Recensione al volume di Alberto Randazzo, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Giuffré, Milano, 2017, I-XIX, 1-449
Si tratta di ampio e voluminoso studio sul rapporto tra CEDU e Costituzione. Il punto di vista adottato è quello della giurisprudenza costituzionale. L’analisi è accompagnata da un corposo apparato bibliografico, essenzialmente di dottrina interna, comprensivo di un’accurata ricerca delle numerose note di commento alle singole sentenze della Corte costituzionale. Nella Parte Prima, l’A. ripercorre la posizione della CEDU nell’ordinamento interno prima delle sentenze gemelle (cap. I) e affronta la portata e gli effetti del nuovo art. 117, comma 1, Cost. (cap. II). La Parte Seconda entra nel cuore della giurisprudenza costituzionale, analizzando nel dettaglio la svolta del 2007 (cap. I) e concentrandosi sulle pronunce costituzionali successive, per verificare se lo schema di giudizio e l’assetto del rapporto impostato con le sentenze gemelle sia stato sostanzialmente mantenuto e in che misura si sia evoluto (cap. II). In queste pagine, le più dense del volume, l’A. riprende nuovamente le questioni relative al fondamento costituzionale e al rango della Convenzione, alla sua capacità di integrare il parametro costituzionale, all’obbligo di interpretazione conforme ricadente sul giudice comune, alla eventuale disapplicazione delle norme convenzionali e al grado di tutela riconosciuto ai diritti. L’analisi si sofferma di seguito su due vicende di conflitto tra giurisprudenza costituzionale e convenzionale: le leggi di interpretazione autentica e la riapertura o revisione del processo penale (cap. III). Infine, alcune pagine sono dedicate alle prospettive derivanti dalla futura adesione dell’Unione europea alla CEDU (cap. IV).
Sin dall’introduzione, l’Autore rende esplicito il suo orientamento sul rapporto tra carte internazionali dei diritti e Costituzione, un orientamento che può definirsi “integrazionista”. La tesi più volte affermata è che un «patriottismo costituzionale» che renda l’ordinamento chiuso non giova alla sua evoluzione e non valorizza la Costituzione, sminuendone la portata e la capacità di dialogare con le carte internazionali che hanno un contenuto parimenti costituzionale e offrono anch’esse tutela e riconoscimento ai diritti inviolabili: «l’apertura verso l’esterno, lungi dal costituire una deminutio della nostra Costituzione, si traduce in una esaltazione di alcuni valori che ne stanno alla base» (XVII e 378, nelle conclusioni). Questo orientamento si manifesta nei due fili conduttori che percorrono l’intero studio. Il primo attiene al fondamento costituzionale della CEDU, che non dovrebbe limitarsi ad una norma essenzialmente procedurale come l’art. 117, comma 1, Cost., ma radicarsi in norme sostanziali, relative sia all’apertura all’ordinamento internazionale (artt. 10, comma 1, e 11 Cost.), sia alla tutela dei diritti (artt. 2 e 3 Cost.). L’art. 2, in particolare, è ritenuto «il parametro costituzionale più idoneo ad offrire copertura alle norme convenzionali», anche se, si ammette, non è molto presente nella giurisprudenza costituzionale perché non viene invocato nelle ordinanze di rimessione (137). Il secondo filo conduttore, di carattere metodologico, guarda al rapporto tra gerarchia delle fonti e interpretazione. L’A. ritiene inadeguata una prospettiva solo formalistica del rapporto tra cataloghi dei diritti e, «pur tenendo a mente la gerarchia delle fonti», sposa un approccio sostanzialistico che guardi all’intensità delle tutele. Nella Parte Seconda, cap. II, in particolare, l’A. ripercorre i passaggi letterali della giurisprudenza costituzionale successiva al 2007 che hanno confermato la posizione infracostituzionale della Convenzione. L’utilizzo della categoria delle norme interposte non è contestato in sé, poiché si tratta di categoria eterogenea comprensiva di fonti di diverso rango ed efficacia, ma è criticato nella misura in cui è funzionale ad una impostazione formalistica e porta con sé una connotazione gerarchica che mal si sposa, secondo l’A., con l’integrazione tra ordinamenti. Si dovrebbe preferire, invece, una visione maggiormente sostanzialistica per soddisfare le esigenze del costituzionalismo multilivello (151-152).
La necessità di un approccio sostanzialistico è ripresa nel cap. III della Parte Seconda, dedicato a due vicende di conflitti tra giurisprudenza convenzionale e costituzionale. La vicenda delle leggi di interpretazione autentica (190-209) è utilizzata per dimostrare come il criterio del vincolo alla sola «sostanza» della giurisprudenza convenzionale, enunciato dalla Corte costituzionale per giustificare un proprio margine discrezionale, abbia provocato un irrigidimento di Strasburgo e appaia, perciò, inadeguato alla tutela dei diritti. La vicenda della revisione del giudicato penale, ripercorrendo nel dettaglio, tra gli altri, i casi Dorigo, Scoppola, Contrada, è, all’opposto, un esempio positivo di «prospettiva (prevalentemente) sostanziale-contenutistica» del rapporto tra CEDU e Costituzione.
Nelle Conclusioni, tirando le fila, l’A. ritiene che la giurisprudenza costituzionale oscilli tra un’impostazione dualistica, sempre tenuta ferma dalla Corte costituzionale dal 2007, e momenti di ispirazione monistica, che andrebbero ampliati (379). Il dialogo tra Corti è ritenuto proficuo e le eventuali discrasie risolte con spontanei e progressivi aggiustamenti. L’A. vede con favore la crescente centralità del ruolo del giudice comune, valorizzato dalla sempre maggiore incidenza delle fonti internazionali determinata dalla globalizzazione (382). Sempre nelle Conclusioni l’A. prende posizione su alcuni punti considerati critici della giurisprudenza costituzionale. In primo luogo, vi è l’invito a rimeditare l’esclusione della CEDU dalla copertura costituzionale dell’art. 11 Cost., pur ammettendo le diversità tra sistema convenzionale e ordinamento eurounitaro (nel dettaglio 141). Questa copertura non dovrebbe comportare automaticamente un avallo alla disapplicazione di norme interne contrastanti con la Convenzione, che potrebbe però ammettersi in presenza di norme convenzionali ricognitive di norme internazionali generalmente riconosciute ai sensi dell’art. 10, comma 1 Cost. In secondo luogo, si auspica che la CEDU, come il diritto europeo, possa essere subordinata al rispetto dei soli principi fondamentali della Costituzione e non di tutte le sue norme, di principio e di dettaglio (nel dettaglio 142, 151). Ancora, quanto ai connotati del parametro, si ritiene che l’interpretazione di Strasburgo sia sempre da seguire, non soltanto quando vi è un diritto convenzionale consolidato, come affermato dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 49 del 2015 (384 e nel dettaglio 171-180). Infine, sotto il profilo del rapporto tra gerarchia delle fonti e interpretazione, l’A. auspica che sia raggiunto «un equilibrio tra il profilo formale di sistemazione delle fonti e quello sostanziale», sostenendo che se non si può fare a meno di prestare attenzione alle forme, occorre non irrigidirsi troppo su di esse (385), poiché CEDU e Costituzione incidono sulla stessa materia costituzionale. L’A. aderisce, perciò, alla dottrina che ritiene che nessuna delle Corti possa rivendicare per sé uno «sterile primato», poiché comuni sono gli obiettivi di tutela e perché, nel sistema multilivello, il mancato rispetto di Strasburgo non esclude che l’esito che si voleva scongiurare sia ottenuto a Lussemburgo. L’invito è, dunque, a dare scrupolosa osservanza alle sentenze di Strasburgo, applicando in maniera stringente l’art. 46 CEDU, poiché la Corte EDU in materia di diritti fondamentali ha comunque processualmente l’ultima parola. In chiusura, sempre in tema di rapporto tra posizione formale delle fonti e interpretazione, l’A. richiama la dottrina secondo cui «non è più la norma giuridica al centro del sistema, ma gli interessi visti alla luce dei valori fondamentali assunti dall’ordinamento costituzionale sotto diverse forme, principale tra le quali quella dei diritti fondamentali» (390). Solo una visione sostanzialistica consentirebbe, infatti, di andare al cuore della tutela dei diritti e di dare una spinta vigorosa al processo di integrazione, inverando il carattere personalista che permea la Costituzione (390).
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I temi trattati nel volume, come lo stesso A. dichiara in apertura, sono negli anni recenti stati oggetto di innumerevoli pagine. L’impostazione prescelta e le tesi sviluppate, che guardano alla Convenzione dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale in termini di rapporto tra fonti e interpretazione, non paiono particolarmente nuove, ma il volume si apprezza per la sua completezza. La scelta dell’A. di dichiarare da subito l’orientamento da cui si muove – la prospettiva “integrazionista” – è apprezzabile, perché consente al lettore di sapere da che prospettiva, anche ideale, e non solo giuridica, si colloca l’A. e di giocare, per così dire, a carte scoperte. Tuttavia, in un volume così ampio, avrebbero meritato spazio, seppure in chiave critica, le posizioni dottrinali che a questa prospettiva non aderiscono. Si tratta di orientamenti che erano minoritari a cavallo degli anni duemila e per i quali i diritti costituzionali offrono maggiore tutela rispetto a quelli convenzionali e europei sia sotto il profilo contenutistico, in particolare per ciò che attiene ai limiti ai singoli diritti, sia sotto il profilo delle garanzie rimesse agli attori politici (la riserva di legge innanzitutto) e giurisdizionali. Negli anni della crisi economica, si sono ingrossate le fila di coloro che hanno messo in discussione quello che, ben prima della crisi, era stato definito un costituzionalismo irenico, poiché si è preso atto che le tutele internazionali, sia convenzionali che europee, non sono state in grado di arginare il progressivo impoverimento dei diritti. Ripercorrere queste dottrine e i loro argomenti, pur non condividendoli, avrebbe rafforzato l’orientamento dell’A., dando ad esso un “controcanto” e mostrando i punti di forza della propria impostazione. Ancora, il volume si dedica alla sola sfera giurisdizionale, ma proprio l’apprezzato intento dichiarativo iniziale avrebbe potuto spingere a rendere esplicita la scelta di non ragionare dell’attuazione dei diritti da parte delle istituzioni politiche.
In secondo luogo, l’analisi pare prendere le mosse da una concezione molto astratta dei diritti. Lo si coglie in diversi passaggi. Nelle pagine dedicate all’interpretazione conforme (181-190), per esempio, si osserva che difficilmente norme convenzionali potrebbero determinare una violazione della Carta costituzionale poiché tutte le Carte sono volte alla valorizzazione della persona. Ancora, che l’eventualità di un contrasto è rara, se non altro perché lo Stato non avrebbe potuto aderire alla CEDU se non a prezzo di una violazione della Costituzione. Si conclude che non sia il caso di tracciare una gerarchia tra le diverse modalità di interpretazione conforme, convenzionale e costituzionale, in quanto il giudice non può preferire l’una o l’altra, dovendo privilegiare quella che, caso per caso, «sia in grado di servire meglio la causa dei diritti». La stessa impressione di astrattezza si ha quando l’A. tenta di definire che cosa sia la «tutela più intensa», tale da determinare la prevalenza di una fonte sull’altra non in via gerarchica, ma caso per caso nell’interpretazione. Il giudice comune dovrebbe rilevare se la soddisfazione del diritto del singolo comporti un costo più elevato per i diritti dei terzi oppure no e, «… qualora venissero pregiudicati diritti di altri soggetti, occorrerebbe fare una delicata operazione di bilanciamento tra tutti gli interessi coinvolti. Peraltro, in un’operazione siffatta, va altresì tenuto presente ogni altro bene-valore costituzionalmente protetto, soprattutto dell’intera collettività (ma forse, anche dello stesso soggetto), non di rado l’interesse privato dovendo confrontarsi con l’interesse pubblico (o, comunque, superindividuale), in vista del conseguimento del punto più alto di sintesi tra i valori in campo». L’A. assegna così al giudice comune il compito di porre in essere una «tutela sistemica» dei diritti – compito che per vero sembra più proprio di una Corte costituzionale. Molti direbbero che un giudice siffatto rischia di sostituirsi al legislatore e si espone al pericolo di soggettivismo, che pure l’A. richiama. Ma il punto è che il giudice agisce in uno spettro limitato: decide sulla domanda nell’ambito del contraddittorio, è vincolato alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato, conosce degli interessi per come le parti li qualificano in concreto e per come sono modulati in astratto dalle norme che si trova ad applicare. Una valutazione sistemica come quella auspicata dall’A. non appare, pertanto, realizzabile. Allo stesso modo, in altre parti del volume si sarebbe sentita l’esigenza di un approfondimento in merito agli istituti sostanziali all’origine di tensioni tra giurisprudenza convenzionale e costituzionale, per esempio il giudicato penale. Il giudicato, di cui l’A. correttamente osserva la diversa valenza nel diritto civile, penale e amministrativo, non è solo un “dogma”, ma è esso stesso volto alla tutela di diritti, ponendo un limite alla potestà punitiva dello Stato e evitando che un soggetto possa essere processato all’infinito su un fatto per il quale è già stato condannato. Una riflessione sulla struttura degli istituti sostanziali nell’ordinamento interno e sui beni e interessi costituzionali che essi intendono proteggere può essere la chiave per comprendere il distacco tra orientamenti delle Corti costituzionali e convenzionali.
La stessa impressione di astrattezza si ha nella ricognizione delle sentenze costituzionali successive al 2007. L’A. ha cura di riprendere i singoli passaggi motivazionali relativi al rango formale della Convenzione. Anche qui, sarebbe stato interessante fare qualche cenno all’oggetto del giudizio di costituzionalità, dando conto di come volta per volta sia stato dato seguito agli enunciati generali sulla posizione della CEDU, poiché nella giurisprudenza costituzionale lo stesso schema argomentativo può servire a costruire una convergenza o a giustificare una divergenza con la giurisprudenza costituzionale. Si dice questo perché l’astrattezza dell’analisi può condurre ad un eccesso di ottimismo. Per esempio, l’A. esprime compiacimento per il criterio della massima espansione delle garanzie enucleato dalla Corte costituzionale per definire i rapporti tra diritti costituzionali e convenzionali. L’obiettivo della Corte costituzionale sarebbe quello di «creare una rete di garanzie, intessuta grazie all’”integrazione” dei regimi di disciplina previsti da realtà ordinamentali diverse, per mezzo della quale realizzare non certo un minus, ma un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali» (226)». Il criterio sarebbe perciò in linea con lo spirito della stessa Carta costituzionale, muovendo verso l’universalizzazione dei diritti e l’integrazione tra ordinamenti e abbandonando l’idea che il diritto interno debba a tutti i costi prevalere. Ma in concreto il criterio è stato utilizzato a vantaggio dei diritti costituzionali, per recuperare un margine di autonomia e far prevalere un bilanciamento diverso da quello di Strasburgo.
Nel complesso, meriterebbe attenzione il portato storico dei diritti, la loro conformazione in ciascun ordinamento. Si crede fermamente, infatti, che ogni Carta costituisca un corpo vivo frutto della concretezza di una data esperienza storica. Non è stato così per la Carta di Nizza-Strasburgo, scritta da una convenzione pervasa da aspirazioni e pathos costituzionale, ma “a freddo”, ed è forse per questo che la Carta è debole nell’attuazione politica e omessa in alcune parti nell’applicazione giudiziale. Proprio le differenze di contesto ordinamentale fanno sì che l’innesto dell’una interpretazione sull’altra non sia indolore, ma comporti fisiologicamente una diversa definizione degli interessi generali rilevanti. Proprio in chi adotta una prospettiva integrazionista, che pure si condivide, questa consapevolezza deve essere particolarmente presente, per non cadere in petizioni di principio che possono esporsi alla facile critica di non cogliere la complessità del reale.