Riflessioni a margine di “La salute mentale tra libertà e dignità. un dialogo costituzionale” di Stefano Rossi (Franco Angeli, 2015)

1. Già dal titolo – “La salute mentale tra libertà e dignità” – si coglie l’ambizioso obiettivo del lavoro di Stefano Rossi: collocare il diritto alla salute dei soggetti affetti da disturbo psichico nel prisma delle conquiste del moderno costituzionalismo, accantonando definitivamente quei vecchi pregiudizi che hanno accompagnato – non senza rigurgiti nell’attualità – il cammino verso una piena ed effettiva tutela dei diritti della persona malata di mente.

Il viatico è rappresentato da un’approfondita analisi dell’evoluzione dei rapporti – mediati dal ruolo ponte del consenso informato – tra salute e libertà. Rapporti segnati da un lato dalla lettura della salute non più come mera assenza di malattia, ma come completo stato di benessere, nel quale assumono peso rilevante i profili personali, l’esperienza che ciascuno ha del proprio stato fisico, mentale e spirituale, il vissuto (insomma tutto ciò che determina la personalità e l’identità di ognuno); dall’altro, dal riconoscimento della libertà personale non solo quale libertà di autodeterminazione terapeutica sino all’estremo, sino cioè alla rifiutabilità di qualsivoglia trattamento sanitario, ma anche come declinazione, sul terreno della salute mentale, del necessario rispetto dell’habeas corpus e della dignità della persona al cospetto delle perduranti spinte contenitive.

2. È allora evidente come la valorizzazione della componente ‘mentale’ della salute rechi con sé l’esigenza di aprire gli orizzonti della relativa tutela. Ne appare consapevole l’Autore, mettendo bene in luce come la salute mentale rappresenti “una delle ipotesi maggiormente significative in cui la costruzione e lo svolgimento dell’identità della persona e i percorsi di affermazione della sua dignità vengono ad incidere sull’attuazione del diritto alla salute come è oggi inteso”. In questa prospettiva si sviluppa la prima parte del lavoro, ove peraltro non viene trascurato l’apporto costruttivo – ma in fondo anche decostruttivo di vetusti stereotipi paternalistici – offerto dalla giurisprudenza (costituzionale ma non solo).

Ma è il “cambio di paradigma” in tema di salute mentale a rivestire un peso decisivo nell’economia dell’opera, a partire dall’iniziale “viaggio nei luoghi dell’incertezza” della psichiatria, che fotografa “un contesto culturale e scientifico caratterizzato da complessi e molteplici modelli teorici e dal confronto tra diversi orientamenti di epistemologia psichiatrica”, mettendo bene in luce le inevitabili “ricadute sulla definizione di alternative opzioni legislative, giurisprudenziali e di riorganizzazione dei servizi”: dal confronto sull’utilità del concetto di capacità di intendere e di volere e di imputabilità, alle questioni connesse all’espressione del consenso alle terapie, sino agli strumenti adottati dalla legislazione in materia di tutela della salute mentale; senza dimenticare, ci permettiamo di aggiungere, gli ulteriori e non meno significativi risvolti sul piano – altrettanto scivoloso – delle conseguenze penali degli atti auto o etero-aggressivi dei pazienti psichiatrici.

3. Uno spazio altrettanto importante è riservato al dettagliato resoconto della lenta evoluzione normativa in materia di salute mentale, sviluppatasi nell’arco di più di sessant’anni; questo infatti è il lasso temporale intercorso tra il paradigma asilare sposato dalla legge n. 36 del 1904 e la prima ‘apertura’ contenuta nella legge n. 431 del 1968 (la c.d. legge Mariotti), timido (ma significativo) avamposto della più celebre e celebrata legge n. 180 del 1978.

Tra le righe, si dipana il resoconto di una rivoluzione (che a dire il vero ad oggi non può dirsi ancora del tutto compiuta) e del processo di superamento di un’equazione (malato=oggetto) che per anni ha visto negare la minima dignità all’essere umano.

È istruttivo ricordare, per offrire uno spaccato dell’epoca, come, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 36 del 1904 (modificato e completato dal R.D. 16 agosto 1909, n. 615 e dal R.D. 6 marzo 1913, n. 221), dovessero essere «custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando fossero pericolose a sé o agli altri o riuscissero di pubblico scandalo o non fossero o non potessero essere convenientemente custodite o curate fuorché nei manicomi». Dal malato di mente dunque ci si doveva prima di tutto difendere; lo dimostrava il fatto che la decisione dello psichiatra finalizzata a concedere o meno il ricovero era subordinata all’esito di un giudizio diagnostico-prognostico di pericolosità verso sé o verso gli altri. Ecco che, inevitabilmente, erano i manicomi a fornire una pronta risposta alle istanze di protezione della collettività, sviluppandosi come luoghi-non luoghi di annientamento dell’essere umano, nei quali i metodi di controllo, celati dietro la tranquillizzante parvenza di cure terapeutiche, eliminavano ogni attenzione verso la persona e degradavano la stessa alla mera condizione di internato.

Ci sono voluti dunque anni di lotte sotterranee e di contrapposizioni frontali per arrivare a comprendere come quegli edifici austeri altro non facessero se non creare la dimensione del malato di mente, inteso come oggetto, alieno rispetto all’ambiente esterno e a se stesso e senza possibilità di reinserimento nel contesto sociale; nel convincimento collettivo di una netta parificazione tra malattia mentale e pericolosità sociale, i manicomi rappresentavano le roccaforti della sicurezza pubblica, in grado di custodire – o, meglio, neutralizzare – il chiasso di menti irrazionali nelle costruzioni salde e regolari della razionalità.

In un contesto in cui il diritto alla salute era soccombente rispetto alle esigenze di tutela della collettività, la figura dello psichiatra oscillava inevitabilmente tra quella di medico curante e di custode; e con essa, tutte le responsabilità penali connesse a una posizione di garanzia ricomprendente compiti di sorveglianza nei confronti del malato di mente, a partire dall’obbligo di impedire condotte auto o etero-aggressive, nell’interesse non solo (e non tanto) dell’incolumità individuale dell’alienato, quanto anche (e forse soprattutto) della vita e dell’incolumità individuale dei terzi.

Del resto, gli strumenti cui si rivolgeva la scienza psichiatrica erano devastanti, assimilabili a rudimentali forme di tortura: al di là degli interventi di psicochirurgia (fortunatamente quasi del tutto accantonati già a partire dagli anni ’60), si possono richiamare (pseudo)terapie quali il coma insulinico, lo shock acetilcolinico e cardiazolico o la piretoterapia – che riducevano le capacità cerebrali di chi vi fosse sottoposto (provocando spesso danni irreparabili al cervello e causando un impoverimento progressivo a livello intellettivo e affettivo) – ovvero ancora l’elettroshock (l’unico che invero ancora sopravvive, seppure limitato nel suo uso da specifiche indicazioni restrittive del Ministero della Salute).

Tra le mura del manicomio era annullata ogni possibilità di comunicazione: chi vi faceva ingresso perdeva la propria identità ed era omologato ai corpi senza volto che occupavano i letti vicini.

Quale, in questo scenario angusto, il margine di operatività del diritto fondamentale alla salute del paziente psichiatrico?

4. L’esigenza di fare i conti con un siffatto interrogativo porta il lavoro sul sentiero della ricerca di un più ampio significato di libertà personale. È così ricostruito il tragitto che, valorizzando la libertà di autodeterminazione terapeutica alla luce non solo dell’art. 32 Cost. ma anche (e soprattutto) dell’art. 13 Cost., ha permesso, tra l’altro, di scardinare una visione paternalistica e retrograda del rapporto tra medico e paziente – nella quale le funzioni di custodia e di controllo e a difesa della sicurezza sociale prevalevano sulle individuali esigenze di cura – sino a raggiungere un’alleanza terapeutica (seppure talora solo allo stato embrionale), fondata sul prioritario interesse verso la cura della persona e non la neutralizzazione della sua presunta personalità.

Non a caso, è proprio dall’inizio degli anni ‘70 che inizia a rimodularsi il rapporto tra paziente e psichiatra: il primo non rappresenta più un “pericolo per sé e per gli altri” da nascondere o annientare, ma un soggetto che ha diritto di ricevere una prestazione sanitaria ovvero di rifiutare un determinato trattamento; il secondo, dismessi i mortificanti panni della sentinella al servizio della magistratura, torna a sentirsi medico a tutti gli effetti, impegnato a garantire la tutela della salute del paziente sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio come del paziente che ha volontariamente chiesto o accettato di ricoverarsi. Lo psichiatra, così, è chiamato a instaurare una relazione col paziente, coinvolgendolo a pieno titolo nel perseguimento dell’obiettivo di cura e di reinserimento nel contesto sociale.

Il banco di prova non può che essere, oggi, quello dei trattamenti sanitari obbligatori, dei suoi presupposti, delle sue procedure, dei soggetti coinvolti (attivamente e passivamente) e delle sue garanzie (vere o solo sulla carta). L’analisi critica compiuta nel volume, superando il dato meramente esegetico, vaglia le aspirazioni legislative al metro della concreta e attuale dimensione applicativa, mostrandone debolezze e incongruenze, che assumono le forme di mezzi contenitivi impropri e degradanti e di residue spinte custodialistiche, travestite da opzioni terapeutiche.

5. In definitiva, è nell’integrazione tra dignità e salute mentale – innestando “il principio di dignità nell’ottica della tutela dei diritti fondamentali della persona e, in particolare, nella prospettiva della tutela dell’identità e integrità personali” – che l’Autore individua una plausibile e suggestiva chiave di lettura per rendere effettiva la tutela del sofferente psichico e la sua libertà di autodeterminazione, scongiurando il rischio che questi venga “spogliato di una parte della propria vita, snaturata nella propria gerarchia valoriale, con grave pregiudizio all’essenza stessa dell’umanità, ovvero a ciò che rende ognuno di noi diverso dagli altri”; gli esempi di questa declinazione relazionale della dignità sono “le politiche di integrazione e di lotta alla stigmatizzazione della malattia mentale, la battaglia – ancora minoritaria – volta a bandire le forme di contenzione in psichiatria ed infine la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari come completamento di una ‘rivoluzione’ rimasta incompiuta”.

Non potendo condensare in poche battute conclusive i molti spunti di riflessione suscitati, ci si può accontentare di segnalare come il volume di Stefano Rossi richiami l’esigenza di non abbassare la guardia di fronte al rischio, sempre presente, di dimenticare i diritti fondamentali dei soggetti più deboli, degli ultimi, indicando la strada da seguire per non ricadere in schemi ed errori del passato: rispettare i canoni costituzionali di uno Stato di diritto, ove il soggetto mai può trasformarsi in oggetto e ogni malato entra in scena con la sua singolarità e i suoi bisogni, senza il filtro della malattia e dell’istituzione totalizzante.