Pronti ma non del tutto. La Corte Costituzionale di fronte al superamento del binarismo di genere
La Corte Costituzionale italiana, con la sentenza del 23 luglio 2024 n. 143, è stata chiamata a decidere su due questioni di legittimità costituzionale inerenti ai percorsi di affermazione di genere sollevate dal tribunale di Bolzano (II sez. civ., ordinanza del 13 gennaio 2024). Una decisione che senza dubbio spinge a interrogarsi sulla complessità della relazione tra corpo, sesso e genere, sulla tensione tra diritti fondamentali sociali e diritti individuali di auto-determinazione nella cornice del dialogo/scontro tra la categorizzazione dei diritti costituzionali e le loro forme di riconoscimento e tutela.
Con questa sentenza il giudice delle leggi ha ammesso, espressamente e per la prima volta, l’esistenza delle persone non binarie, ossia di quelle persone che, non sentendosi di appartenere secondo una logica binaria né al genere femminile, né al genere maschile, avvertono l’esigenza di essere riconosciute con un’identità terza, altra.
Tuttavia, la Corte si è fermata “a metà strada”.
Il caso in esame riguarda una persona AFAB (assigned female at birth) e non-binary, che ha adito il Tribunale di Bolzano affinché decidesse sulla rettificazione anagrafica, non nel sesso opposto ma, per l’appunto, in un sesso “altro”, chiedendo inoltre di potersi sottoporre a un intervento chirurgico di adeguamento.
Dopo la Svezia e la Germania, l’Italia è stata il terzo Paese al mondo ad adottare una legge che consente alle persone trans di modificare il marcatore di genere nei registri dello stato civile. La disciplina prevede due procedimenti distinti: uno per la rettificazione anagrafica e l’altro per ottenere l’autorizzazione ad accedere al trattamento chirurgico. La normativa originaria non è rimasta invariata, infatti la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale sono intervenute (Cass. n. 15138 del 2015 e Corte Cost. n. 221 del 2015) ritenendo che la procedura per il riconoscimento legale del genere necessitasse di alcune modifiche, analogamente a quanto verificatosi nel caso della legge tedesca “Transsexuellengesetz”, dove la Corte Costituzionale Federale tedesca (1 BvR 3295-07, Corte Costituzionale Federale, Germania, 11 gennaio 2011) aveva dichiarato incostituzionali i requisiti preesistenti per la domanda di rettificazione. Grazie a queste pronunce oggi non è più necessario ricorrere al trattamento chirurgico per vedersi accordata la rettificazione anagrafica. Resta comunque una valutazione rigorosa della serietà e dell’univocità dell’intento di un individuo e della obiettività della transizione verso la nuova – spesso più per l’ordinamento che per l’individuo – identità di genere.
Il diritto italiano, però, ha riconosciuto finora (e verosimilmente continuerà a farlo ancora per molto) solo due marcatori di genere, quello “maschile” e quello “femminile”, e non consente l’accoglimento di una domanda di rilascio di documenti dove compaia un genere non corrispondente ai precedenti.
Il giudice a quo ha quindi richiesto l’intervento della Corte Costituzionale, ritenendo che una tale preclusione contrastasse con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, da leggere in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per la lesione inflitta all’identità, alla salute e al rispetto della vita privata e familiare della persona. Sulle stesse basi ha ritenuto che il regime autorizzatorio previsto dall’art. 31 del d.lgs. 150/2011 per accedere al trattamento chirurgico di adeguamento determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento poiché nessun altro tipo di intervento, anche con conseguenze irreversibili e di carattere demolitivo, è subordinato all’ottenimento di una preventiva autorizzazione giudiziale.
Nell’affrontare la prima questione di legittimità, la Corte, nonostante evidenzi come la sensibilità nei confronti di queste soggettività sia in costante crescita, mette in luce i limiti con cui il nostro ordinamento pare destinato a scontrarsi dal momento che «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria» (par. 5.5).
La Consulta, seguendo l’argomentazione dell’Avvocatura dello Stato, rappresentante del Governo italiano intervenuto in giudizio, dichiara quindi inammissibile la questione di costituzionalità riguardante la legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario”, in quanto il caso pone un problema che non può essere risolto dal controllo della Corte Costituzionale per le sue ampie conseguenze sul sistema giuridico. Ma se l’Avvocatura dello Stato sembra mettere in discussione la possibilità di riconoscimento delle persone non binary, la Corte Costituzionale non ha problemi ad affermare il contrario. Secondo la Consulta, infatti, la necessità di un riconoscimento di tutte quelle situazioni in cui il genere di un individuo non ricade nella sfera del binarismo maschio-femmina è da ricondurre al principio personalista sancito dall’articolo 2 della Costituzione e al principio di pari dignità sociale ex. articolo 3 e solleverebbe anche un tema di rispetto della tutela della salute ai sensi dell’articolo 32 Cost.
La Corte in tal senso cita l’ICS-11 (11esima revisione dell’International Classification of Diseases), il DSM-5 (quinta revisione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), la recente legge tedesca sull’autodeterminazione in materia di registrazione del sesso (Gesetz über die Selbstbestimmung in Bezug auf den Geschlechtseintrag SBGG), come anche la censura della Corte Costituzionale belga (arrêt n° 99/2019 del 19 giugno 2019) riguardo la delimitazione binaria che, secondo i giudici belgi, genererebbe un’ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al genere maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno tra questi. La Corte richiama inoltre la virtuosa pratica delle carriere alias «tramite le quali diversi istituti di istruzione secondaria e universitaria permettono agli studenti di assumere elettivamente, ai fini amministrativi interni, un’identità – anche non binaria – coerente al genere percepito» (par. 5.4).
In riferimento alla seconda questione di legittimità, la Corte Costituzionale ha ritenuto invece fondata la censura dell’articolo 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 dichiarando costituzionalmente illegittima la prescrizione dell’autorizzazione giudiziaria dell’intervento chirurgico nei percorsi di affermazione dell’identità di genere. Tale previsione, infatti, non risulta più supportata dalla ratio legis, specialmente a seguito della sentenza già ricordata emanata dalla stessa Corte. Un percorso di transizione, infatti, può realizzarsi già mediante trattamenti ormonali e un sostegno psicologico-comportamentale, senza che un intervento di adeguamento chirurgico risulti necessario. Da tali premesse si intuisce – e la Corte correttamente evidenzia – che la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata è del tutto irragionevole quando relativa a un trattamento chirurgico che avrebbe luogo dopo la rettificazione. A tal proposito, nella sentenza si fa riferimento alla giurisprudenza di merito (Tribunale ordinario di Padova, sezione prima civile, sentenza 17 giugno 2024, e Tribunale ordinario di Torino, sezione settima civile, sentenza 27 marzo 2024) che non di rado rilascia l’autorizzazione all’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione. Sebbene questa scelta risulti essere un grosso passo in avanti per le persone trans, il giudice sembra delimitare la non obbligatorietà dell’autorizzazione giudiziaria a un trattamento medico-chirurgico di modificazione del sesso ai soli casi in cui il percorso di affermazione dell’identità di genere si possa ritenere concluso in base ai criteri imposti dal quadro normativo e quindi «qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.» (par. 6.2.4)
La Corte quindi, nonostante riconosca il carattere paternalistico della prescrizione, sembrerebbe dire che il regime autorizzatorio non è irragionevole tout court, ma lo è solo nella misura in cui questo non si coordina con la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della stessa Corte Costituzionale, che vede il trattamento chirurgico solo come un «possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico» (par. 6.2.1) e non come momento necessario ai fini della rettificazione. Il fatto di decidere di sottoporsi al trattamento chirurgico in maniera libera, autodeterminata e senza alcun intervento giudiziario rimane quindi sottoposto al riconoscimento, da parte del tribunale, del completamento del percorso di transizione che fa sorgere in capo al soggetto interessato il diritto a riconoscersi nel genere di appartenenza, sempre che questo rientri tra quelli previsti dall’ordinamento.
Tutto ciò considerato è interessante procedere ad alcune osservazioni.
In merito alla prima questione di legittimità, è indubbio che l’apertura della Corte non sia da sottovalutare, non potendo contare né sull’univocità delle indicazioni degli altri ordinamenti europei (attualmente in Europa solo Islanda, Germania e Belgio riconoscono a pieno titolo le identità non binarie) e delle Corti sovranazionali sul tema, né su un’obbligazione positiva di registrazione delle persone non binarie che è stata di recente esclusa dalla Corte EDU (sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia) e considerando che le norme di genere che dividono gli individui in donne e uomini possono essere ritenute il sistema normativo più antico di classificazione delle persone, a tutt’oggi caro ad alcuni governi. La Consulta individua nel legislatore, come è giusto che sia, colui che deve occuparsi di normare ciò che evidentemente esiste ma che non è ancora giuridicamente riconosciuto. Tuttavia, un tale richiamo non ha gli effetti vincolanti di una pronuncia di incostituzionalità, quale ad esempio è stata quella della Corte Costituzionale Federale tedesca, che nel dirimere un caso similare (la decisione c.d. “Dritte option” del 10 ottobre 2017) ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge sullo stato civile invitando il parlamento ad intervenire entro 14 mesi alternativamente attraverso l’abolizione di tutti i marcatori di genere o introducendo dei marcatori non binari di genere (scelta poi perseguita dal legislatore). La nostra Corte ha invece solo segnalato un’opportunità di intervento al fine di evitare che il perpetuarsi di un mancato riconoscimento giuridico di queste soggettività continui a generare un pregiudizio sotto l’aspetto della dignità, della salute e del benessere psicofisico. E se si tiene conto di richiami ben più forti da parte della Consulta, come ad esempio quello riguardante la materia del fine vita, si può ritenere che nel prossimo futuro il tema in esame ben difficilmente sarà oggetto dell’attenzione del nostro legislatore.
Sotto il profilo della necessarietà dell’iter giudiziario per la rettificazione del genere e per il trattamento chirurgico, anche e specialmente a seguito delle precisazioni formulate dalla Corte in merito e dell’intervento dell’Avvocatura di Stato, siamo distanti dall’ipotizzare l’introduzione nel nostro ordinamento di un percorso di riconoscimento del genere che esuli dall’intervento del giudice, come è invece avvenuto in Spagna nel 2023 con la Ley 4/2023, de 28 de febrero, para la igualdad real y efectiva de las personas trans y para la garantía de los derechos de las personas LGTBI, che ha introdotto la possibilità di ottenere la rettifica del sesso e del nome unicamente sulla base di una dichiarazione di volontà del soggetto richiedente senza l’intervento di un funzionario della giustizia.
In generale, siamo ancora più distanti dallo scorgere la possibilità che il legislatore metta in campo una regolamentazione che tenga davvero conto della pluralità dell’esistente e che riconosca la complessità dei corpi oltre il dato meramente biologico e oltre il sistema culturale dominante basato sul binarismo sessuale che implica un’esatta corrispondenza tra sesso e genere. Bisognerebbe, invece, calarsi in una logica del destrutturare per ricostruire tenendo conto che la dimensione del genere inevitabilmente e intrinsecamente apre a orizzonti variabili, circolari e a una ricerca caratterizzata da una necessaria visione globale dai confini mobili.