Riflessioni sull’imprenditoria straniera in Italia e in Europa. Recensione a “Imprenditori senza frontiere. Le migrazioni come fattore di sviluppo”, a cura di Claudio Di Maio e Raffaele Torino
Il libro Imprenditori senza frontiere, volume a più voci, affronta il tema del lavoro autonomo dei cittadini stranieri in Italia. Il volume offre una panoramica completa sull’argomento attraverso una complessa disamina che comprende una riflessione sulla figura del migrante economico in Italia ad opera di Monica McBritton, un’analisi anche attraverso dati statistici del rapporto fra immigrazione e imprenditoria straniera di Maria Paola Nanni, uno studio sull’importanza dell’imprenditoria migrante in Italia a cura di Stefano Congia, nonché un esame della legislazione europea in materia di immigrazione regolare per motivi economici di Raffaele Torino, un’analisi della legislazione italiana sull’argomento ad opera di Claudio Di Maio, e ancora una riflessione sulla finanza islamica quale fattore di integrazione sviluppata da Michele Gradoli e infine le considerazioni di Cinzia Maldera sul progetto EntryWay, finanziato dalla Commissione Europea, quale caso di studio sul tema in oggetto. Come si evince dalla descrizione di cui sopra, il testo è molto articolato e tocca diversi aspetti del tema, ciò rende il libro particolarmente interessante e completo; tuttavia, in questa sede, per ragioni di spazio, la disamina si concentrerà soltanto su alcuni contributi del volume.
L’imprenditoria straniera è un fenomeno in aumento nel nostro Paese, Stefano Congia con riferimento ai dati del 2017, osserva che “il tessuto imprenditoriale si è progressivamente arricchito di attività a conduzione straniera (42% del saldo annuale delle imprese)”. Sul territorio lo scenario appare differenziato: “senza il contributo dell’imprenditoria migrante, in alcune regioni (Toscana, Veneto, Liguria e Marche) il saldo del 2017 sarebbe stato addirittura negativo. In termini di comparti produttivi, le imprese a conduzione straniera operano preminentemente nell’ambito dei lavori di costruzione specializzati (con un’incidenza del 21% sul numero totale di aziende del settore), nel commercio al dettaglio (19%), nei servizi di ristorazione (11%)” (p. 26).
Ma chi è l’imprenditore straniero? Claudio Di Maio illustra gli elementi che distinguono la figura dell’imprenditore straniero dagli altri imprenditori, individuando due macro-gruppi “in primo luogo, il soggetto straniero è promotore di distinte reti sociali, da cui scaturisce un differente accesso al capitale, talvolta libero dal pagamento di interessi, poiché afferente alla cultura di alcuni gruppi etnici; in secondo luogo, i rapporti commerciali e di lavoro sono spesso basati sulla fiducia reciproca che facilita l’avvio dell’attività imprenditoriale” (p. 54).
Di Maio rileva come gli stranieri, soprattutto provenienti da Paesi extra-UE, per ragioni diverse che spaziano dalle difficoltà nell’omologazione del titolo di studio, ai limiti posti all’accesso per talune professioni, alle problematicità nella fruizione di informazioni e “a clausole aggiuntive che lambiscono la discriminazione”, riscontrino ancora impedimenti nell’ingresso nel mondo del lavoro. Tuttavia la capacità di inserimento dello straniero nelle differenti forme di lavoro autonomo sta cambiando lo scenario (p. 54).
La realtà dell’economia informale è l’ambito in cui gli immigrati tendono a sviluppare le loro attività poiché favoriti dall’assenza di una dettagliata regolamentazione. Allo stesso tempo, gli imprenditori stranieri vantano una posizione su altri mercati competitivi, inizialmente rivolta ai propri connazionali ma che successivamente raggiunge una platea di soggetti più ampia. L’attività imprenditoriale del migrante, in base al cd. “decreto flussi”, all’interno del quale è previsto anche un meccanismo di “quote” degli ingressi, deve soddisfare esigenze di natura economica e il migrante deve possedere adeguate o eccellenti qualifiche professionali pregresse, oppure inserirsi in un settore specifico e innovativo. Tale approccio de facto ostacola il processo di integrazione dei migranti anziché promuovere l’attività imprenditoriale, disattendendo anche la nostra Costituzione. A tal proposito, Di Maio ricorda come dai precetti costituzionali “non sia escluso lo straniero nel pieno rispetto di quella «promessa» che proclama la Carta costituzionale, per cui”, afferma, citando Lucia Tria, “il lavoro è lo strumento principale per acquisire un’identità sociale e quindi integrarsi e partecipare alla comunità in cui si vive” (p. 61). Il riferimento è “all’ art. 3, primo comma, Cost., dove al principio di uguaglianza si lega «la pari dignità sociale»”, e ancora “all’art. 36, primo comma, Cost., laddove rinvia a un’equa retribuzione al fine di assicurare «una esistenza libera e dignitosa» al lavoratore e alla sua famiglia”, e “all’art. 41 Cost., quando statuisce che l’iniziativa economica privata non può «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»” (p. 61). Anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale “invita il legislatore al bilanciamento degli interessi pubblici che investono le fasi prodromiche e di sviluppo dell’attività lavorativa dello straniero (sentenza della Corte Cost. n. 172 del 2012)”. Pertanto, un trattamento differenziato in ragione della condizione del soggetto, da parte della pubblica amministrazione, è legittimo ma “tale azione deve essere ponderata e mantenere una certa proporzionalità rispetto al fine da perseguire, tenendo in debito conto – laddove necessario – anche il cd. «effetto utile» della normativa europea” (p. 61).
Per quanto concerne la richiamata disciplina europea, Raffaele Torino nel suo contributo afferma che se da un lato l’Unione europea promuove politiche efficaci per l’occupazione e per l’imprenditoria dei migranti di cui il programma Strategia Europa 2020 (p. 25) è un valido esempio, dall’altra la normativa appare poco efficace nel modo in cui si declina. Torino evidenzia come il quadro complessivo della politica e della normativa europea, “non stabilisca un comune denominatore di tutela” per tutti i lavoratori ed imprenditori cittadini non europei e sia piuttosto disorganico “sia sotto il profilo dell’approccio regolamentare, che distingue i migranti per ragioni economiche in diverse categorie (i.e., senza particolari qualifiche, altamente qualificati, stagionali, distaccati, soggiornanti di breve periodo e lungo soggiornanti) e che difetta di una semplificante soluzione unitaria, sia sotto il profilo della concreta messa in esecuzione nei vari sistemi giuridici nazionali (in ragione della poca capacità uniformante delle direttive europee, «vittime» di clausole di stand still o di numerose scelte opzionali rimesse agli Stati membri), che restano inevitabilmente differenti a scapito della mobilità nel mercato interno” (p. 48). Un elemento significativo che contribuisce a generare il quadro descritto poc’anzi, è l’approccio securitario nei confronti dei cittadini provenienti da Paesi terzi che, come sottolinea Torino, non permette la nascita di forme di legame con la comunità in cui si dovrebbe inserire, favorendo invece “l’ attribuzione al lavoratore non cittadino europeo (e non da meno all’imprenditore migrante) di una mera «cittadinanza mercantile», in cui libertà e diritti sono in ultima istanza asserviti alle necessità del mercato” (p. 49). Tale approccio frustra i valori del rispetto della dignità umana e dell’uguaglianza su cui l’Unione europea e i suoi Stati membri si fondano.
Nonostante l’Italia sia diventata Paese di immigrazione a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, l’ottica sopra descritta permea anche la politica italiana. Monica McBritton, a tal proposito, richiama la celebre citazione di Max Frisch “volevamo braccia, sono arrivate persone”, affermando che “il ricorso a questa citazione, a mio avviso, non deriva soltanto dalla sua evidente efficacia descrittiva rispetto ad un processo già avvenuto storicamente – l’affermazione risale al 1965 – ma dalla sua scottante attualità” (p. 11). L’autrice prosegue sottolineando come “il fulcro dell’interesse politico-legislativo continua ad essere segnalato dalla narrazione sui rischi per la sicurezza, la minaccia dell’invasione, l’emergenza e la conseguente esigenza di rispondere con misure eccezionali e repressive”(p. 11).
Conseguenza di tale ottica è una legislazione vigente rigida e farraginosa e a tal riguardo Monica McBritton afferma “il lavoro autonomo dello straniero è regolato in modo tale che raramente esso accede al territorio italiano con un visto per lavoro autonomo e, dunque, quando approda all’imprenditoria ha già percorso un lungo cammino e la sua presenza è di lunga data. In questa prospettiva è segno di forte integrazione e radicamento” (pag. 10). Ciò rende molto difficile l’ingresso regolare in Italia per motivi economici e, come evidenzia McBritton, anche complesso il rimanere nella regolarità. Queste criticità ostacolano lo sviluppo soprattutto delle capacità imprenditoriali delle giovani generazioni di immigrati che costituiscono un elemento importante e inoltre rendono più complicato lo sviluppo di alcune realtà imprenditoriali, come quelle ibride, formate cioè da cittadini italiani e di Paesi terzi che potrebbero costituire uno strumento prezioso per un processo di integrazione effettivo e concreto. A tal riguardo, osserva Stefano Congia, “i ragazzi con background migratorio mostrano un potenziale importante rispetto ai processi di mediazione culturale, di partecipazione e cittadinanza attiva e di cooperazione allo sviluppo. Alcuni fattori (ad esempio il background socio-culturale ed economico) possono incidere sulla valorizzazione di tale potenziale e sulla piena inclusione dei giovani migranti nella società, mentre le loro capacità imprenditoriali rappresentano una leva importante per la crescita economica, anche in termini di innovazione” (p. 27).
Una metamorfosi significativa che ha caratterizzato il settore del lavoro degli stranieri è il passaggio del lavoratore migrante da lavoratore subordinato a lavoratore autonomo-imprenditore. Tale metamorfosi si sta delineando anche a livello italiano in conformità ai precetti costituzionali. Scrive Di Maio “il lavoro all’interno del sistema costituzionale italiano non incarna solo un diritto, bensì”, prosegue l’autore citando Giuseppe Di Gaspare, “un dovere civico, che si esplica in genere attraverso lo svolgimento di un’attività individuale” (p. 52). Inoltre Di Maio afferma che “l’attività lavorativa può essere classificata come quel”, citando Agatino Cariola, “«tramite necessario per l’affermazione della personalità». La portata di questi concetti è da considerarsi universale: non solo riferita allo straniero nella sua condizione lavorativa in re ipsa, bensì nelle diverse forme della sua vita attiva e, quindi, anche come lavoratore autonomo e imprenditore” (p. 52).
E se l’attività lavorativa può essere classificata come quel “tramite necessario per l’affermazione della personalità”, a tale proposito, molto interessante è il contributo di Michele Gradoli dedicato alla finanza islamica come fattore di integrazione e sviluppo. Grazie ad un’offerta inclusiva anche dei prodotti finanziari islamici, Gradoli afferma che “il mercato europeo riuscirebbe a toccare un target che potrebbe essere attratto da altri mercati e a includere un gruppo di cittadini che sono spesso esclusi, come le comunità islamiche europee” (p. 78). L’autore osserva che “l’inclusione dei musulmani che passa anche attraverso la formulazione di un’offerta di servizi Sharia-compliant, infatti, non è un’operazione di semplice tensione verso l’integrazione di una diversità ma rappresenta anche un’ottima opportunità economico-finanziaria per tutti gli operatori del settore che vogliono includere nei propri riferimenti, anche un target finora poco esplorato” (p. 79).
Tale apertura faciliterebbe il processo di integrazione e costituirebbe un vantaggio anche per i mercati europei aumentando i loro scambi con partners del mondo islamico, realtà molto presente nell’Unione europea. Come afferma Gradoli “qualsiasi comunità infatti riesce a integrarsi e a svilupparsi quando riesce non solo a ottenere una tutela dei propri diritti fondamentali ma anche un’autonomia/identità economica che le possa permettere di studiare, di migliorarsi e integrarsi a sua volta anche nel mercato di riferimento” (p. 79).
Alla luce delle riflessioni svolte dagli autori, mai come oggi, lavoro ed economia rappresentano per l’Unione europea un banco di prova fondamentale per ridimensionare l’approccio spesso securitario al fenomeno migratorio, a favore di un approccio inclusivo in grado di valorizzare il ruolo prezioso dell’imprenditoria straniera, come ben descritto nel volume.