Rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE e procedimenti disciplinari nazionali nell’ambito della crisi del rule of law: CGUE, sentenza del 23 novembre 2021, C-564/19, IS
Con la sentenza dello scorso 23 novembre in causa C-564/19, IS, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta sulla questione dell’incompatibilità con il diritto europeo di procedimenti disciplinari a carico di giudici che abbiano operato un rinvio pregiudiziale, allorché un organo giudiziario di vertice (in questo caso la Kúria ungherese) abbia dichiarato illegittimo tale rinvio.
Nel caso in esame, il giudice a quo, giudice presso il Tribunale centrale distrettuale di Pest, investito di un procedimento penale nel quale era imputato un cittadino svedese di origine turca, rimetteva alla Corte di Giustizia alcune questioni fondamentalmente inerenti alle modalità da adottarsi per assicurare l’adeguatezza dell’interpretazione linguistica nel procedimento giurisdizionale. Unitamente a tali questioni, sollevava, però, con la seconda questione pregiudiziale, anche il tema della propria indipendenza, richiamando l’art. 19 TUE e l’art 47 della Carta di Nizza.
Il Procuratore generale impugnava l’ordinanza di rinvio dinanzi alla Kúria, la quale la dichiarava illegittima, dal momento che le questioni sollevate non sarebbero state pertinenti alla soluzione del caso.
Nonostante tale decisione non avesse, di per sé, che un’efficacia dichiarativa, tuttavia, sul presupposto di essa, il Presidente del Tribunale del giudice rimettente apriva un procedimento disciplinare a carico del giudice rimettente, successivamente archiviato.
In ragione di questi sviluppi, il giudice a quo integrava la propria originaria questione pregiudiziale, ponendo due ulteriori questioni. La prima riguardava la compatibilità con il diritto europeo e, segnatamente, con l’art. 267 TFUE della decisione della Kúria; la seconda aveva a oggetto il principio di indipendenza del giudice di cui all’art. 19 TUE e 47 CDFUE e la sua compatibilità con procedimenti disciplinari a carico dei giudici remittenti quali quello del caso di specie.
La Corte, nella propria risposta, muove dalle questioni sollevate per ultime dal giudice del rinvio, affermando l’incompatibilità con il diritto europeo tanto della pronuncia della Kúria, quanto dell’apertura del procedimento disciplinare a carico del giudice a quo.
Quanto al primo punto, la Corte, ha gioco facile ad affermare che le valutazioni operate dalla Kúria relativamente alla rilevanza delle questioni pregiudiziali sono riservate al giudice del rinvio e alla Corte stessa nell’ambito del suo giudizio in ordine alla ricevibilità delle questioni sollevate (cfr. CGUE, Pohotovosť, C-470/12, punto 31 e Cartesio, C-210/06, punti da 93 a 96).
Inoltre, la Corte aggiunge (al punto 73), “l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa se l’esito di un ricorso dinanzi al più alto organo giurisdizionale nazionale potesse avere l’effetto di dissuadere il giudice nazionale, investito di una controversia disciplinata dal diritto dell’Unione, dall’esercitare la facoltà, attribuitagli dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte le questioni vertenti sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione” (cfr. CGUE, Global Starnet, punti da 21 a 26 e Melki e Abdeli, C-188/10, punti da 40 a 57). La Corte rinviene tale efficacia dissuasiva della decisione della Kúria nella circostanza che essa, al netto della sua natura meramente dichiarativa, da un lato potrebbe indurre il giudice rimettente a compromettere l’autorità della sentenza della Corte di Giustizia e a darvi un’attuazione meno che piena; dall’altro, appare sicuramente idonea a dissuadere i giudici nazionali dal sollevare questioni pregiudiziali, i quali potrebbero temere di vedere le proprie sentenze riformate in appello, ovvero di essere sottoposti a procedimenti disciplinari.
Di conseguenza, “il principio del primato impone a un giudice di grado inferiore di disapplicare una decisione del giudice supremo se ritiene che quest’ultima violi le prerogative riconosciutegli dall’articolo 267 TFUE e, di conseguenza, l’efficacia della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali istituita dal meccanismo del rinvio pregiudiziale” (punto 81 della sentenza).
Quanto alla seconda questione, seguendo il suggerimento dell’AG (cfr. le sue conclusioni, punti da 93 a 100), la Corte supera la sua paventata irricevibilità, connessa alla sua apparente natura ipotetica, stante l’archiviazione del procedimento disciplinare a carico del giudice a quo (cfr. CGUE, Miasto Łowicz, cause riunite C-558/18 e 563/18, punti da 45 a 60). La Corte ritiene infatti che le due questioni – quella inerente alla decisione della Kúria e quella relativa al procedimento disciplinare a carico del giudice a quo – siano da considerarsi strettamente connesse. Il giudice del procedimento principale, infatti, chiamato a rendere la propria decisione, dovrà disapplicare la decisione della Kúria e dovrà farlo in piena indipendenza, in particolare senza timore di essere successivamente sottoposto a procedimento disciplinare per tale ragione.
Dichiarata ricevibile la questione, la sua soluzione, nel senso dell’incompatibilità di procedimenti disciplinari quali quello a carico del giudice a quo con l’art. 267 TFUE, è piuttosto semplice: “la mera prospettiva di essere esposti a procedimenti [disciplinari] per il fatto di aver presentato una domanda di pronuncia pregiudiziale o di aver deciso di mantenerla in seguito è tale da pregiudicare l’esercizio effettivo, da parte dei giudici nazionali interessati, della facoltà di adire la Corte e delle funzioni di giudice incaricato dell’applicazione del diritto dell’Unione” (sentenza, punto 90 – v. anche CGUE, Commissione c. Polonia, C-791/19, punti da 215 a 235).
La Corte – si noterà – individua quale parametro del proprio giudizio l’art. 267 TFUE e non anche l’art. 19 TUE, invocato invece nell’ordinanza di rimessione e sul quale si è venuta formando una copiosa giurisprudenza a partire dalla sentenza nel caso dei Giudici portoghesi (per una sintesi recente, v. Ward e Kochenov e Pech). Sotto tale prospettiva, dunque, la sentenza in commento pone in maggior rilievo la questione della piena libertà dello stesso di porsi in dialogo, per il tramite del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, con la Corte di Giustizia rispetto al tema dell’indipendenza del giudice nazionale (presupposto dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione ex art. 19 TUE). I due argomenti certo “si assomigliano” e appaiono entrambi idonei a supportare le conclusioni cui giunge la Corte; tuttavia, se quello svolto dalla Corte risulta più tradizionale e meno intrusivo nelle competenze nazionali (ribadendo il divieto di ostacoli di diritto nazionale alla facoltà dei giudici di effettuare rinvii pregiudiziali), con riferimento all’altro si registrano forte resistenze negli ordinamenti nazionali in cui è in corso la crisi del rule of law: di qui, probabilmente, la scelta – di natura strategica – della Corte di fare affidamento su un argomento meno conflittuale ma parimenti fondato e efficace.
La Corte – si diceva – opera una difesa del rinvio pregiudiziale, strumento per eccellenza di integrazione giuridica tra gli ordinamenti nazionali e quello europeo, in un quadro, quello della crisi del rule of law, di sempre più forti tentativi disgregativi, ben sintetizzati nelle parole di Adam Bodnar, all’epoca Commissario per i diritti umani in Polonia, il quale ha descritto una situazione in cui “an alternative legal space has been created under which the ruling majority can enact unconstitutional laws, […] or discipline and prosecute at will those who articulate positions that do not meet its expectations”.
Vero è che la creazione di uno spazio giuridico alternativo nei termini appena accennati passa anzitutto dalle pronunce delle Corti di vertice, con le quali si esclude l’applicabilità di norme di diritto europeo negli ordinamenti nazionali. Ciò è del tutto evidente in Polonia, ove il Tribunale Costituzionale ha dichiarato ultra vires gli artt. 2 e 19 TUE come interpretati la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di indipendenza della magistratura (e altri analoghi ricorsi risultano pendenti), ma non solo. Infatti, simili sviluppi sono stati registrati anche in Ungheria: da ultimo, la Corte Costituzionale, interrogata dal Ministro della Giustizia circa l’applicabilità nell’ordinamento ungherese della sentenza della CGUE in Commissione c. Ungheria, C-808/18 (in tema di procedure d’asilo), rendeva una decisione sibillina, la quale, se non dichiarava richiamata sentenza inapplicabile nell’ordinamento ungherese, pure sembrerebbe idonea a costituire la base giuridica per il rifiuto, da parte del governo, di darvi attuazione. Analogamente in Romania, ove la Corte Costituzionale ha recentemente riaffermato – sia pure, per ora, solo in un comunicato stampa – la supremazia della Costituzione sul diritto europeo e l’efficacia vincolante delle sue pronunce su tutti i giudici nazionali, anche in ipotesi di contrasto con sentenze rese dalla CGUE nell’ambito di procedimenti pregiudiziali. Ciò a valle di uno “scambio” tra la Corte Costituzionale stessa e la Corte di Giustizia, in cui, andando al cuore della questione, la prima affermava la supremazia della Costituzione sul diritto europeo (v. qui e qui per un’analisi della vicenda).
D’altro lato, l’autorità del diritto europeo negli ordinamenti nazionali è minata anche – e, nell’ottica di questo contributo, soprattutto – dall’assoggettamento a procedimenti disciplinari (in Polonia si ipotizza anche a procedimenti penali) dei giudici ordinari che, discostandosi da pronunce quali quelle appena richiamate – o, nel caso in commento, dalla decisione della Kúria –, effettuano rinvii alla Corte di Giustizia o danno applicazione alle sentenze della stessa. Ciò non solo in Ungheria, ma anche in Polonia e in Romania (con riferimento al caso rumeno, v. da ultimo le conclusioni dell’AG Collins in C-430/21, RS).
L’impiego dei procedimenti disciplinari a carico dei giudici, nei termini delineati, mostra allora la finalità di semplificare la “doppia lealtà” – alla CGUE e agli organi giurisdizionali nazionali di vertice – dei giudici ordinari, imponendo la prevalenza della seconda sulla prima. Con ciò la libertà dei giudici comuni di operare rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia viene evidentemente pregiudicata, con la conseguenza che il principale canale di comunicazione tra gli ordinamenti nazionali e quello europeo viene sottoposto a stringente controllo da parte delle giurisdizioni di vertice, la cui indipendenza risulta, peraltro, gravemente compromessa.
È allora probabilmente anche in questa prospettiva – come si suggeriva in questo blog – che si può leggere la sentenza della Corte di Giustizia in Consorzio Italian Management, C-561/19, nella quale la Corte ha riaffermato la massima ampiezza della facoltà, per i giudici nazionali, di operare rinvii pregiudiziali ex art. 267 TFUE: in una situazione di compromissione dell’indipendenza della magistratura quale quella descritta, la limitazione – prospettata dall’AG Bobek – dell’obbligo dei giudici di ultima istanza di operare rinvii alla Corte di Giustizia si sarebbe potuta prestare a strumentalizzazioni da parte delle autorità nazionali, che avrebbero potuto più facilmente ritenere, come nel caso in commento, irrilevanti e, quindi, illegittime le ordinanze di rimessione operate dai giudici comuni, esponendo questi ultimi a rischi ulteriori di procedimenti disciplinari con i conseguenti effetti disgregativi sul progetto europeo.
Intesa nei termini che si sono pur velocemente delineati, la sottoposizione dei giudici comuni a procedimenti disciplinari per il fatto stesso che questi abbiano operato un rinvio pregiudiziale assurge allora, nell’attuale contesto di profonda crisi del rule of law in alcuni Stati membri, a una sfida esistenziale al diritto europeo, ponendo “in discussione le caratteristiche essenziali del sistema di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali istituito dall’articolo 267 TFUE”, come riconosciuto dall’AG Pikamäe nelle sue conclusioni (punto 50). A fronte di questo rischio, con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia interviene a difesa della piena funzionalità di tale sistema di cooperazione e, con essa, della libertà per i giudici comuni di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte, libertà che è del tutto incompatibile con l’eventuale sottoposizione degli stessi a procedimenti disciplinari per il fatto solo di avere effettuato rinvii pregiudiziali.