Recensione a M. Mezzanotte, La democrazia diretta nei Trattati dell’Unione europea, Padova, CEDAM, 2015.

Il volume di Massimiliano Mezzanotte risulta utile non solo perché ricostruisce dettagliatamente i due istituti che più “s’avvicinano” ad essere di democrazia diretta nei Trattati dell’Unione europea, ma anche perché – preliminarmente – li inquadra nel contesto del livello di democraticità dell’integrazione europea.
“Se la UE stessa dovesse presentare domanda per entrare tra i membri, dovremmo rispondere democraticamente insufficiente”. Questa la frase del commissario europeo Gunther Verheugen (durante la commissione Prodi e, quindi, prima del Trattato di Lisbona che, infatti, tenta di affrontare apertamente il “problema democratico”). Proprio dal deficit democratico che affligge l’Unione europea, sia per quanto riguarda la carenza di legittimazione che quella di accountability, prende le mosse Massimiliano Mezzanotte nel suo “La democrazia diretta nei Trattati dell’Unione europea”.

Il tentativo di rafforzare le forme di cittadinanza europea pare avere anche – e, forse, soprattutto – l’obiettivo d’attenuare il deficit democratico, con una fondamentale premessa: non è possibile calare nei nuovi scenari le logiche di partecipazione del costituzionalismo del XX secolo. Il deficit democratico nasce, infatti, dall’elusione di alcuni meccanismi attraverso i quali si realizza il principio democratico e, tra questi, vi è soprattutto quello, decisivo, della responsabilità politica.

Il “patriottismo costituzionale” europeo potrebbe essere, secondo l’Autore, la strada – seppure tortuosa – da intraprendere per giungere ad una compiuta democrazia europea. Peculiarità del patriottismo costituzionale è il suo basarsi non su di una logica fondazionale, bensì trasformativa: esso, infatti, “non mira ad individuare un sistema costituzionale, ma a confrontarsi con l’esistente, al fine di migliorarlo” (p. 16). Compito del patriottismo costituzionale sarebbe allora quello di formare una coscienza europea, di creare un dibattito comune tra i cittadini dell’Unione.

Se, almeno fino a Maastricht, il cittadino non si opponeva a quello che i governi decidevano in Consiglio, questa situazione è cambiata col c.d. “post-Maastricht blues” e si è manifestata per la prima volta col ‘no’ dell’Irlanda al Trattato di Nizza, nel 2001 (p. 19). Da qui l’inversione di rotta dell’Unione europea che a Laeken, pochi mesi dopo, sentiva la necessità d’accrescere trasparenza e partecipazione. Solo insistendo sui canali democratici e sugli strumenti legati al concetto di cittadinanza “si gioca la possibilità di sviluppare e, successivamente, rafforzare il patriottismo costituzionale all’interno dell’UE” (p. 24).

Anche se col Trattato di Lisbona si è avuta una svolta importante nel processo di democratizzazione dell’UE, il deficit democratico, secondo l’Autore, permane. Lo stesso patriottismo costituzionale, con Lisbona, deve ritenersi stabilizzato solo se inteso come oggettivazione dei valori: quello che ancora manca è l’accettazione espressa da parte dei cittadini. Se con Lisbona, infatti, almeno sotto il profilo sostanziale, l’Unione europea si è dotata di una costituzione, non si è risolto il problema di un patriottismo costituzionale che non rimanga solo passivo, ma che diventi democratico-partecipativo: ma perché questo si verifichi è necessario sentirsi appartenenti ad una comunità diversa da quella statale (p. 32). Questa la sfida principale del patriottismo costituzionale: riconoscersi davvero “uniti nelle diversità”. Per fare ciò è “necessario che il popolo si riconosca in un patto, che scolpisca in un documento tali scelte fondamentali, ovvero quei valori condivisi idonei ad edificare un nuovo ordine giuridico” (p. 33). Quello che manca alla Costituzione europea è la mancanza di un processo di adozione costituzionale popolare, che rende privo di legittimazione – dal basso – l’ordinamento esistente. L’esistenza, in questo senso, di una costituzione composita è lo specchio della mancanza di un demos europeo: vi sono demoi, ma non un solo demos.

Dopo questa complessa “introduzione”, che in questa sede s’è tentato di ricostruire nei suoi concetti principali (senza tuttavia la pretesa d’averne dato conto in maniera esauriente), l’Autore si sofferma sui percorsi democratici all’interno del Trattato di Lisbona: dalla democrazia rappresentativa a quella mediata e partecipata, per giungere infine alla domanda che, chiudendo il secondo capitolo, apre idealmente gli altri tre capitoli del Volume: esistono strumenti di democrazia diretta nell’ordinamento comunitario? Secondo l’Autore appare corretto, almeno per il momento, “ritenere che gli strumenti attualmente esistenti rappresentino un primo timido tentativo verso l’introduzione di istituti di democrazia diretta sebbene, allo stato, possa essere ancora alquanto problematico una loro collocazione all’interno di questa categoria” (p. 84).

Se, infatti, il diritto di iniziativa sembra potersi considerare lo strumento principe in tale prospettiva, per alcuni tale strumento è però da far rientrare tra le espressioni della democrazia partecipativa. Difficoltà definitorie, peraltro, devono rilevarsi anche per quanto riguarda il diritto di petizione: anche qui, infatti, si deve passare necessariamente attraverso l’intermediazione degli organi rappresentativi. È stato il Parlamento europeo stesso a sottolineare come tale diritto sia un’espressione della democrazia diretta. Proprio il Parlamento europeo, infatti, sembra essere l’organo che più di tutti “prende sul serio” le petizioni dei cittadini. Il punto centrale della riflessione rimane l’idea che anche in tali questioni definitorie le classificazioni elaborate a livello statale con difficoltà possono applicarsi all’Unione europea. Secondo l’Autore pare così preferibile considerare strumenti di democrazia diretta tutti quelli che, prevedendo l’iniziativa dei cittadini, portano all’attenzione degli organi UE alcune istanze dal basso. Con questa definizione devono includersi negli strumenti di democrazia diretta sia l’iniziativa che la petizione (rimane escluso, invece, il Mediatore). Irrisolta rimane però la questione degli effetti che producono questi istituti, poiché è da escludere che con questi il popolo vincoli le istituzioni.

Nei due capitoli successivi Massimiliano Mezzanotte esamina meticolosamente i due istituti. Per quanto riguarda l’iniziativa legislativa popolare, dopo averne esaminato la genesi, l’Autore pone l’attenzione sulla forma dell’atto da adottare e sui limiti al diritto, per poi passare ad una analisi delle prime esperienze applicative. Le conclusioni cui giunge riguardano l’impatto che l’istituto potrà avere sulle istituzioni europee e sui rapporti interorganici all’interno dell’UE. La Commissione non può infatti limitarsi a ignorare l’iniziativa popolare e insabbiarla. Potrebbe avere un comportamento simile a quello che instaura col Parlamento: impegnarsi dunque a “riferire sul seguito concreto dato a qualsiasi richiesta di presentare una proposta ai sensi dell’articolo 225 TFUE” (Accordo-quadro sulle relazioni tra il Parlamento europeo e la Commissione europea del 20 ottobre 2010). In questo caso la Commissione presenta una proposta entro un anno e, se non lo fa, fornisce al Parlamento una spiegazione dettagliata dei motivi. La domanda è se lo stesso procedimento debba valere per l’iniziativa legislativa popolare. Per tale motivo, le conclusioni non possono che essere in fieri: solo la prassi potrà dire se la Commissione giustificherà il perché non sia stato dato seguito ad una iniziativa popolare. Anche per quanto riguarda il diritto di petizione, dopo un’attenta analisi dell’istituto, l’Autore tenta di tirare le somme riguardo uno strumento rimasto (purtroppo) minore, uno strumento “spuntato”, che non riesce a influire significativamente non solo sulle istituzioni ma neppure sul dibattito tra di esse, nonostante l’estrema semplicità con la quale può essere utilizzato.

In conclusione, Massimiliano Mezzanotte non può che sottolineare “i molti dubbi e le poche certezze” che gli istituti di democrazia diretta promettono ai cittadini europei: ancora non è dato sapere quale potrà essere l’impatto reale di tali istituti. Questi primi passi verso l’affermarsi di strumenti di democrazia diretta hanno, soprattutto, un significato simbolico, poiché è difficile che riescano, almeno per il momento, a influenzare le decisioni delle istituzioni dell’Unione. Quello che li caratterizza è, allora, una efficacia di “natura squisitamente politica”.

Lo strumento che, secondo l’Autore, andrebbe valorizzato è quello referendario. Un referendum europeo permetterebbe “lo sviluppo e la formazione di una coscienza europea, a differenza degli altri strumenti esistenti, che si caratterizzano per essere basati su criteri che esaltano la frammentarietà” (p. 177). Il rischio – concreto – che si corre, è che gli istituti di democrazia diretta oggi presenti anziché avvicinare il cittadino alle istituzioni, lo allontanino: rischio che l’UE, tanto più in questo momento, non può correre. Il problema della democraticità dell’UE resta dunque, ancora una volta, irrisolto: è necessaria, come non mai, una vera costituzionalizzazione.

Non dev’essere stato facile scegliere d’occuparsi di un argomento come questo, di istituti poco conosciuti e che – almeno finora – non godono di grande successo, neppure a livello popolare.

In particolare, ad opinione di chi scrive, la questione della mancanza di un referendum europeo non può non collegarsi ai referendum sull’Unione europea che si tengono all’interno degli Stati membri. Basti pensare ai referendum con cui Francia e Paesi Bassi respinsero nel 2005 il trattato costituzionale. Referendum che hanno avuto inevitabilmente ripercussioni anche sulla forma di governo dell’UE: come è stato notato, infatti, è “sufficiente uno stallo nelle dinamiche della forma di governo anche in uno solo degli Stati membri per porre potenzialmente in crisi l’intera dinamica democratica” (N. Lupo, Parlamento europeo e parlamenti nazionali nella costituzione “composita” nell’Ue: le diverse letture possibili, in Rivista AIC, 3/2014, p. 4). Come rilevato, inoltre, da autorevole dottrina (A. Manzella, Sui principi democratici dell’Unione europea, Napoli, Edizioni Scientifiche, 2013) “la mouvance contro il famoso ‘deficit’ democratico aveva, infatti, celebrato il suo acme con i referendum contro la ‘costituzione europea’” e “un nuovo rifiuto referendario rischiava perciò di travolgere la stessa rappresentatività dei governi e dei parlamenti nazionali”. Anche per reagire a tale rischio il Trattato di Lisbona, oltre a sviluppare gli istituti di partecipazione dei cittadini europei, ha previsto un ruolo maggiore per i Parlamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione.

D’altro canto, la crisi finanziaria ed economica non si è limitata, negli ultimi anni, solo a “scuotere” l’Unione europea e le sue dinamiche, ma ne ha minato profondamente le basi, soprattutto in termini di solidarietà tra popoli. La democrazia partecipativa e quella diretta potrebbero allora essere gli strumenti, se è consentita una conclusiva opinione personale, sui quali rifondare l’integrazione europea. Le divisioni esistenti e che si sono fatte oggi ancora più prorompenti, come quelle tra stati “del nord” e stati “del sud” e tra stati “debitori” e stati “creditori” e, soprattutto, “la sfiducia nella volontà tedesca di lavorare per il bene comune e l’impotenza dimostrata dalle istituzioni europee di fronte alle crescenti ineguaglianze sociali” (I. Bremmer, Intervista, in Corriere della Sera, 1/09/2015, p. 5), potrebbero essere superate, almeno in parte, non solo dal rinvigorimento delle procedure rappresentative ma anche dall’ulteriore rafforzamento degli istituti europei di democrazia partecipativa e diretta, che coinvolgano nello stesso tempo Unione europea e Stati membri. Se, infatti, prima della crisi la questione del deficit democratico riguardava solo le istituzioni dell’UE, ora ha cambiato natura: riguarda, insieme, l’Unione e gli Stati in un comune destino politico. La crisi della prassi democratica, come scrive Manzella, “ha paradossalmente prodotto – in negativo – un grado di integrazione tra l’Unione e gli Stati (e fra gli Stati fra loro) che nessuna misura positiva aveva fin qui conseguito”. Ed è giunto forse il momento d’invertire la rotta con misure positive che possano, esse stesse, accrescere l’integrazione.

Da questo punto di vista, anche il referendum greco del 5 luglio 2015 non può che far riflettere. Se, infatti, qualcuno ha letto il referendum come la risposta di un piccolo paese alle politiche e ai sacrifici imposti da paesi più “forti”, non è mancato chi ne ha dato un’interpretazione opposta. A S. Fabbrini (S. Fabbrini, Referendum greco: democrazia o nazionalismo?, in www.eutopiamagazine.eu, 9/07/2015), in particolare, è sembrato appena il caso di far notare che la democrazia non vi è solo in Grecia, ma anche negli altri paesi dell’eurozona. Inoltre, come lo stesso Fabbrini continua, “se ogni paese dell’eurozona seguisse l’esempio e convocasse un referendum sull’accordo da raggiungere con il governo greco, che cosa succederebbe se i vari elettorati nazionali bocciassero quell’accordo?”. La risposta è semplice: “saremmo di fronte ad una democrazia contro un’altra democrazia, ad un popolo contro un altro popolo, ad una legittimità contro un’altra legittimità”. La soluzione è quindi ripensare i concetti di democrazia e di popolo, de-nazionalizzandoli.

Viene dunque da chiedersi se un referendum europeo non avrebbe potuto essere la risposta giusta. Infatti, gli strumenti di democrazia diretta che oggi esistono a livello dell’Unione non sono e non avrebbero mai potuto essere sufficienti. Invece, avrebbe potuto essere determinante un referendum europeo col quale superare i nazionalismi, oggi di ritorno; ammesso che in passato siano stati, almeno per qualche tempo, superati. Con la necessaria consapevolezza che, per dirla ancora con Manzella, “ogni vuoto di democrazia sarebbe immediatamente sfruttato dalle sempre presenti pulsioni anti-unioniste e di ri-nazionalizzazione”.