Recensione a Giovanni Piccirilli, La “riserva di legge”. Evoluzioni costituzionali, influenze sovrastatuali, Giappichelli, Torino 2019, pp. XXIII-306
Le numerose riserve di legge previste dalla nostra Costituzione sono tradizionalmente intese come finalizzate alla protezione di diversi beni costituzionali (la garanzia dei diritti individuali, il principio di uguaglianza, la tutela delle minoranze parlamentari, etc.) attraverso una limitazione del libero concorso tra le fonti nella disciplina di una determinata materia. Ma quanto di questa ricostruzione tradizionale corrisponde effettivamente all’attualità della riserva di legge e quanto invece è “narrazione” o “mito” che non trova in realtà corrispondenza nelle dinamiche presenti del nostro ordinamento costituzionale?
È questa la domanda fondamentale cui cerca di rispondere il bel volume di Giovanni Piccirilli, partendo dal presupposto che la riserva di legge è “istituto immediatamente influenzato dall’evoluzione del sistema costituzionale in cui è inserito” (p. 5). Nel tentativo di definire quale funzione svolga oggi effettivamente questo istituto nel nostro ordinamento costituzionale è pertanto imprescindibile confrontarsi con le “evoluzioni costituzionali” ― in primis la giurisprudenza costituzionale in materia, ma anche le concrete modalità di produzione della legge ―, così come con le “influenze sovrastatuali” determinate dal consolidarsi di quella che l’Autore chiama, riprendendo l’espressione di Besselink, una Costituzione “composita”, cioè “una architettura istituzionale e procedurale nella quale sono presenti fonti propriamente europee e fonti nazionali, che fanno reciprocamente rinvio le une alle altre e, anzi, si presuppongono vicendevolmente” (pp. XV-XVI). Il volume è quindi strutturato in due parti: la prima finalizzata a problematizzare le letture tradizionali della riserva di legge alla luce delle attuali dinamiche costituzionali e a “proporre una rilettura dell’istituto all’interno dell’assetto costituzionale contemporaneo” (p. 124); la seconda ad approfondire i “concetti di legge e legalità emergenti dalla dimensione sovrastatuale che interagisce con l’ordinamento costituzionale italiano” (p. 133).
Nella prima parte del volume, l’Autore mostra inizialmente come una giurisprudenza costituzionale “granitica” (p. 50) nell’accettare che atti aventi forza di legge possano disciplinare ambiti coperti da riserva di legge, così come “la crisi delle garanzie proprie del procedimento legislativo” (p. 75) cui la Corte ha per lo più rifiutato di porre un freno, rendano ormai insostenibili alcune letture della funzione della riserva di legge. In particolare, di fronte a una giurisprudenza costituzionale che ha inteso la riserva di legge come “riserva di livello normativo” e non come “riserva di organo” (p. 40) diventano difficilmente difendibili letture di stampo garantista tese a valorizzare la funzione di protezione del singolo dall’arbitrio del potere esecutivo attraverso il necessario intervento del Parlamento. Ugualmente, “è davvero difficile poter affermare – sottolinea l’Autore – che i modi di produzione legislativa degli ultimi anni consentano di realizzare quella effettiva partecipazione delle minoranze parlamentari alla decisione legislativa, o quella realizzazione del principio democratico che potrebbero presupporsi al fondo della ratio della riserva di legge” (p. 83).
Alla pars destruens segue la pars construens: alla luce delle evoluzioni costituzionali esaminate, è possibile individuare, riprendendo e approfondendo una riflessione inizialmente proposta da Sergio Fois, una funzione della riserva di legge che guarda alla Corte costituzionale più che al Parlamento. Secondo l’Autore, “è proprio nella giurisdizione costituzionale che sembra doversi individuare la ragion d’essere contemporanea dell’istituto”. Attraverso la riserva di legge “la Costituzione individua quegli ambiti che in nessun modo possono essere sottratti non tanto a questo o quel soggetto normatore, quanto al giudice di quei prodotti normativi, appunto individuato nella stessa Corte costituzionale” (p. 87). Risulta così valorizzato, in chiave nuova, l’aspetto garantistico della riserva di legge quale “ambito entro il quale debba necessariamente svolgersi la funzione di garanzia formale della Costituzione da parte della Corte” (p. 88), nonché il suo aspetto positivo, inteso quale “obbligo per il legislatore di non sottrarre alla Corte costituzionale la possibilità di esercitare il proprio sindacato sul punto” (p. 92).
Alla funzione di delimitare il “perimetro necessario della giurisdizione costituzionale” (p. 88), l’Autore ne affianca una seconda, individuata nel porsi come “presidio delle giunture ordinamentali” (p. 124) nell’interazione fra ordinamento statale e ordinamento dell’Unione, “permettendo alla Corte di mantenere il presidio sui principi supremi in quegli ambiti nei quali vengono a sovrapporsi ordinamento interno e ordinamento dell’Unione europea” (p. 128). A conferma di questa tesi viene portato l’esempio del notissimo caso Taricco, e, in particolare, la sentenza n. 115/2018 che conclude il caso. Nella lettura dell’Autore, la Corte “ha supportato l’impossibilità di applicazione nell’ordinamento italiano della cd. ‘regola Taricco’ […] alla luce del principio di determinatezza come parte integrante del principio (supremo) di legalità in materia penale, riferendosi alla necessità di una certezza in tale ambito che, nell’opinione della Corte, può essere assicurata solo da una previa lex scripta” (p. 112): con il che, la Corte avrebbe ripristinato “una concezione pre-1973 della riserva di legge (almeno in ambito penale), nel senso di renderla impermeabile alle fonti del diritto europeo” (p. 113).
Delle due funzioni della riserva di legge individuate in questa prima parte del libro mi sembra particolarmente interessante quella che sottolinea lo spostamento di fatto del fondamento dell’istituto dal Parlamento alla Corte costituzionale, garantendo che nelle materie coperte da riserva di legge il controllo del giudice costituzionale non possa essere escluso. Sul punto vorrei esprimere due osservazioni.
In primo luogo, mi chiedo se questa lettura non sia particolarmente adeguata per un ordinamento come quello italiano, in cui la giustizia costituzionale è essenzialmente una giurisdizione sulle leggi, in cui cioè è la natura dell’atto a determinare la competenza del giudice costituzionale. In questo contesto, la riserva di legge assume effettivamente una funzione garantista nell’imporre al legislatore l’obbligo di non sottrarre le materie riservate al controllo del giudice costituzionale. Diversamente, una simile ricostruzione perderebbe forse gran parte del suo significato in un ordinamento in cui la giustizia costituzionale è essenzialmente giurisdizione sui diritti – penso ovviamente all’ordinamento tedesco –, dove cioè è la violazione di un diritto fondamentale a legittimare l’intervento del giudice costituzionale, attraverso la Verfassungsbeschwerde, indipendentemente dal fatto che tale violazione sia riconducibile a un atto legislativo, amministrativo o giudiziario.
In secondo luogo, mi pare opportuno chiedersi se questa rilettura della riserva di legge, che sposta il centro delle garanzie dal Parlamento al giudice costituzionale, non possa iscriversi in una più generale tendenza, che caratterizza l’attuale costituzionalismo occidentale, in cui a una crescente sfiducia nei confronti delle assemblee rappresentative corrisponde una crescente attenzione al ruolo dei giudici, e in particolare dei giudici costituzionali. Non dalla dialettica democratica adeguatamente presidiata scaturisce la tutela dei diritti dei cittadini, bensì dai giudici costituzionali che riesaminano il risultato di tale dialettica. In questo senso, come nota l’Autore, in un’evidente eterogenesi dei fini (p. 38), un istituto inizialmente pensato a tutela dell’intervento del Parlamento, si trasforma nella garanzia dell’intervento del giudice costituzionale.
Meno persuasiva, ancorché assai suggestiva è, a mio giudizio, la tesi che assegna alla riserva di legge il ruolo di “giuntura” o “cerniera” nei rapporti fra ordinamenti (p. 250). Mentre mi sento di condividere l’osservazione secondo cui esiste una “stretta interrelazione tra le dinamiche evolutive della riserva di legge e quelle relative all’integrazione europea” (p. 105), e, più specificamente, che solo “con il pieno riconoscimento della copertura costituzionale” di cui all’art. 11 Cost. “è stato possibile accettare apertamente l’incidenza dello stesso diritto europeo” nelle materie coperte da riserva di legge (p. 100), mi sembra che l’Autore sopravvaluti il ruolo della riserva di legge quando sottolinea il “protagonismo (a volte evidente, a volte più nascosto) che la riserva di legge ha comunque avuto nello sviluppo del rapporto tra ordinamento costituzionale e dimensione sovrastatuale”, fino a fare della riserva di legge un “presupposto per l’attivazione dei controlimiti, a tutela di quegli elementi di intersezione tra sistemi giuridici che sono i diritti fondamentali” (p. 129).
A mio modo di vedere, il protagonista dell’interazione fra ordinamento statale e ordinamento dell’Unione è stato e rimane l’art. 11 della Costituzione: la riserva di legge mi pare piuttosto, entro certi limiti, una vittima di tale interazione. Essa rappresenta infatti uno di quegli “ostacoli” di carattere costituzionale che il giudice costituzionale ha dovuto superare, appellandosi appunto all’art. 11, per garantire il primato del diritto europeo, con il solo limite dei controlimiti, attivabili a prescindere dall’esistenza di una riserva di legge nella materia incisa dal diritto europeo. Nel caso Taricco, la Corte ha sì elevato la riserva di legge in materia penale (estesa fino a comprendere la disciplina della prescrizione) al rango di principio supremo dell’ordinamento in funzione di controlimite; mi pare però che il fatto che una particolare riserva di legge – quella in materia penale, che, come sottolinea l’Autore, gode di una posizione e tutela particolare fra le riserve di legge (pp. 60 ss.) ― sia qualificabile come principio supremo dell’ordinamento non attribuisca necessariamente all’istituto della riserva di legge in quanto tale il ruolo di istituto-cerniera nei rapporti fra ordinamento interno e ordinamento europeo.
Nella seconda parte del volume, dedicata come si è detto alle “influenze sovrastatuali”, divengono oggetto di ricerca “il concetto di ‘atto legislativo’, introdotto nel diritto dell’Unione europea dal Trattato di Lisbona, e il concetto di ‘legge’ emergente dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” (p. 165), sullo sfondo di tre domande poste in relazione tanto all’ordinamento UE quanto al sistema convenzionale di protezione dei diritti. L’Autore si chiede in primo luogo se il diritto UE e la Convenzione “conoscano strumenti paragonabili alla riserva di legge, o che comunque assolvano funzioni analoghe a quelle esercitate dall’istituto all’interno degli ordinamenti statali, e di quello italiano in particolare”; quindi “se sia possibile che ‘dall’esterno’ possano essere riservati alla legge all’interno dello Stato oggetti o materie nuovi e ulteriori rispetto a quanto previsto dal testo della Costituzione”; infine, se e come tali influenze sovrastatuali “abbiano contribuito a modificare il significato teorico e il funzionamento in concreto delle riserve di legge poste dalla Costituzione italiana” (p. 134).
Quanto all’ordinamento dell’Unione, rileva soprattutto la prima delle tre questioni poste, cioè se nella categoria degli “atti legislativi” introdotta dal Trattato di Lisbona sia rinvenibile un istituto paragonabile alla riserva di legge quale si ritrova nel diritto costituzionale statale. Sul punto l’Autore rileva che le profonde differenze di sistema fra l’assetto delle fonti nell’ordinamento costituzionale e in quello dell’Unione – differenze non scalfite dall’introduzione della categoria degli atti legislativi – porterebbero a rispondere in senso negativo. Il sistema delle fonti dell’Unione, infatti, rigetta un’idea di gerarchia che ponga gli atti legislativi in posizione sovraordinata rispetto agli atti non legislativi. Al contrario, sono determinanti, nell’ordinamento dell’Unione, le singole basi giuridiche che al tempo stesso conferiscono una specifica competenza all’Unione e stabiliscono attraverso quali atti essa debba essere esercitata. Ma né la procedura legislativa richiede necessariamente l’intervento del Parlamento europeo in qualità di co-legislatore, né le aree in cui intervengono gli atti legislativi sono necessariamente quelle di maggiore importanza. In sintesi, la “qualificazione di un atto come ‘legislativo’ ha, all’interno dell’Unione europea, una valenza estremamente diversa rispetto al concetto di ‘legislazione’ proprio degli ordinamenti nazionali, e di quello italiano in particolare” (p. 184).
Ciò detto, l’emergere, anche grazie all’intervento della Corte di Giustizia, di alcune garanzie di trasparenza e pubblicità specifiche dei procedimenti legislativi – in particolare la trasmissione ai Parlamenti nazionali degli atti di iniziativa e il regime di pubblicità delle sedute del Consiglio quado questo deliberi e voti su atti legislativi – porta l’Autore a chiedersi se questi sviluppi procedurali non possano preludere a una “preminenza assiologica” (p. 207) degli atti legislativi rispetto agli atti che hanno seguito procedimenti diversi. In questo modo, l’introduzione della categoria degli atti legislativi “potrebbe quindi essere letta come un rafforzamento della qualità democratica dei procedimenti decisionali europei” (p. 207).
Il capitolo dedicato al sistema della Convenzione EDU mostra la distanza fra l’istituto della riserva di legge contemplato dal diritto costituzionale e la nozione di “legge” elaborata dalla Corte di Strasburgo. Quest’ultima, infatti, nella sua giurisprudenza, è “progressivamente giunta a conclusioni […] che finiscono per ignorare qualsiasi collegamento tra il comando giuridico e la sua produzione da parte dell’organo rappresentativo dei cittadini, focalizzandosi piuttosto su una prospettiva sostanzialistica relativa alla buona ‘qualità’ del prodotto normativo, soprattutto dal punto di vista della sua capacità di fornire ai destinatari elementi di certezza e prevedibilità degli effetti delle proprie condotte” (pp. 212-213). Per la Corte EDU, pertanto, non l’intervento del Parlamento nazionale nel procedimento di formazione dell’atto rileva ai fini del rispetto della Convenzione, bensì, la certezza, prevedibilità e conoscibilità della disciplina. Dal che l’Autore condivisibilmente conclude che l’apporto della giurisprudenza di Strasburgo alla lettura costituzionale delle riserve di legge non va cercato nello stabilire nuove e ulteriori riserve di legge, bensì nel rafforzare le riserve di legge già previste dalla Costituzione, “innalzando le ‘pretese’ nei confronti del legislatore e dunque arricchendo e dettagliando meglio il tipo di obbligo in capo ad esso” (p. 245).
Nel complesso, il volume di Giovanni Piccirilli si fa particolarmente apprezzare per la scelta, sopra ricordata, di studiare la riserva di legge alla luce delle evoluzioni dell’ordinamento costituzionale italiano, interne e nella sua interazione con l’ordinamento dell’Unione e con il sistema della Convenzione. Ciò permette di giungere a una valutazione realistica, quasi disincantata, della effettiva capacità della riserva di legge di perseguire i beni costituzionali alla cui protezione essa è, o dovrebbe essere, finalizzata e a una sua rinnovata comprensione che fa del controllo giurisdizionale da parte della Corte costituzionale, reso più rigoroso dall’integrazione del parametro convenzionale, il cuore del significato garantistico della riserva di legge.
Un’altra scelta di fondo del lavoro consiste nell’affrontare la riserva di legge come istituto unitario (p. 13), prescindendo non solo dalle sue diverse qualificazioni (assoluta, relativa, ecc.), ma anche dalla specifica materia riservata alla legge. In diverse occasioni, tuttavia, l’Autore riconosce come sia essenzialmente la riserva di legge in materia penale a venire in rilievo e a presentare specificità che le conferiscono una posizione particolare fra le riserve di legge, richiedendo un’analisi separata: è il caso della giurisprudenza costituzionale, che in questo ambito si mostra assai più sensibile al necessario intervento del Parlamento, enfatizzando gli aspetti “democratici” della riserva di legge (p. 60), del caso Taricco (p. 112), e della sentenza n. 230/2012, in cui la legalità costituzionale si confronta con quella convenzionale (p. 231).
L’impressione complessiva che si ricava dalla lettura del volume è che, se alle “evoluzioni costituzionali” si sommano le “influenze sovrastatuali”, la capacità della riserva di legge di limitare, al di fuori dell’ambito penale, il libero concorso fra le fonti nella disciplina di una materia sia piuttosto debole, o comunque si sia fortemente indebolita nel tempo: a una giurisprudenza costituzionale assai generosa nell’accettare l’intrusione di atti diversi dalla legge formale nelle materie riservate, si somma la tendenziale indifferenza, agli occhi dei giudici di Strasburgo e Lussemburgo, in ordine alla scelta della fonte cui gli Stati fanno ricorso per disciplinare una determinata materia.