
[50] Rilevano, a tal proposito, anche talune spinte che vengono dalle forze politiche, alla perenne ricerca di reciproci equilibri maggiormente soddisfacenti rispetto al passato.
[51] Una speciale menzione va al riguardo fatta ai decreti legislativi c.d. “integrativi e correttivi”, prefigurati già al momento della concessione della delega da parte delle Camere e dei quali si è avuto (e si ha) – come si sa – largo utilizzo (sulle più salienti esperienze delle deleghe, da tempo fatte oggetto di monitoraggio da parte di molti autori, v., da ultimo, A. Alberti, La delegazione legislativa tra modelli ed esperienze costituzionali, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, cit.).
[52] Non vale, dunque, per i giudici di merito, salvo che l’attitudine alla “universalizzazione” non la s’intenda in assai larga (e però impropria) accezione e ci si riferisca, pertanto, alla forza di trascinamento di cui sono provviste le più argomentate ed innovative decisioni, che sollecitano alla loro diffusa imitazione, sì da convertirsi, in un lasso temporale più o meno ridotto, in un vero e proprio “diritto vivente”.
Per altro verso, va nondimeno avvertito che le stesse decisioni del giudice della legittimità sono non di rado espressive di orientamenti nel segno della discontinuità, anche rispetto ad un non remoto passato; ed è proprio su siffatto loro modo di essere (anche se non solo su di esso) che si fa leva per tenere nettamente distinta la vis prescrittiva espressa dalla giurisprudenza in genere rispetto a quella che è propria della legge, secondo quanto trovasi, ancora di recente, affermato in Corte cost. n. 230 del 2012 (dov’è un apparato di concetti, tralaticiamente ripetuto, per più d’un verso meritevole di critico ripensamento). Ciò che, ad ogni buon conto, importa è il ben diverso carattere servente, a un tempo, la certezza e la uniforme applicazione del diritto che è proprio, rispettivamente, delle pronunzie di un giudice “unico” e di quelle di un giudice non “unico”.
[53] Non discuto qui della tesi, altrove argomentata, favorevole a riconoscere generale efficacia, sia pure per una sua peculiare accezione, altresì alle decisioni di rigetto del giudice delle leggi; mi limito, dunque, a riproporre la comune opinione e, però, allo stesso tempo, a fermare l’accento sulle regolarità, sia processuali che di merito, riscontrabili nella giurisprudenza. Regolarità alle quali, proprio con riferimento a quelle cui dà vita il giudice costituzionale, va assegnato uno speciale rilievo, sol che si pensi al compito, specificamente (pur se non esclusivamente) su di esso gravante, di somministrare con le sue pronunzie certezze di diritto costituzionale, le quali presuppongono una sia pur relativa ma tendenziale stabilità degli indirizzi dal giudice stesso formati. Un giudice costituzionale che, in presenza del medesimo caso (nell’insieme degli elementi oggettivi, fattuali e normativi, che lo contrassegnano), dovesse emettere verdetti reciprocamente divaricati, persino di segno opposto, a un tempo tradirebbe la “giurisdizionalità” (sia pure nella originale e peculiare accezione sua propria) della funzione esercitata e mostrerebbe il suo vero volto, grintoso, di un potere costituente permanente, Constitutioni solutus, per il fatto di offrire ogni volta letture talmente diverse della Costituzione stessa da renderla, a conti fatti, inconoscibile, inservibile nella sua tipica funzione prescrittiva, idonea a valere in primo luogo proprio nei riguardi del suo massimo garante [maggiori ragguagli sul punto, di cruciale rilievo, possono, volendo, aversi dal mio Il processo costituzionale come processo, dal punto di vista della teoria della Costituzione e nella prospettiva delle relazioni interordinamentali, in Rivista di diritto costituzionale, 2009, 125 ss., nonché in www.gruppodipisa.it, 28 dicembre 2010; cfr. al mio punto di vista, in particolare, quello di R. Romboli, quale manifestato, con dovizia di argomenti, in molti scritti, e tra questi Il diritto processuale costituzionale: una riflessione sul significato e sul valore delle regole processuali nel modello di giustizia costituzionale previsto e realizzato in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011, 2995 ss. Notazioni di vario segno, in prospettiva comparata, in AA.VV., Diritto processuale costituzionale. Omaggio italiano a H. Fix-Zamudio per i suoi 50 anni di ricercatore di diritto, a cura di L. Mezzetti e E. Ferrer Mac-Gregor, Cedam, Padova 2010; AA.VV., Derecho Procesal Constitucional Americano y Europeo, I e II, a cura di V. Bazán, AbeledoPerrot, Buenos Aires 2010, e AA.VV., En torno al derecho procesal constitucional (un debate abierto y no concluido), a cura di D. García Belaunde, Editorial Porrúa, México 2011].
[54] Non posso qui indugiare, come pure vorrei, sulla questione, teoricamente assai complessa, relativa, per un verso, al modo con cui distinguere una consuetudine da una convenzione (specificamente per il caso che la prima, dopo essere stata lungamente osservata, sia quindi abbandonata) e, per un altro verso, a come apprezzare le vicende nel tempo delle consuetudini, specie per l’aspetto delle loro positive innovazioni.
[55] Quali fonti del diritto (se non pure nella natura giuridica, negli effetti) sono poi state di recente trattate, sia pure sotto un peculiare aspetto, anche le decisioni della Corte di Strasburgo, assimilate dal nostro giudice costituzionale allo ius superveniens. Si è, pertanto, giustificata, a seguito della loro adozione, la restituzione alle autorità remittenti delle questioni di costituzionalità che abbiano fatto riferimento alla CEDU per una riconsiderazione della loro rilevanza [ord. n. 150 del 2012, e, su di essa, tra i molti commenti, E. Malfatti, Un nuovo (incerto?) passo nel cammino “convenzionale” della Corte, e A. Morrone, Shopping di norme convenzionali? A prima lettura dell’ordinanza n. 150/2012 della Corte costituzionale, entrambi in www.forumcostituzionale.it, rispettivamente, 29 giugno e 19 luglio 2012; G. Repetto, Corte costituzionale, fecondazione eterologa e precedente CEDU “superveniens”: i rischi dell’iperconcretezza della questione di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 3/2012, 2069 ss.; V. Magrini, La scelta della restituzione degli atti nell’ordinanza della Corte costituzionale n. 150/2012; B. Liberali, La procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti esterni alla coppia fra legislatore, giudici comuni, Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo; I. Pellizzone, Sentenza della Corte europea sopravvenuta e giudizio di legittimità costituzionale: perché la restituzione degli atti non convince. Considerazioni a margine dell’ord. n. 150 del 2012 della Corte costituzionale, tutti in www.rivistaaic.it, 3/2012; U. Salanitro, Il dialogo tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale in materia di fecondazione eterologa, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 636 ss.; R. Romboli, Lo strumento della restituzione degli atti e l’ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte Edu come ius superveniens e la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in Consulta Online, 26 febbraio 2013, e pure ivi, S. Agosta, La Consulta nel gioco di specchi riflessi tra Corti sopranazionali e giudici comuni (in tema di protezione giuridica della vita nascente), 23 luglio 2012, nonché, volendo, anche il mio La Corte costituzionale, i parametri “conseguenziali” e la tecnica dell’assorbimento dei vizi rovesciata (a margine di Corte cost. n. 150 del 2012 e dell’anomala restituzione degli atti da essa operata con riguardo alle questioni di costituzionalità relative alla legge sulla procreazione medicalmente assistita), 12 giugno 2012. Infine, R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., 253 ss.].
[56] V., spec., sent. n. 210 e ord. n. 235 del 2013 (e, su di esse, per un primo commento, F. Viganò, La Corte costituzionale sulle ricadute interne della sentenza Scoppola della Corte EDU, e Prosegue la ‘saga Scoppola’: una discutibile ordinanza di manifesta inammissibilità della Corte costituzionale, entrambe in www.penalecontemporaneo.it, rispettivamente 19 e 26 luglio 2013, e, pure ivi, G. Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta, cit.).
[57] Una opportuna sottolineatura di quest’ultimo punto, stranamente dimenticato dai critici ad oltranza dello “Stato giurisdizionale”, è ora in R. Conti, Le scelte morali e i diritti delle persone, cit., spec. al § 4.1.
[58] Sui tormentati rapporti tra bioetica e diritto costituzionale, fatti oggetto di una ormai imponente produzione di scritti e nondimeno bisognosi ancora di essere opportunamente chiarificati, richiamo qui solo, in aggiunta alla corposa relaz. da ultimo cit. di R. Conti, tra gli studi monografici più di recente apparsi, quelli di S. Agosta, Bioetica e Costituzione, I, Le scelte esistenziali di inizio-vita, cit., e II, Le scelte esistenziali di fine-vita, Giuffrè, Milano 2012, e A. Falcone, La tutela del patrimonio genetico umano fra Costituzione e diritti. Verso la formazione di un corpus iuris sul menoma umano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. Infine, P. Veronesi, Costituzione e bioetica, in AA.VV., Per una consapevole cultura costituzionale. Lezioni magistrali, a cura di A. Pugiotto, Jovene, Napoli 2013, 67 ss.
[59] Si pensi, per tutte, alle questioni di fine-vita, attorno alle quali si è, da noi come altrove, assistito ad animate e tuttora non sopite discussioni che hanno coinvolto, unitamente alla cultura giuridica in tutte le sue espressioni, le forze politiche e la pubblica opinione (su di che, v., nuovamente, il II vol. dell’opera sopra cit. di S. Agosta).
[60] Ancora una volta, un banco di prova particolarmente attendibile è dato dalla giurisprudenza, che si è non di rado trovata costretta a rendere flessibili, riscrivendole, discipline legislative connotate da eccessiva rigidità.
[61] Non indugio ora sul carattere assai incerto e labile della linea divisoria tra siffatti tipi di norme, da tempo – come si sa – rilevato dalla più accorta dottrina, una linea la cui esistenza è tuttavia, perlomeno in alcuni suoi tratti maggiormente salienti, ictu oculi confermata.
[62] Nulla, naturalmente, esclude che siffatta opera di interpretazione “quasi-autentica” del dettato costituzionale possa risultare infedele, le leggi costituzionali non sottraendosi – come si sa – in astratto alla verifica della loro conformità rispetto ai principi fondamentali dell’ordinamento.
Di qui due conclusioni, alle quali a mio modo di vedere dovrebbe prestarsi la dovuta attenzione.
La prima è che nessun atto giuridico, foss’anche una legge costituzionale, può qualificarsi in senso proprio come interpretativo in modo autentico dei principi fondamentali. Come si è tentato di mostrare in altri luoghi, se è vero, infatti, che l’interpretazione autentica compete all’atto che, potendo astrattamente innovare all’atto interpretato, ne può altresì fissare autoritativamente il senso, se ne ha che nessun atto espressivo di potere costituito può dare la giusta, indiscutibile, interpretazione dei principi fondamentali, giusta la tesi secondo cui questi ultimi resistono a qualsivoglia innovazione normativa, quanto meno a quelle volte a ridurne la portata ed a determinarne il complessivo impoverimento.
La seconda è che l’ipotesi di un eventuale annullamento di legge costituzionale, già di per sé alquanto remota, appare viepiù difficilmente prospettabile con riferimento alle leggi di cui si fa ora parola nel testo che, a motivo dell’ampiezza strutturale dell’enunciato costituzionale cui si riferiscono, dispongono di ambiti materiali essi pure assai ampî entro i quali potersi dispiegare. Le leggi costituzionali, poi, proprio in ragione della procedura stabilita per la loro formazione, sembrano essere sorrette da una presunzione “rafforzata” di compatibilità rispetto ai principi, al cospetto di quella di cui pure godono le leggi comuni; e, soprattutto nel caso che esse dovessero essere approvate a larga o larghissima maggioranza ovvero confermate dall’eventuale consultazione popolare, sembra invero assai improbabile che il giudice costituzionale trovi in sé la forza per caducarle.
[63] Per vero, l’incontro in parola non è espressamente prescritto né può, dunque, escludersi che si diano, in una particolare congiuntura, rapporti tra le forze politiche rappresentate in Parlamento tali che le sole forze di maggioranza possano portare all’adozione di una legge costituzionale. Un largo consenso, tuttavia, si riscontra da noi in dottrina a riguardo del fatto che l’intesa raggiunta alla Costituente in sede di confezione della Carta debba altresì rinnovarsi per la sua modifica e, in genere, per l’avvento di una nuova disciplina di forma costituzionale. E, seppure ciò possa non aversi, così come invero non si è avuto, per talune, importanti innovazioni costituzionali (sopra tutte, quella che ha determinato nel 2001 la riscrittura dell’intero Titolo V della Parte II), non sembra immaginabile per la definizione dei diritti fondamentali, vecchi o nuovi che siano.
[64] Naturalmente può darsi il caso che l’incontro tra le forze politiche non si riesca a raggiungere, proprio per il difetto delle consuetudini culturali suddette. Considero tuttavia assai meno grave questo inconveniente rispetto all’altro, di segno opposto, che potrebbe aversi a seguire la tesi, come si sa largamente accreditata, favorevole ad una disciplina dei nuovi diritti in via diretta ed esclusiva tramite legge comune. Trovo francamente inquietante che su questioni – è proprio il caso di dire (e mi scuso per il bisticcio di parole) – di vitale rilievo, quali quelle relative all’inizio o alla fine della vita, possa venire alla luce una regolazione a colpi di maggioranza, magari dalla stessa maggioranza subito appresso ulteriormente innovata, secondo occasionali convenienze, legate agli equilibri che si fanno e rifanno senza sosta in ambiente politico.
[65] Particolarmente sottolineato da una sensibile dottrina l’apporto che le Regioni (e le autonomie territoriali in genere) possono offrire alla tutela dei diritti fondamentali. Le considerazioni svolte nel testo, con la distinzione in esse rimarcata dei ruoli rispettivamente giocati dalla legge costituzionale e dalle leggi comuni, dovrebbero tranquillizzare quegli autori che si sono dichiarati risolutamente contrari ad ammettere che possa darsi una disciplina regionale (statutaria o legislativa) a salvaguardia dei diritti stessi.
[66] Maggiori ragguagli a riguardo della distinzione, ora ripresa nel testo, tra riconoscimento e tutela normativa dei diritti fondamentali possono, volendo, aversi dal mio La tutela “multilivello” dei diritti fondamentali, tra esperienze di normazione e teorie costituzionali, in Pol. dir., 3/2007, 317 ss.
[67] Così, invece, ancora di recente, M. Luciani, Funzioni e responsabilità della giurisdizione, cit., spec. al § 4, ma passim, e, dello stesso, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in www.rivistaaic.it, 1/2013, e Legislatore e giudici nella protezione dei diritti fondamentali, cit., spec. al § 4; diversamente, A. Gusmai, Ermeneutica e interpretazione costituzionale nell’effettività del diritto, relaz. al Seminario su Lo studio delle fonti del diritto e dei diritti fondamentali in alcune ricerche dottorali, cit.
[68] Il riferimento è, com’è chiaro, a F. Modugno, L’invalidità della legge, I e II, Giuffrè, Milano 1970, nonché in altri scritti.
[69] … e, perciò, di un’attività che è, in nuce, normativa, ancorché con effetti circoscritti al caso, quale in buona sostanza si ha, ad es., con riguardo alle additive di principio che, in attesa dell’intervento riparatore del legislatore, sollecitato a varare le regole idonee a dare svolgimento al principio somministrato dal giudice costituzionale, vengono per l’intanto “attuate” dai giudici.
[70] Sulla questione, come si sa ampiamente discussa, di recente e per tutti, v. F. Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli 2011; R. Conti, CEDU, Costituzione e diritti fondamentali, cit., spec. 241 ss. Da una prospettiva di più ampio respiro, su L’autoapplicabilità delle norme. Un percorso costituzionale, v. lo studio monografico di A. Guazzarotti, Jovene, Napoli 2011.
[71] Molto invero potrebbe discutersi (ma in altro luogo a ciò specificamente dedicato) circa la correttezza di siffatta qualifica, che evoca talune formidabili questioni della teoria costituzionale che investono in nuce la funzione legislativa e gli atti che ne costituiscono esercizio. Per ciò che, in modo appena accennato, se ne può qui dire, a me pare che, avuto riguardo non già alla forma bensì alla sostanza delle leggi, occorra in realtà distinguere in base a ciò che esse contengono e soprattutto al modo con cui è forgiata la struttura nomologica dei singoli atti (a mezzo di statuizioni fatte a maglie ora più ed ora meno larghe), solo per alcuni atti dunque potendo valere la categoria della “discrezionalità”, fatta nondimeno oggetto di corpose precisazioni teoriche rispetto all’uso che se ne fa al piano dell’amministrazione, al quale – come si sa – essa ha rinvenuto il terreno elettivo per la propria affermazione. D’altro canto, anche gli enunciati costituzionali non sono fatti tutti allo stesso modo e possono dunque esprimere vincoli nei riguardi del legislatore ora solo negativi, ora invece positivi, secondo una scala di ampiezza e d’intensità internamente assai varia.
[72] … senza, peraltro, escludere a quest’ultimo riguardo i benefici effetti che possono sortire dall’estensione del “dialogo” stesso a Corti non europee (su di che, da ultimo, T. Groppi – A.M. Lecis Cocco-Ortu, Le citazioni reciproche tra la Corte europea e la Corte interamericana dei diritti dell’uomo: dall’influenza al dialogo?, in www.federalismi.it, 19/2013).