Ragionando sul volume di Marco Benvenuti Libertà senza liberazione. Per una critica della ragione costituzionale europea (Editoriale scientifica, Napoli 2016)
Con l’appannarsi di quella legittimazione costruita sulla base dei risultati conseguiti, è tornata al centro dell’attenzione la ricerca di una teoria della legittimazione democratica delle politiche dell’Unione europea. Il peculiare modello di sviluppo finora intrapreso, tuttavia, lungi dall’essere assiologicamente neutrale, sembra aver lasciato una traccia molto forte. Proprio le strade finora seguite, infatti, paiono aver favorito un progressivo irrigidimento del rapporto tra responsiveness e accountability, con il conseguente aggravarsi di quella sensazione di “intreccio inestricabile” rispetto al quale sembra sempre più difficile individuare un livello di governo imputabile per le varie politiche poste in essere.
In questa prospettiva, dalla lettura del libro di Marco Benvenuti, Libertà senza liberazione, si esce con una duplice consapevolezza. Da un lato, infatti, si rafforza la sensazione che si stia ormai chiudendo una fase di lungo “interregno”, ovvero di un momento in cui, gramscianamente, «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» (109). È dunque ormai necessario operare delle scelte che diano risposte adeguate alla nuova fase storica.
Dall’altro lato, si delinea con chiarezza la circostanza per cui il modo in cui gli assetti istituzionali a livello sovranazionale hanno finora operato sta incidendo in profondità su quelle più intime contraddizioni che gli stati nazionali hanno cominciato a manifestare sin dagli anni Settanta. A questo doppio movimento vengono naturalmente opposte delle forme di “resistenza”. Ne è un esempio il sempre più frequente ricorso allo strumento dei c.d. “controlimiti” da parte delle corti costituzionali nazionali. Queste risposte, tuttavia, che sembrano proiettare sul processo di integrazione il paradigma delle dinamiche conflittuali tra realtà distinte come chiave di interpretazione dei rapporti tra ordinamenti, lasciano spesso sottotraccia, o comunque non sempre pienamente tematizzati, profili cruciali per la costruzione di una vera comunità politica europea.
Consapevole della complessità della fase attuale, il volume si concentra in particolare su alcuni anni recenti della storia europea, gli anni della crisi, per proporre «un percorso di disincantamento nei confronti dell’Unione europea» (2). In questa prospettiva, vengono contestate quelle letture che sembrano dimenticare ciò che l’ordinamento sovranazionale realmente è, per guardarlo come «si vorrebbe che fosse», criticando quella visione di un’Unione europea cui sarebbe possibile estendere i metodi, i modelli, le categorie del diritto costituzionale (3). In particolare, poi, nel focalizzare la propria attenzione sull’articolarsi ondivago di un processo di integrazione provato da molti anni di crisi, non solo economica come giustamente viene rilevato (30), l’autore analizza criticamente le contraddizioni e i limiti degli interventi che si sono susseguiti nel tempo a livello europeo, denunciandone una possibile ricaduta sui tratti caratterizzanti il compromesso costituzionale novecentesco.
Il volume, il cui sottotitolo è Per una critica della ragione costituzionale europea, è suddiviso in tre capitoli, cui si aggiunge un poscritto in cui l’autore riflette, alla luce di quanto sostenuto nei capitoli precedenti, sul referendum tenutosi nel Regno Unito avente ad oggetto la proposta di uscita dall’Unione europea e la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco in materia di Outright Monetary Transactions (OMT) del 21 giugno 2016.
Nel primo capitolo, viene messo in luce come, sin dalle prime fasi, non sia possibile individuare, a livello europeo, una autentica dimensione sociale europea. Ciò appare una potenziale contraddizione rispetto all’idea per cui la Costituzione italiana avrebbe invece tracciato, secondo le parole di Leopoldo Elia, cui il titolo del volume si ispira, un «programma di “liberazione nella libertà”». In realtà, viene subito ricordato che tale preoccupazione, almeno in una prima fase del processo di integrazione, può essere ridimensionata: nei primi anni, il mercato comune si andava infatti a sommare alle realtà nazionali. Si sarebbe così delineato quell’equilibrio che, secondo una fortunata formula, cercava di conciliare i principi keynesiani a livello nazionale, per affermare il libero mercato e i principi smithiani all’estero. Certo «una combinazione» più che un compromesso (12), ma in una cornice tendenzialmente rispettosa del piano costituzionale. Anche qui, tuttavia, riecheggia nella scelta del vocabolo utilizzato l’eco del pensiero di Elia, che, come noto, valorizzando il compromesso alto raggiunto in Costituente, ammoniva come esso non fosse una semplice combinazione, per di più definita «deteriore». Ma dal titolo affiora anche la sensazione che, sullo sfondo, si possa scorgere quel tema della critica di matrice marcusiana che, in generale, individuava nella civiltà un fattore di repressione della libertà, nell’uomo un soggetto da liberare e, soprattutto, considerava lo «stato del benessere…uno stato in cui regna l’illibertà», con ciò perseguendo l’obiettivo di demistificare quanto realizzato dalla «tarda società industriale» insieme all’azione dello stato.
In una serrata critica a quello che viene definito una forma di “ipercostituzionalismo”, ovvero quella tendenza a proiettare sul piano del diritto europeo le chiavi del diritto costituzionale e a considerare al contempo solamente «“parziale”» il diritto costituzionale statale, è in particolare la libertà di circolazione dei capitali la lente attraverso cui vengono letti gli sviluppi del processo di integrazione dell’Unione europea: se ne invoca, infatti, un ridimensionamento, rilevandosi la centralità che essa ha assunto nel tempo. Ed è proprio l’insieme di questi sviluppi che, del resto, avrebbe messo in discussione persino gli insoddisfacenti termini di quella combinazione tra Smith e Keynes, ponendo le basi per un indebolimento del progetto stesso di liberazione incorporato nella Costituzione italiana.
Nel secondo capitolo viene tratteggiato il complesso svolgersi dei processi con cui si è tentato, sia su un piano congiunturale sia strutturale, di rispondere alla crisi economica. Questi provvedimenti, considerati complessivamente coerenti con un’idea di integrazione negativa, tradiscono una scelta per una sostanziale continuità istituzionale che impedisce di configurare come un momento costituzionale l’attuale fase. Viene così evidenziato il progressivo «(dis)ancoraggio del processo di integrazione europea dalla dimensione costituzionale», confermato anche dall’emergere di alcune “parole nuove”, che, connotando le politiche dell’UE, assumono una valenza assiologica pervasiva e performativa: sperimentalismo, condizionalità, reversibilità, automatismo.
Partendo dalle origini della crisi, dalla c.d. Strategia di Lisbona, dalla Strategia Europa 2020 e dal Patto per la crescita e l’occupazione, di cui si mettono in luce tutti i limiti, viene nell’insieme tratteggiato un percorso complesso e intricato in cui si fanno passo dopo passo più chiare le molte contraddizioni emerse negli ultimi anni: dalle implicazioni della fondamentale (ma sempre più complicata) distinzione tra politica monetaria e politica economica e dalla denuncia delle ambiguità del concetto di economia sociale di mercato, passando per il ruolo della BCE e della Corte di Giustizia, alla messa in discussione dell’idea di solidarietà e al progressivo inaridirsi della partecipazione politica, fino alle riforme a livello sovranazionale con riferimento alle politiche di bilancio, alle modalità di salvataggio finanziario degli Stati destinatari di aiuti e alle contestate azioni di condizionamento “irrituale”. E così quello che è stato definito l’ipercostituzionalismo si delinea in realtà come un tentativo di de-costituzionalizzazione che allontana il processo di integrazione da quel Sonderweg che si era a lungo immaginato potesse essere il destino dell’Unione europea.
Nel terzo capitolo, infine, il 2015 è efficacemente definito come «un anno vissuto pericolosamente» (107). Qui sono in particolare approfonditi alcuni problemi irrisolti, come la distinzione tra politica monetaria e politica economica, al fine di criticare le inadeguatezze del costituzionalismo multilivello e del pluralismo costituzionale nello spiegare le dinamiche dei rapporti tra ordinamenti. E, in questa prospettiva, al centro dell’attenzione dell’autore sono soprattutto il ruolo ricoperto dalla Banca centrale europea e gli sviluppi della crisi greca, cui segue una critica analitica del documento con cui si è tracciato un percorso per Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa.
Nel procedere della lettura e dell’analisi si fa sempre più netto il progressivo definirsi di una costante nelle molte vicissitudini trattate. Sono due le questioni che, su tutte, tendono solitamente a rimanere sullo sfondo e su cui invece l’autore richiama l’attenzione: la questione sociale e la questione democratica, entrambe componenti basilari su cui si è costruito lo stato costituzionale del Novecento. La profonda preoccupazione lascia in realtà spazio ben presto a una evidente forma di insoddisfazione per il percorso intrapreso dall’integrazione europea che sembra aver tradito quella componente di “riconoscimento” e di inclusione che ha segnato la storia delle rivendicazioni che hanno caratterizzato le battaglie per i diritti proprie del costituzionalismo.
Non è certo facile individuare una via d’uscita. Larry Siedentop, nel 2000, con il suo La democrazia in Europa, vedeva come sbocco necessario dell’integrazione un equilibrio di tipo federale e scorgeva nella scarsa tematizzazione della questione costituzionale e nell’eccesso di “economicismo” un punto di debolezza del processo di integrazione a partire almeno dal Trattato di Maastricht. La sua proposta era di articolare l’Unione europea sulla base di un ampio decentramento e ricostruire una solida partecipazione democratica ai vari livelli, individuando come un proprium della crisi dell’integrazione «la crisi del pensiero politico liberale» dovuta prevalentemente all’assenza di quelli che venivano definiti «i nostri Madison».
A venticinque anni dal Trattato di Maastricht, a dieci dal Trattato di Lisbona e a cinque dal Trattato rinominato Fiscal Compact, che, in teoria, potrebbe presto essere incorporato nei Trattati, gli elementi di debolezza presenti da tempo sono ancora più evidenti. E sembra aumentare la disaffezione verso l’Unione europea per come è diventata, fino a quelle visioni che propongono, evocativamente, proprio di Rottamare Maastricht. Del resto, il diffuso interesse che di recente si è appuntato sulla necessità di “democratizzare la democrazia”, che già aveva segnato i dibattiti che a partire dagli anni Settanta e Ottanta hanno riguardato a livello statale le forme di democrazia partecipativa e deliberativa (penso tra i moltissimi agli studi di Pateman e di Barber), investe nel suo complesso la riflessione sulla rifondazione dell’Unione europea anche in quei pensatori più attenti alla dimensione bottom-up della partecipazione popolare come Étienne Balibar. L’attenzione alla democrazia si nota poi, in modo non dissimile, in quei lavori più spiccatamente politici che raccolgono le riflessioni di Marsili e Varoufakis sul terzo spazio e le proposte di democratizzazione dell’Europa animate da Piketty. Ma il problema democratico emerge anche nella riflessione di Streeck e nella sua articolata critica alla moneta unica, contestualizzata in un più complessivo conflitto tra democrazia e capitalismo. L’interesse verso l’apertura di nuove forme di attivazione dal basso appare davvero, allora, un tema cruciale cui l’integrazione sovranazionale deve dare una risposta. Il rischio è, altrimenti, che l’abbandono del paradigma sorto a Maastricht, come momento di un più ampio processo volto ad approdare a una piena unione politica favorendo la costruzione di una autentica comunità democratica, non dia i frutti sperati, aprendo a un ritorno non tanto di una piena sovranità politica dei singoli stati nazione anche in ambito monetario, ma piuttosto a nuove forme di instabilità.
Non è facile, in questo quadro, decidere come procedere per riformare l’Unione europea. Marco Benvenuti avanza come soluzione, proponendo un approccio «realista» (183), l’esigenza di ripartire dalle costituzioni nazionali, con l’obiettivo di ottenere una più armonica gestione dei casi sempre più numerosi di “resistenza costituzionale”. L’obiettivo è costruire «un approccio all’ordinamento sovranazionale fondamentalmente intergovernativo […] ma di tipo nuovo, ossia declinato in forma “repubblicana”» (183). Allontanando l’Unione «da ogni reminiscenza costituzionale» si potrebbe garantire, nell’insufficienza degli assetti istituzionali europei, che il potere resti sempre controllabile a livello statale e che l’Unione si consolidi come una vera demoicracy, o, più precisamente, come «un “international association of democratic states”» (184).
Come accennato, l’idea di declinare in questi termini il futuro del processo di integrazione, tentando così di superare il democratic disconnect di Lindseth ma accantonando il dibattito sul democratic deficit, richiede però, in ragione «dell’irrompere del principio di realtà» (180), l’abbandono dell’ambizione di considerare pienamente consumatosi (e forse consumabile) un momento costituzionale per l’Unione europea. Il rischio è che questa scelta, che pure parte dalla necessità di rivitalizzare il principio democratico sia pur su scala nazionale, porti a un assetto in cui permangano irrisolte molte delle attuali contraddizioni, specialmente sul piano economico-sociale, come per esempio il problema di come risolvere alcune forme di dumping tra paesi membri o la competizione tra differenti sistemi tributari, di fatto arrivando a plasmare una Unione basata prevalentemente su un’integrazione amministrativa. Si rischia di mettere comunque in competizione una burocrazia sovranazionale e le varie democrazie nazionali. Da questo punto di vista, permarrebbe infatti la possibilità che il processo di integrazione possa continuare ad erodere gli spazi di decisione democratica e di partecipazione popolare alla decisione, a meno che non si riescano a garantire, in forme nuove, efficaci strumenti di collegamento tra responsiveness e accountability. In definitiva, in questa prospettiva, l’abbandono di una “ambizione costituzionale” come approdo del processo di integrazione europea potrebbe persino dare vita ad esiti inaspettati sul piano interno, che potrebbe non essere in grado di rispondere alle nuove domande. Incombe insomma minacciosa l’eventualità che, anche in questo modo, non si riesca a rispondere a quello che Peter Mair ha sintetizzato, con riferimento alla politica nazionale, come la “sindrome di Tocqueville”, ovvero quella circostanza per cui coloro i quali governano soffrono «una crescente incapacità di giustificare i propri privilegi in un contesto in cui svolgono funzioni sempre meno importanti» e che in fondo, a livello statale, è un dato che da tempo indebolisce le democrazie rappresentative nazionali. E, tuttavia, l’idea ha il pregio di portare con sé una forte dose di concretezza, non perdendo di vista lo stato delle cose, salvaguardando al contempo le conquiste fin qui ottenute e disegnando per il futuro un percorso che potrebbe garantire qualche ulteriore progresso, sia pur accantonando, almeno per ora, ambizioni maggiori.
In conclusione, è ormai piuttosto chiaro che la crisi vissuta in questi anni e la più generale insoddisfazione verso gli attuali assetti istituzionali che l’hanno caratterizzata preludono inevitabilmente a un cambiamento che chiuda un percorso che, come sostiene Tony Judt in Postwar, affonda le sue radici molto indietro nel tempo, ben prima della caduta del muro di Berlino, in quanto «l’Europa non sta rientrando nel suo inquietante passato di guerra: al contrario, ne sta uscendo» solo ora. Va dunque superata quella fase fondativa sintetizzata con l’idea per cui l’Europa, secondo Judt, «è stata la figlia insicura dell’ansia» e non il risultato di «un progetto ottimistico, ambizioso e lungimirante». Molto tempo, del resto, è ormai trascorso da quei primi passi avviati dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questa prospettiva, ragionare sul quomodo, focalizzando l’attenzione sulla questione democratica e discutendo sulle basi su cui ricostruire una salda tenuta di democrazia e diritti sociali al fine di rafforzare le conquiste del costituzionalismo, appare davvero necessario per aprire, nello spazio pubblico, un dibattito consapevole e aperto.