Rapporti tra CEDU e diritto interno: Bundesverfassungsgericht e Corte costituzionale allo specchio
“Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”, chiedeva ansiosa e speranzosa la matrigna di Biancaneve, nella nota favola popolare resa famosa dalla versione dei fratelli Grimm. E lo specchio puntualmente, e senza esitazione alcuna, emetteva il suo impietoso verdetto per l’interrogante.
Fuor di metafora, se mettessimo davanti allo specchio magico il Tribunale costituzionale tedesco e la Corte italiana, sarebbe assai problematico stabilire chi si fa più bello davanti agli occhi della CEDU e della sua vestale, la Corte di Strasburgo, alla cui giurisprudenza la Convenzione deve la sua crescente fortuna.
Questa riflessione mi viene sollecitata dalle più recenti pronunzie della nostra Corte (e, in particolare, dalle sentt. nn. 80 e 113 del 2011) e dall’ultima pronunzia del Bundesverfassungsgericht, del 4 maggio 2011, in causa 2365/09 (presentata in www.diritticomparati.it da A. Di Martino, Ancora sulla efficacia della CEDU nel diritto interno: il BverfG e la “detenzione di sicurezza”).
Come sempre, le decisioni dei tribunali (specie quelle dei tribunali costituzionali) si prestano ad essere riguardate da varî punti di vista; e possono, perciò, persuadere per l’un verso e non pure per l’altro o, diciamo pure, di più per l’uno che per l’altro. Nei primi commenti in circolazione che ho avuto modo di consultare, mi pare però che sia rimasto in ombra o, comunque, non adeguatamente messo a fuoco un aspetto che invece ai miei occhi appare essere proprio quello forse degno della maggiore attenzione, dal momento che a conti fatti investe e rimette in gioco l’opzione metodica posta a base dal giudice, da cui quindi ne discende l’esito ricostruttivo nel singolo caso raggiunto.
Le giurisprudenze qui fatte oggetto di un succinto raffronto esibiscono, a mio modo di vedere, tratti comuni e tratti diversi (e divergenti), sì da rendersi appunto non poco problematico stabilire quali siano quelli più armoniosi e seducenti.
Comune è la simultanea ambientazione dell’esame della questione al duplice piano della teoria delle fonti e della teoria dell’interpretazione; e comune è altresì la divaricazione dell’inquadramento all’uno ed all’altro operato dei rapporti interordinamentali, con oscillazioni ora più ed ora meno vistose ed anche qualche ambiguità ad oggi non in tutto rimossa. E, in verità, perché talune idee particolarmente innovative riescano a farsi strada e ad entrare in circolo, facendosi quindi metabolizzare dall’organismo che le fa proprie, ci vuole appunto del tempo. Qui, poi, come tenterò di mostrare, sia pure entro il ristretto spazio di cui dispongo, vengono addirittura a trovarsi sotto stress talune delle più risalenti credenze al piano delle dottrine costituzionali, fino ad esserne investita la stessa teoria della Costituzione. Si spiega, dunque, in ciò la gradualità dei passi fatti lungo il “cammino” – per riprender la felice espressione di un’autorevole, non dimenticata dottrina, riguardante i rapporti col diritto (allora) comunitario – che va portando i giudici nazionali ad avvicinarsi alle posizioni delle Corti europee, se non pure ad approdare interamente alla sponda in cui esse si trovano.
Ma vediamo quali sono dunque le somiglianze e quali invece i punti di distacco negli indirizzi ad oggi delineati in fatto di rilievo della CEDU in ambito interno.
Al piano della teoria delle fonti, entrambi i giudici tengono nettamente distinto (e “graduato”) il posto detenuto nel sistema degli atti normativi dalla CEDU rispetto alla Costituzione, non riconoscendosi all’una quella forza “paracostituzionale” che invece a mia opinione le spetta, in ragione della materia trattata e, soprattutto, del modo della sua trattazione, che le attira la formidabile “copertura” dell’intero fascio dei principi fondamentali dell’ordinamento.
Lo stacco sembra essere maggiore nella giurisprudenza tedesca che – ci conferma la pronunzia qui succintamente annotata – assegna alla Convenzione la medesima forza che è propria delle leggi comuni (“Innerhalb der deutschen Rechtsordnung stehen die Europäische Menschenrechtskonvention und ihre Zusatzprotokolle – soweit sie für die Bundesrepublik Deutschland in Kraft getreten sind – im Rang eines Bundesgesetzes”: 87), diversamente – come si sa – dalla ricostruzione fatta propria dalla nostra Corte, in seno ad un quadro concettuale pure al proprio interno alquanto articolato. La CEDU è, infatti, per un verso, qualificata come “subcostituzionale”, allo stesso tempo tuttavia negandosi che essa sia gerarchicamente equiordinata alle leggi comuni e, allo stesso tempo, che sia a queste sovraordinata; per un altro verso, si aggiunge che, nel momento in cui essa va ad integrare il parametro costituzionale, di quest’ultimo ripete la condizione e il rango, ponendosi dunque quale fonte quodammodo “costituzionale”.
Queste oscillazioni – se ci si pensa – sono, in realtà, dovute all’innesto nel tronco della teoria delle fonti di elementi tratti dalla teoria dell’interpretazione.
In primo luogo, si tratta infatti – ci dice la Corte – di vedere se la CEDU si dimostri in grado di superare il vaglio preliminare al quale tutte le fonti interposte sono soggette, costituito dalla sua conformità (o, meglio, compatibilità) rispetto al dettato costituzionale. La qual cosa può aversi in applicazione di certe tecniche interpretative, tra le quali è quella che vorrebbe irrigidita l’interpretazione della Convenzione, in tutto e per tutto allineata a quella somministrata dalla Corte di Strasburgo (su di che, invero, molto si potrebbe dire). Una volta acclarata siffatta conformità (o compatibilità), la CEDU, pur nascendo – se così possiamo dire – come fonte “subcostituzionale”, diventa (o si commuta in) fonte “costituzionale”, a quest’ultima dunque restando in tutto e per tutto assimilata, tanto da porsi quale parametro nei giudizi di validità aventi ad oggetto leggi sospette di violarla.
Se al piano della teoria delle fonti la CEDU, nella visione che mostra di averne il Tribunale tedesco, sembra trovarsi in una condizione deteriore rispetto a quella in cui versa secondo l’indirizzo fatto proprio dalla Corte italiana, al piano della teoria dell’interpretazione le cose parrebbero stare diversamente. L’obbligo di interpretazione conforme al diritto convenzionale è dal nostro giudice costituzionale in modo martellante predicato unicamente per le leggi; perlomeno, così è a tutt’oggi. Di contro, il giudice tedesco sollecita una interpretazione völkerrechtsfreundlich della stessa Costituzione, allo stesso tempo però avvertendo che in nessun caso potrà assistersi ad un indebolimento delle garanzie offerte ai diritti fondamentali dalla Carta costituzionale [“Der Konventionstext und die Rechtsprechung des Europäischen Gerichtshofs für Menschenrechte dienen nach der ständigen Rechtsprechung des Bundesverfassungsgerichts auf der Ebene des Verfassungsrechts als Auslegungshilfen für die Bestimmung von Inhalt und Reichweite von Grundrechten und rechtsstaatlichen Grundsätzen des Grundgesetzes, sofern dies nicht zu einer – von der Konvention selbst nicht gewollten (vgl. Art. 53 EMRK) – Einschränkung oder Minderung des Grundrechtsschutzes nach dem Grundgesetz führt” (88). E ancora: “Grenzen der völkerrechtsfreundlichen Auslegung ergeben sich aus dem Grundgesetz. Sie darf zunächst nicht dazu führen, dass der Grundrechtsschutz nach dem Grundgesetz eingeschränkt wird; das schließt auch die Europäische Menschenrechtskonvention selbst aus” (93)].
Ora, è vero che la stessa giurisprudenza italiana ha da tempo avvertito che tra la Carta costituzionale e le Carte dei diritti si intrattiene un flusso ininterrotto di mutua alimentazione semantica, integrandosi e completandosi i documenti in parola a vicenda nei fatti interpretativi. E, tuttavia, la illuminata intuizione espressa da Corte cost. n. 388 del 1999 (red. Zagrebelsky) non sembra essere stata sfruttata appieno nell’ormai nutrito drappello di pronunzie successive (specie, appunto, di quelle relative alla CEDU), dalle quali in modo vistoso emerge l’indirizzo, sopra accennato, volto ad astringere unicamente le leggi comuni all’obbligo dell’interpretazione convenzionalmente orientata. L’idea che anche la Costituzione possa, per la sua parte, piegarsi davanti ad altri documenti materialmente costituzionali, siccome essi pure idonei a dare riconoscimento e tutela ai diritti, non sembra dunque rientrare – quanto meno al presente – nell’orizzonte culturale del giudice italiano delle leggi.
È interessante notare che l’una e l’altra Corte parrebbero prefigurare l’avvio e la maturazione di un duplice processo interpretativo, all’esito del quale l’operatore è quindi sollecitato ad adottare i provvedimenti del caso.
Per il giudice tedesco, in una prima fase si tratta di interpretare leggi e Costituzione in modo völkerrechtsfreundlich (in realtà, le cose già a questo stadio sono complicate a motivo del fatto che le leggi richiedono di essere sottoposte a verfassungskonforme Auslegung, nel mentre la stessa Costituzione va quindi essere intesa in senso orientato verso la Convenzione). Ove però l’esito di siffatta interpretazione dovesse apparire tale da risultarne indebolite le garanzie dei diritti risultanti dalla Costituzione, ed allora l’interpretazione ispirata dal diritto esterno è come se si trovasse obbligata a riavvolgersi su se stessa, cedendo il passo a quella – diciamo così – di mero diritto interno. L’ordine può, naturalmente, essere invertito, facendosi dapprima luogo all’interpretazione che si avvale dei soli materiali di diritto interno e poi l’altra estesa ai materiali di origine esterna e verificando quindi la compatibilità dei rispettivi esiti. Nei fatti, ovviamente, le cose non mutano nei due casi.
In disparte però la stranezza di utilizzare a parametro dell’interpretazione degli enunciati di diritto interno una fonte che è ad essi equiordinata (quanto agli enunciati legislativi) o, addirittura, subordinata (quanto a quelli costituzionali), non è chi non veda le aporie ricostruttive insite in un siffatto modo di vedere le cose, che sollecita a tenere innaturalmente separati o – peggio – contrapposti i materiali in campo, laddove gli uni non possono comunque fare a meno degli altri, tutti abbisognando di farsi reciproco rimando e di sorreggersi ed implicarsi a vicenda, al punto di rendersi a conti fatti indistinguibili nei fatti interpretativi e per le esigenze dell’applicazione, in vista del conseguimento del punto più alto di sintesi assiologica, a beneficio dei diritti.
Su questo terreno, invero, si realizza una convergenza negli orientamenti dei giudici di entrambi i Paesi. Anche per la nostra Corte, la CEDU è inutilizzabile ove appaia agli occhi dell’operatore meno idonea a servire i diritti di come gli sembri essere una legge nazionale (non indugio ora sulla puntuale ricostruzione del pensiero della Corte, invero alquanto problematica ad aversi a motivo della laconicità delle espressioni ricorrenti nelle sue pronunzie, specie per ciò che attiene agli obblighi gravanti sugli operatori nella eventualità, dalla stessa Corte peraltro giudicata “remota” – sent. n. 93 del 2010 e 80 del 2011 –, che una norma convenzionale dovesse in un caso dimostrarsi inidonea ad integrare il parametro costituzionale; mi limito al riguardo solo a riproporre la tesi, altrove argomentata, secondo cui la norma stessa dovrebbe considerarsi irrilevante per la definizione del caso, restando nondimeno integra la possibilità di un suo proficuo utilizzo in altri casi).
Sta di fatto che il principio della integrale e ferma osservanza degli obblighi internazionali – ci dice la nostra Corte, già a partire dalla prima delle pronunzie “gemelle” del 2007 – soggiace ad eventuale bilanciamento con altro principio che si dimostri idoneo ad offrire tutela a beni costituzionalmente meritevoli; e, ove quest’ultima dovesse essere giudicata prioritaria rispetto a quella discendente dal diritto internazionale (o sovranazionale), ecco che l’operatore è, per ciò solo, sgravato dell’obbligo cui è altrimenti chiamato dall’art. 117, I c., di denunziare l’invalidità della legge nazionale incompatibile rispetto alla Convenzione. Ciò che conta, insomma, è rinvenire ogni volta la soluzione che offra la più “intensa” tutela ai diritti, all’intero sistema dei diritti (e, più in genere, dei beni costituzionalmente protetti). È questa la lezione che ci viene impartita sia dal Tribunale tedesco (nella parte in cui qualifica come sussidiario il ruolo della CEDU in rapporto al dettato costituzionale) che – e, forse, con ancora maggiore determinazione e precisione – dalla nostra Corte, specie con la sent. n. 317 del 2009 e, in modo a mia opinione ancora più espressivo, con la sent. n. 113 del 2011. In nome di cos’altro un principio supremo dell’ordinamento, qual è quello della certezza del diritto alla cui salvaguardia per sua natura si volge il giudicato, può infatti trovarsi obbligato a recedere, se non nel bisogno di fissare ancora più in alto il punto di tutela (di una tutela sostanziale, non meramente nominale) dei diritti?
La certezza del diritto parrebbe, dunque, doversi fare da parte allo scopo di dare appagamento alla certezza dei diritti, vale a dire – a conti fatti – alla loro effettiva salvaguardia, alle condizioni oggettivo di contesto.
In realtà, anche dietro un siffatto modo di vedere le cose si annida un vizio metodico-teorico di costruzione, reso evidente già solo dal richiamo alle ragioni originarie (e, però, tuttora validissime) del costituzionalismo liberale. Perché – come insegnavano i rivoluzionari francesi di fine Settecento – il solo significato possibile di “Costituzione” è quello che si ha e rende tangibile in quegli ordinamenti nei quali sono riconosciuti i diritti fondamentali e, proprio per ciò (in vista, cioè, della loro effettiva tutela), è disposta la separazione dei poteri.
Questa è la sola certezza di diritto costituzionale che conosciamo e riconosciamo: quella cioè che per intero si converte e risolve, nell’esperienza costituzionale vivente, in certezza dei diritti costituzionali. Senza di questa, quella non è niente; con questa è tutto.
Ecco perché la questione di cui oggi siamo tornati a discutere è, come segnalavo all’inizio di questa succinta riflessione, in nuce, una questione di teoria della Costituzione.
L’indicazione più preziosa che ci viene dall’ultima giurisprudenza della nostra Corte – non saprei, per vero, dire con quanta consapevolezza – va ben oltre il pur rilevantissimo problema di diritto costituzionale specificamente risolto, investendo la stessa idea di Costituzione e di potere costituente.
Come si rammenterà, gli stessi rivoluzionari di fine Settecento e primo Ottocento si erano fatti persuasi che il potere costituente fosse onnipotente, potendo rifondare ex nihilo l’ordinamento, e perfetto, autosufficiente, l’atto da essi creato, la Costituzione, norma normans ma non normata. A questo “mito” ci siamo tutti abbeverati negli anni della nostra formazione e molti di noi in esso si riconoscono ancora pienamente. Non è un caso, ad es., se, nel presupposto della natura “sacrale” dell’atto fondativo del nuovo ordine costituzionale, si consideri l’organo istituzionalmente preposto alla garanzia del rispetto della Carta, il giudice costituzionale, quodammodo infallibile, esattamente come lo è il Romano Pontefice quando parla ex cathedra (art. 137, ult. c.).
Non è questa, tuttavia, la lettura – a me pare – più appropriata (e, da noi come altrove, meritevole di considerazione) della Costituzione come “sistema”. Non v’è, non può esservi una sola norma di chiusura del sistema e, per ciò pure, dei sistemi, nelle loro mutue, complesse relazioni; a maggior ragione, non lo è una norma strumentale (o, kelsenianamente, una norma sulla produzione giuridica). V’è piuttosto un fascio di norme aventi natura sostantiva, tutte ugualmente fondamentali, pensate allo scopo di edificare una società fondata sui valori di libertà, eguaglianza, pace e giustizia (valori nei quali emblematicamente si specchia e fedelmente rappresenta la dignità, che tutti li riassume e comprende). Valori la cui garanzia non può essere demandata, in ultima istanza, ad un solo giudice (ciò che farebbe correre il rischio micidiale, di cui già duemila anni addietro ci ammoniva Giovenale, nella sua VI Satira: quis custodiet ipsos custodes?), che, in quanto abilitato ad enunciare “verità” giuridicamente indiscutibili di diritto costituzionale, potrebbe per ciò solo, a conti fatti, commutarsi in una sorta di potere costituente permanente. Di contro, la garanzia più adeguata, nei limiti della umana imperfezione, specie nel presente contesto segnato da una integrazione sovranazionale ormai avanzata (pur se ancora complessivamente immatura), richiede – a me pare – lo sforzo congiunto, prodotto in spirito di effettiva ed intensa cooperazione, di una pluralità di organi, tutti ugualmente “costituzionali” (siccome preposti alla protezione dei diritti fondamentali) e tutti “pari” per dignità di rango (siccome “pari” sono, a mio modo di vedere e diversamente da quanto invece dichiarato sia dalla nostra Corte che dal Tribunale tedesco, le Carte al cui servizio essi prestano la loro opera).
Non c’è, non può esservi, in un quadro ricostruttivo siffatto, un prius o un posterius nei rapporti tra le Carte (e tra le Corti). Tutte sono piuttosto chiamate ad una sana gara al rialzo, a chi offre di più e di meglio a presidio dei diritti. È così che prende corpo e costantemente si rinnova la certezza del diritto costituzionale: nel suo farsi – come si diceva – nell’esperienza vivente certezza dei diritti costituzionali.
Le Costituzioni del secondo dopoguerra, quali la nostra e il Grundgesetz, mostrano, per l’aspetto di cruciale rilievo ora considerato, di aver avuto una intuizione feconda di cui tuttavia faticano a prendere consapevolezza i tribunali costituzionali, pur non facendo difetto nelle rispettive giurisprudenze alcune tracce promettenti ulteriori sviluppi nel senso qui auspicato. Una intuizione che si rende palese attraverso il riconoscimento fatto dalle Carte in parola della propria finitezza ed incompiutezza, col fatto stesso di aprirsi in modo risoluto al diritto internazionale e sovranazionale, senza il quale non può esservi pace e giustizia e, per ciò stesso, neppure libertà, eguaglianza, dignità. Una finitezza ed incompiutezza che – come si è veduto – può in realtà porsi quale una risorsa preziosa cui senza sosta attingere per rendere nel modo migliore giustizia.
Nell’idea che sono venuto facendomene, la struttura costituzionale è – come dire? – internamente “plurale”, al proprio interno accogliendo e ponendo sotto lo scudo protettivo dei principi fondamentali suddetti ogni documento normativo, quale che ne sia la origine e la forma, idoneo a dare senso, un senso costantemente rinnovato in ragione dei casi, alla Costituzione come “sistema”, a far vivere cioè la Costituzione nell’esperienza giuridica di ogni giorno magis ut valeat. Ecco perché, nel momento stesso in cui la Carta costituzionale si piega all’“alto” (e all’“altro”), essa – come vado dicendo da tempo – realizza appieno… se stessa, nell’armonica congiunzione dei suoi principi-valori, specie di quelli di libertà ed eguaglianza che danno senso alla dignità dell’uomo, nella quale è, a mia opinione, da vedere l’espressione più alta, emblematica, della humanitas della persona e, per ciò pure, l’espressione più alta dell’ordinamento, che nella persona stessa ha – come si sa – il perno attorno al quale ruota e dal quale stabilmente si tiene.
“Specchio, specchio delle mie brame…”. La più bella del reame è colei che per prima percepirà di doversi fare serva, non già padrona, dei diritti, non rivendicando per la Carta costituzionale di cui è garante un incondizionato, ma impossibile, primato rispetto alle altre Carte al piano della teoria delle fonti né rivendicando per sé il potere di dire l’ultima parola, al piano della teoria dell’interpretazione, in merito alla più adeguata salvaguardia da apprestare ai diritti. Il futuro (ma già il presente…) di questi ultimi non si affida a rapporti di sovra- e sotto-ordinazione né tra le Carte né tra le Corti bensì alla costituzione di circoli virtuosi di mutua alimentazione tra di esse, circoli che da se medesimi si ricaricano in modo incessante in un’esperienza per vero non di rado sofferta ma allo stesso tempo altresì gratificante per quanti in essa si spendono al servizio dei bisogni elementari dell’uomo, della sua dignità.
Trovo particolarmente suggestivo il riferimento che – sia pur metaforicamente – il prof. Ruggeri ha fatto alla vanità, o meglio all’ambizione di poter avere (e dire) l’ultima parola. Mi sembra, infatti, che già da qualche anno – in corrispondenza dell’approfondimento “costituzionale” del processo di integrazione europea, tanto sul fronte UE, quanto sul fronte CEDU – si sia andata progressivamente reinterpretando la tradizionale funzione di “difesa” delle identità costituzionali ascritta ai tribunali di “vertice” dei diversi livelli ordinamentali.
Anche in virtù della progressiva presa di coscienza delle interazioni (e della profonda complementarità) fra dogmatica delle fonti e teoria dell’interpretazione, le Corti hanno ripensato il proprio ruolo, trasformando – non senza battute d’arresto e passi indietro – la “difesa” delle identità costituzionale in “promozione” delle stesse nel complesso quadro di relazioni interordinamentali che caratterizza il contesto europeo.
In tale ottica, la proficua interazione – più che la polarizzazione – tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione si comprende alla luce dell’approfondimento delle interdipendenze tra livelli ordinamentali, che si traducono nel sempre più intenso processo di “mutuo arricchimento semantico” tra i diversi referenti testuali e giurisprudenziali.
La relazione tra le norme e tra i diversi percorsi interpretativi delle stesse rinvia, pertanto, alla relazione tra ordinamenti giuridici e questa, a sua volta, non può essere ricondotta a modelli schematici ma deve essere inserita in un più ampio discorso sul “contesto” della relazione medesima e sulle sue implicazioni istituzionali e materiali; orizzonte di riferimento resta, come assai efficacemente mette in luce il prof. Ruggeri, il progressivo sviluppo di un sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali, che determina – o per meglio dire, continuamente ridetermina – l’avvicinamento materiale tra i diversi ordinamenti.
Le recenti sentenze richiamate nel testo si pongono efficacemente in questa linea e dimostrano, tra l’altro, che il giudizio di costituzionalità non può ridursi – specie per ciò che riguarda la CEDU – a sede di un astratto confronto tra norme, ma deve aprirsi a divenire sede di gestione delle relazioni tra ordinamenti giuridici, sotto il profilo della ricerca continua di convergenze interpretative e assonanze, anche – se necessario – attraverso la sottolineatura del conflitto. Che non sia vana o ambiziosa, certo, ma “serva dei diritti”.
L’importante contributo che, ancora una volta, ci viene su questi argomenti dal prof. Ruggeri mi spinge a riflettere sugli itinerari lungo i quali le corti di Roma e Karlsruhe fanno i conti con l’ormai insopprimibile rilievo costituzionale della CEDU e delle pronunce del suo giudice. Trovo effettivamente degna di nota la convergenza che si è venuta a creare nell’ultimissimo periodo, segno di un’acquisita consapevolezza dell’impossibilità di ridurre i problemi scaturenti dall’integrazione tra diritti solamente al piano delle fonti e non anche a quello dell’interpretazione (non intesa astrattamente come preludio ad una sistemazione formale, ma appunto in chiave ergebnisorientiert, magis ut valeat). Le ragioni per prendere atto di questa importante convergenza, soprattutto dopo la sent. n. 113/2011 e questa del BVerfG del mese scorso, ci sono quindi tutte.
Ma resta vero che non mancano (ce lo dice chiarissimamente il prof. Ruggeri) differenze nell’approccio scelto dalle due Corti, che non sono peraltro di scarso rilievo. Mi riferisco alla giusta osservazione secondo cui mentre il BVerfG bilancia il principio della völkerrechtsfreundliche Auslegung dei diritti costituzionali con il rispetto del loro Wesensgehalt, la nostra Corte bilancia in linea di principio il rispetto degli obblighi internazionali ex art. 117, co. 1, Cost. con l’esigenza di assicurare una tutela maggiore del diritto di volta in volta in questione. Sembrerebbe una differenza di poco conto, ma a me sembra che qui si annidi una significativa divergenza nei due approcci, che scaturisce dalle diverse impostazioni di fondo accolte dalle due Corti: e non nascondo che quello prescelto dalla Corte costituzionale italiana, pur se inserito all’interno di un’evoluzione di orientamenti condivisibile, mi convince di meno. Nell’impostazione accolta dalla Corte tedesca, infatti, i termini del bilanciamento rimangono tutti interni al piano costituzionale, poiché il BVerfG, pur relegando la Convenzione sul piano dell’einfaches Recht, prende sul serio il suo apporto interpretativo, fino a sancire il suo influsso sulla reinterpretazione del parametro costituzionale. Secondo la nostra Corte, almeno nell’ossatura delle sentt. nn. 348 e 349, il bilanciamento che presiede all’integrazione della CEDU resta invece invariabilmente asimmetrico, perché l’esigenza di assicurare una tutela maggiore ha come contropartita “solo”
il rispetto in sé degli obblighi ex 117, e non anche la (re)interpretazione dei diritti, che restano estranei al circuito di mutuo apprendimento interpretativo alimentato dalla Convenzione. E’ noto che le cose cambiano con la sent. n. 317/2009, a partire dalla quale la Corte auspica una interrelazione tra i profili materiali delle relative garanzie, volta ad assicurare la tutela di volta in volta ritenuta maggiore o più adeguata a quel diritto.
Mi chiedo però se solo per questo possano dirsi abbandonate le premesse di metodo sposate dalle sentenze gemelle e giustamente stigmatizzate sin da subito dal prof. Ruggeri. Per far questo, e per avviare la giurisprudenza costituzionale italiana verso quegli esiti auspicati di dialogo circolare, sarebbe ad esempio importante che la Corte abbandonasse l’idea, ancora ribadita nella sent. 113/2011, secondo cui essa non può sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, limitandosi a verificare che la norma della Convenzione non si ponga in conflitto con altre norme della Costituzione.
La Corte tedesca ha giustamente ancorato il suo ragionamento alla possibilità di chiamare in causa le interpretazioni offerte dalla Corte di Strasburgo, ritenendola evidentemente una premessa indispensabile per poter alimentare quella evoluzione di significati dietro alla quale si muove quell’idea di dialogo. Precludendosi questa eventualità, invece, la Corte costituzionale finisce per limitare sensibilmente i propri margini di manovra: da un lato, infatti, essa non può fare altro che recepire “direttamente” i dicta della Corte europea, non potendo discuterli ed anzi amplificandone oltre modo la portata, secondo il meccanismo congegnato dalla sent. n. 113; dall’altro lato, essa si trova a verificare se questi non siano in contrasto con i singoli diritti contenuti nella Costituzione, assumendoli quindi come parametri in quanto tali (e non nel loro “significato essenziale”), trasferendo inevitabilmente su questo esame, vuoi o non vuoi, tutto il bagaglio di metodo del controllo “astratto” di legittimità costituzionale (e aggiungo: non è forse un caso, in quest’ottica, che la maggiore sensibilità mostrata dal BVerfG per i profili dell’integrazione materiale provenga da una controversia sollevata in via di ricorso diretto). Ove la Corte costituzionale si decidesse a dire la sua sull’interpretazione della CEDU offerta dalla Corte di Strasburgo, non solo contribuirebbe ad orientare le decisioni di quest’ultima, fornendole elementi per riconsiderare i propri orientamenti (lo farà nel frattempo il BVerfG), ma potrebbe anche più agevolmente perseguire quel disegno di integrazione sostanziale che ha pur coraggiosamente fatto proprio nell’ultimo periodo.
Molto interessanti le notazioni di G. Repetto che, con la sua consueta
sensibilità, mette il dito sulla piaga tuttora aperta nella nostra
giurisprudenza, specie per ciò che concerne l’irrigidimento (a mia
opinione, nei termini in cui è operato, irragionevole) nell'”uso” che, a
giudizio della Consulta, può e dev’essere fatto della giurisprudenza di
Strasburgo. Nel mio commento alla 113, che ho già consegnato a Legisl.
pen. e di cui purtroppo tarda la stampa, torno a rilevare (dopo averne
detto ripetutamente altrove) l’opportunità di una maggiore flessibilità
al riguardo: ad es., quanto meno distinguendo il caso in cui si sia
ormai formato un vero e proprio “diritto vivente” della Corte EDU da
quello in cui esso faccia invece difetto, esibendo la giurisprudenza
europea un orientamento interpretativo ancora incerto ed oscillante
ovvero appena incipiente o magari – e perchè no? – mancando del tutto
ogni pronunzia al riguardo e pertanto dovendo i giudici nazionali (non
la sola Corte costituzionale) confrontarsi con la lettera “nuda e cruda”
della Convenzione. E’ pur vero che l’accertamento di quest’ultima
evenienza richiede un uso particolarmente sapiente ed incisivo della
tecnica del distinguishing (della quale nondimen o i giudici hanno dato,
e danno, numerose testimonianze), come pure è vero che l’accertamento
circa la sussistenza del “diritto vivente” è, almeno in taluni casi,
scivoloso e comunque opinabili ne sono gli esiti, così come può
discutersi circa la sede istituzionale maggiormente adeguata a farvi
luogo in ambito interno (solo la Corte costituzionale? anche i giudici
comuni?). Aggiungo che, a mia opinione, già la 113 contiene alcuni germi
di una possibile (e sia pur parziale) correzione di rotta sul punto (la
cui illustrazione non mi è ora consentita), così come non è da escludere
che anche l’attuale, rigido indirizzo circa la (non) applicabilità
diretta della CEDU possa ricevere qualche temperamento, immaginandosi
taluni casi al cui ricorrere possa predicarsene l’opportunità o,
addirittura, l’obbligatorietà. Ad ogni buon conto, temo che, se la Corte
dovesse restare ferma sulle attuali posizioni sui punti ora toccati, non
possa far altro che chinare il campo per sistema ai dicta di Strasburgo:
la vicenda del giudicato docet! E’ invece grazie ad una giurisprudenza
internamente più articolata e flessibile che la nostra Corte potrà
recuperare spazi non poco rilevanti per “dialogare” alla pari con le
Corti europee (per ciò che specificamente interessa, con la Corte EDU).
Ma, come dicevo nel mio scritto ospitato su DC, perchè certe idee
giungano a compiuta ed apprezzabile maturazione ci vuole del tempo.
Desidero da ultimo esprimere il mio sentito ringraziamento ai giovani
che, “dialogando” con me, alimentano e fanno crescere l’entusiasmo per
la ricerca e, almeno in parte, attenuano il pessismismo che nutro circa
il futuro dell’Università.
Antonio Ruggeri