Recensione a G. Sapir, D. Barak-Erez, A. Barak (eds.), Israeli Constitutional Law in the Making, Hart Publishing, Oxford – Portland, 2013, pp. 578.
È di recente pubblicazione, nella collana Hart Studies in Comparative Public Law, il volume “Israeli Constitutional Law in the Making”, curato da Gideon Sapir, Daphne Barak-Erez e Aharon Barak. La collettanea raccoglie gli atti di un convegno internazionale svoltosi nel 2011, al quale parteciparono studiosi israeliani e stranieri con l’intento di esaminare i temi costituzionali più delicati dell’unico paese di impronta giuridica occidentale situato nell’area islamica del Medio Oriente. La pubblicazione è redatta in lingua inglese con il chiaro obiettivo, indicato dai tre curatori nell’introduzione, di rendere conoscibile questo singolare ordinamento a livello internazionale, trattando le questioni di maggiore complessità che fin qui ne hanno modellato la storia costituzionale. Se contributi sulle tematiche affrontate si possono trovare con relativa facilità in riviste specializzate e in miscellanee, per la sua ricchezza questa raccolta colma una lacuna nel settore.
La collettanea consta di trentatré saggi, ripartiti all’interno di nove sezioni, ognuna delle quali si chiude con un commento scritto da un autore straniero. La prima parte si intitola “Towards a Full-Fledged Constitution” ed è focalizzata sull’opportunità o meno di adottare una costituzione formale. Si tratta di un dibattito noto ai cultori del diritto israeliano. Tale sistema è fra i più atipici al mondo per non avere ancora concluso il processo costituente a quasi settant’anni dalla fondazione dello Stato, fermo alla stesura di undici Basic Laws (e successive modifiche) che non coprono tutte le materie tradizionalmente disciplinate in una carta fondamentale. I contributi analizzano rispettivamente le diverse funzioni che assolve la costituzione (Gideon Sapir), la necessità di completare la stesura del testo (Alon Harel), il rilievo delle Basic Laws e del controllo di costituzionalità delle leggi (Ariel L Bendor), chiudendosi con delle considerazioni sul costituzionalismo alla luce dell’esperienza statunitense (Sanford Levinson).
La seconda sezione, “Models of Judicial Review in Israeli Constitutional Law”, è strettamente legata alla prima. Alcune Basic Laws contengono delle clausole rinforzate che vietano la modifica dei rispettivi articoli o delle leggi fondamentali nella loro interezza, se non con apposite maggioranze. Da qui il fondamento del controllo di costituzionalità delle leggi, introdotto in via giudiziale dalla corte suprema in analogia all’ordinamento statunitense. La sezione si dipana intorno alla notwithstanding clause di derivazione canadese, alla legittimazione dei giudici e alle critiche mosse al sindacato diffuso. Tsvi Kahana apre il discorso analizzando la notwithstanding clause presente nella Basic Law: Freedom of Occupation del 1994. Si tratta di un meccanismo di flessibilizzazione che lascia ampi margini di intervento al parlamento, disponendo che disposizioni legislative in contrasto con i diritti garantiti dalla Basic Law saranno comunque valide per un periodo di quattro anni, rinegoziabile a ogni scadenza. Solo che mentre in Canada è difficile emendare la costituzione e quindi l’istituto è potenzialmente utile poiché la sua attivazione impone la stessa maggioranza prevista per adottare le leggi ordinarie, in Israele risulta paradossale il fatto che sia per emendare la Basic Law sia per introdurre la legge derogatoria è richiesta la medesima maggioranza, quella assoluta. Anche Yoav Dotan accoglie la prospettiva comparata per delineare tre modelli di controllo di costituzionalità (statunitense, europeo, dei paesi di common law) e per illustrare le caratteristiche che accostano Israele a ordinamenti quali Canada, Australia, Nuova Zelanda, India. Joshua Segev esamina l’evoluzione giurisprudenziale della corte suprema in merito alla giustificazione del judicial review, suddivisibile in tre fasi metodologiche. Dopo le fasi pragmatica (dalla sentenza Bergman del 1969, con l’introduzione del sindacato di costituzionalità solo formale, priva di giustificazione del controllo) e radicale (con la nota decisione del 1995 che diede avvio al controllo sostanziale, giustificando il fondamento del judicial review), ora ci troveremmo nella fase conservativa. Ravvisabile dal 2003, essa si distingue per lo scetticismo nei confronti di teorie legittimatorie limitate a pochi obiettivi e principi, sostenendo invece l’importanza del contesto storico-sociale. Da qui un pensiero che fonda la legittimità del controllo sulle relazioni sociali, le norme e le convenzioni basate su precedenti, tradizioni e prassi condivise. Il contributo di Ori Aronson ruota attorno al dibattito pubblico israeliano sul modello di judicial review, che sembra convergere verso la preferenza per il sindacato di tipo accentrato, sostenendo invece l’opportunità di mantenere un sistema diffuso. In finale si colloca il commento di Victor Ferreres Comella.
La terza parte è dedicata a “Global Impacts on Israeli Constitutional Law”. Il discorso sui richiami dei giudici al diritto straniero è approfonditamente svolto da Iddo Porat, che ricostruisce le ragioni di tale ampio uso da parte della corte suprema israeliana. Moshe Cohen-Eliya affronta il tema del costituzionalismo trasformativo ricordando l’influenza del pensiero liberale occidentale sul diritto israeliano. Margit Cohn si focalizza sulla diffusione del principio di proporzionalità aprendosi alla prospettiva comparata. A Vicki C Jackson è affidata la chiusura della sezione, tirando le fila degli interventi. La quarta parte, “Balancing in Israeli Constitutional Law”, prosegue nella disamina del concetto di proporzionalità, offrendo uno spaccato dei pericoli insiti nel bilanciamento dei diritti umani (Mordechai Kremnitzer) e del bilanciamento nell’ambito della libertà di parola (Yaacov Ben-Shemesh), con un commento conclusivo di Sujit Choudhry.
Le successive sezioni vertono sulla protezione dei diritti, tema quanto mai controverso a causa della mancata stesura di un bill of rights e della scarna disciplina offerta dalle due Basic Laws in materia (Human Dignity and Liberty e Freedom of Occupation) approvate nel 1992. “Unenumerated Rights in Israeli Constitutional Law” forma la quinta parte, che si apre con il saggio di Tamar Hostvsky Brandes sulla dignità umana quale pilastro fondamentale della giurisprudenza israeliana. È proprio mediante una lettura a maglie larghe di tale bene che la corte suprema ha riconosciuto diritti non positivizzati, quali il principio di eguaglianza, la libertà di parola e di religione. L’interpretazione giudiziale lascia però ampio spazio a critiche circa il significato da attribuire alla dignità, concetto polisenso passibile di diverse sfumature semantiche. Segue il contributo di Sharon Weintal, incentrato sulla giustificazione di una teoria olistica del diritto costituzionale che incorpori l’operato della corte suprema israeliana. Sotto questo profilo, la dottrina dei diritti non enumerati viene presentata come un elemento essenziale della c.d. three-track democracy theory, in quanto fungerebbe da ponte fra il ruolo dei giudici costituzionali nella società e l’armamentario a loro disposizione per tutelare gli interessi della collettività. David Fontana termina con alcune riflessioni su questi due interventi.
La sesta parte, “Social Rights in Israel”, ruota attorno allo status costituzionale dei diritti di prestazione, desunti dal concetto di dignità umana, e alla loro attuazione, di portata limitata. Gli articoli ivi inclusi sono volti alla ricerca del contenuto essenziale del diritto alla salute, ravvisabile nelle condizioni minime per una esistenza dignitosa (Aeyal Gross), alle obiezioni di natura fiscale verso i diritti sociali, con richiami alle esperienze straniere (Amir Paz-Fuchs), alla cittadinanza sociale, riconosciuta solo a certe categorie di soggetti, e alle condizioni di ammissibilità nei giudizi sui diritti di prestazione (Neta Ziv), lasciando le conclusioni a Mark Tushnet.
“Constitutional Rights and Private Law” è la settima parte del volume, nella quale Aharon Barak e Michal Tamir si interrogano sull’applicazione dei diritti nell’ambito privatistico. Barak delinea quattro modelli relativi ai diritti individuali, in funzione della loro applicazione solo contro lo Stato (effetto verticale) o anche contro altri individui (effetto orizzontale). Israele ricadrebbe nel c.d. indirect application model, dove i diritti individuali si applicano direttamente contro lo Stato e solo indirettamente avverso terzi, del pari a Germania, Italia, Paesi Bassi. Tamir prosegue nello sviluppo del indirect application model focalizzandosi sul diritto contrattuale e prospettando dei criteri da applicare per risolvere le controversie giudiziarie, mentre Stephen Gardbaum chiude la sezione commentando i due interventi.
L’ottava parte è dedicata a “Constitutional Rights and State of Emergency”, tema denso di implicazioni sulla tenuta della democrazia a causa del fatto che in Israele lo stato di emergenza non è mai venuto meno dal momento della sua fondazione. Daphne Barak-Erez evidenzia i fondamenti normativi e giurisprudenziali che concorrono a formare il quadro giuridico della sicurezza nazionale, e segnala la debolezza del controllo parlamentare e l’importanza del judicial review in questo ambito. Barak Medina analizza il ruolo della Knesset nel rispondere agli attacchi terroristici. Nel tempo questo ruolo è divenuto molto significativo in ordine alla definizione delle misure da adottare, offrendo legittimazione più che ponendo limiti all’uso della forza. Adam Tomkins chiude i lavori della sezione svolgendo delle considerazioni sul Regno Unito alla luce dell’esperienza israeliana.
L’ultima parte della collettanea, “Israel – Jewish and Democratic”, tratta la questione ebraica e il suo rilievo nell’ordinamento giuridico. Richiamandosi alle correnti del sionismo, Chaim Gans delinea il modello di Stato israeliano seguendo la prospettiva religiosa. Aviad Bakshi e Gideon Sapir incentrano la loro attenzione sulla riunificazione familiare dei cittadini israeliani con mogli palestinesi, valutando la misura in cui l’identità ebraica dello Stato incide sulla politica immigratoria, fattasi più restrittiva nell’ultimo decennio. Anche Gila Stopler, nell’analizzare il rapporto Stato-religione e l’espansione del potere degli ultra-ortodossi, ricorda la stretta correlazione fra ebraismo e identità nazionale, dalla quale discendono il divieto di matrimoni misti e la politica di apertura verso gli immigrati ebrei dall’ex Unione sovietica. Il commento finale ai tre contributi è affidato a Susanna Mancini e Michel Rosenfeld.
L’impressione che si trae dalla lettura del libro è che vi sia un unico protagonista della scena giuridica, la corte suprema. Il parlamento viene relegato ai margini del volume, essenzialmente nel contesto della sicurezza nazionale. Il governo è il grande assente di questa operazione editoriale. Per una collettanea che ha l’ambizione di fare conoscere il sistema giuridico israeliano al di fuori dei confini nazionali, spiace notare questa mancanza. Anche lo spazio riservato ai vari temi risulta sbilanciato su alcune questioni, a scapito di altre. Ad esempio, non vi è cenno alla forma di governo, sebbene negli anni Novanta l’ordinamento israeliano sia divenuto noto per l’elezione diretta del premier, salvo poi ritornare al sistema parlamentare. Né vengono affrontati aspetti inerenti alle fonti del diritto (oltre alle Basic Laws) o alla tutela delle minoranze religiose o alla costruzione della barriera di sicurezza, argomenti anch’essi delicati e problematici dal punto di vista costituzionale.
Al di là di queste riflessioni, il volume è una fonte ricca di dati aggiornati al 2012 e di alto spessore scientifico. I contributi forniscono modelli, chiavi di lettura, annotazioni storiche, aprendosi in molti casi alle esperienze straniere per osservare lo sviluppo dello Stato di Israele in un contesto più ampio. Uno strumento di lavoro indispensabile per tutti i cultori di questo ordinamento.