Principio di legalità penale, interessi finanziari dell’Unione e Stato di diritto a fronte di un primato in trasformazione
Con la sentenza qui annotata, la Corte di Giustizia è tornata a pronunciarsi sui limiti che demarcano il primato del diritto dell’Unione, al crocevia tra interessi finanziari di quest’ultima, tutela dello Stato di diritto e principio di legalità penale.
S’impone un cenno preliminare ai fatti.
Il 25 giugno 2018 è pubblicata la sentenza n° 297, con cui la Corte costituzionale romena dichiara l’incostituzionalità dell’art. 155(1) del codice penale – a tenore del quale «[i]l termine di prescrizione della responsabilità penale è interrotto dal compimento di qualsiasi atto processuale nella causa» – nella parte in cui ne prevede l’interruzione mediante la realizzazione di «qualsiasi atto processuale». Ad avviso della Corte, l’espressione «qualsiasi atto processuale» deve ritenersi lesiva del principio di legalità, giacché carente del requisito della prevedibilità. Include, infatti, anche gli atti non comunicati al sospettato/imputato, che non potrebbe, in tal caso, venire a conoscenza di tale interruzione.
Con successiva sentenza n. 358/2022 (26 maggio, pubbl. 9 giugno) la Curtea Constituțională dichiara la natura semplice, e non additiva, della sentenza citata, ribadendo che “il legislatore, e non gli organi giudiziari, aveva l’obbligo di … intervenire e stabilire casi chiari e prevedibili di interruzione della prescrizione della responsabilità penale”.
Solo il 30 maggio 2022, ossia dopo la pronuncia della sentenza n. 358/2022 ma prima della sua pubblicazione, il governo rumeno adotta il decreto-legge n. 71/2022, entrato in vigore lo stesso giorno, in virtù del quale l’art. 155(I) del codice penale è modificato nel senso che il termine di prescrizione della responsabilità penale s’interrompe con qualsiasi atto processuale che debba essere comunicato al sospettato o all’imputato.
Si apre, allora, un problema giuridico di non poco momento. La declaratoria di illegittimità costituzionale creerebbe un “buco” non rimediabile nella successione di leggi nel tempo. Infatti, s’intuisce, l’assenza sopravvenuta di atti interruttivi della prescrizione è evenienza assai favorevole all’imputato: costituisce, ricorrendone le circostanze, una norma successiva più mite. Tale norma, allora, benché non positivamente adottata, ma omissivamente voluta, sarebbe applicabile a tutti i casi aperti al momento della sua entrata in vigore.
Si tratterebbe però di stabilire se tale lex mitior debba rinvenirsi a partire dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 155(I) citato – 25 giugno 2018 – o seguire l’effetto retroattivo tipico della pronuncia di accoglimento, caducando la norma sulla prescrizione per l’intera permanenza in vigore della relativa disposizione (a partire, cioè, dal 1° febbraio 2014, anno in cui si adottò una novella del codice introduttiva, fra l’altro, del nuovo testo dell’articolo in questione).
S’incrociano in questo punto due distinte linee argomentative a sostegno del principio della lex mitior. L’una, di stampo volontaristico, lega tale principio alla mutata volontà del legislatore “sovrano”, che dimostrerebbe di perdere interesse all’esercizio della pretesa punitiva per i fatti coperti da tale legge. L’altra, di matrice etica, si rifà al principio di eguaglianza, in virtù del quale sarebbe irragionevole applicare al reo trattamenti diversi solo perché diverso è il tempo del delitto commesso.
Ora, nel caso de quo, tali argomentazioni condurrebbero a risultati divergenti quanto al termine di retroazione della lex mitior. Nell’una, ritenendosi prevalente l’intentio del legislatore, il termine coinciderebbe con il 25 giugno 2018 – momento in cui, per effetto della pronuncia della Corte costituzionale, al legislatore deve imputarsi una volontà omissiva precisa nel senso indicato, sorgendo l’obbligo di legiferare per disporre altrimenti. Nell’altra, ritenendosi prevalente l’oggettiva natura discriminatoria di una condanna dipendente dal mero fattore-tempo, rileverebbe in primo luogo la lesione concreta patita dal reo; di tal ché, la lex mitior conseguente alla pronuncia della Corte costituzionale retroagirebbe alla stregua di una qualsiasi declaratoria d’incostituzionalità, ossia ab initio.
Ciò premesso, il rinvio pregiudiziale sollevato dal giudice di appello di Brașov chiede, in sostanza, se il diritto dell’Unione osta a che si applichi una normativa sulla prescrizione siffatta, ancorché derivata da una sentenza della Corte costituzionale e di fatto causata dall’inerzia del legislatore.
La Corte di Giustizia [in parentesi i paragrafi della sentenza] ricava un alveo applicativo per il diritto dell’Unione in seno alla competenza statale per l’istituzione di norme penali. Se spetta anzitutto al legislatore interno adottare le misure necessarie per soddisfare i requisiti imposti dal diritto dell’Unione per la tutela delle frodi agli interessi finanziari facenti capo a quest’ultima, esistono però – sostiene la Corte – delle condizioni minime di adempimento degli obblighi di tutela, a fondamento giuridico dei quali stanno l’art. 325 TFUE e l’art. 2 Convenzione TIF relativa alla lotta alle frodi comunitarie.
Tali condizioni sono: il divieto di far sì che tale regime comporti, “per motivi ad esso intrinseci, un ‘rischio sistemico’ d’impunità per i fatti costitutivi di simili reati” e il dovere di garantire “la tutela dei diritti fondamentali degli imputati” [93].
L’acclarata inerzia del legislatore consente ai giudici di Lussemburgo di accertare la violazione della prima condizione, e di far pendere in capo al giudice del rinvio l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione disapplicando quello interno. “Tuttavia” – soggiunge la Corte – deve verificarsi se tale obbligo “entri in conflitto, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, con la tutela dei diritti fondamentali” [100].
L’apparato argomentativo dispiegato a tal scopo s’impernia su tre passaggi.
Primo: [i]l principio di legalità – che la Corte ricostruisce in base all’art. 49(1) CDFUE – copre “tanto la definizione del reato quanto la determinazione della pena”, ma non la normativa sulla prescrizione. [104] Si deduce che le vicende ad essa relative non rappresentano contrasto diretto col diritto dell’Unione, non violando “né il principio di prevedibilità, determinatezza e irretroattività dei reati e delle pene, né il principio della lex mitior”[109] così come fissati dalla Carta.
Tutto ciò nondimeno – ed è il secondo passaggio – il fatto che tali vicende intersechino un ambito rilevante per il diritto dell’Unione quale il contrasto alle frodi al bilancio comune fa sì che tale disciplina, ad avviso della Corte, rientri nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione a voce dell’art. 51(1) Carta. Non si applicherebbe direttamente l’art. 49 Carta, quindi; tuttavia, il diritto dell’Unione rileverebbe in via indiretta, quale latore di standard di tutela complessivi che non possono essere disattesi. Nelle parole della Corte, si versa in una situazione in cui “l’operato degli Stati membri non è del tutto determinato dal diritto dell’Unione” sicché “resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione”. [110]. Il livello di tutela previsto dalla Carta”, insomma, si applica anche là dove la Carta stessa non trova applicazione, poiché è il diritto dell’Unione in quanto tale a ingerirsi della fattispecie là dove ai suoi fini rilevante – con ciò aggirandosi il limite di cui all’art. 51(2) Carta, che i giudici del Kirchberg, semplicemente, non includono nell’itinerario argomentativo.
Si riconosce così, in principio, uno spazio di manovra per il diritto statale, sottoposto tuttavia al giudizio della Corte di Giustizia. Tale giudizio – è il terzo passaggio – si consolida mediante la clausola dello Stato di diritto. Secondo la Corte, i requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale costituiscono espressione del principio della certezza del diritto, che rientra nel campo operativo dell’art. 2 TUE quale “elemento essenziale” della rule of law – “valore fondatore dell’Unione” e insieme “comune agli Stati membri” [114].
Ricondotto il diritto nazionale al rispetto dei valori, la Corte supera il problema del rapporto tra ordinamenti: alla bisogna, può far valere il primato del diritto dell’Unione senza passare né per la Carta – di cui seleziona gli articoli, e i commi, che ritiene di applicare – né per altra formula di diritto positivo che non sia uno dei lemmi, selettivamente considerato anch’esso, dell’art. 2 TUE.
Resta l’unico limite del c.d. bilanciamento verticale, che la Corte menziona [97] e del quale, sostanzialmente, dispone. Indica, allora, la soluzione che reputa consona al diritto dell’Unione con parole invero esplicite. Scarta la norma derivante dalla retroazione ab initio della declaratoria di incostituzionalità e sceglie la norma che limita la retroazione alla prima sentenza come meglio aggiustata al bilanciamento dei diritti e interessi in gioco. Per cui: una retroazione di soli quattro anni [124] consentirebbe ai giudici romeni di avvalersi della dottrina M.A.S. [118] applicando il diritto interno e considerando privi di effetto gli atti interruttivi della prescrizione durante quel lasso di tempo; una retroazione totale, cioè al 1° febbraio 2014, sacrificherebbe in maniera eccessiva gli interessi tutelati dal diritto dell’Unione e andrebbe ritenuta contraria a quest’ultimo, che troverebbe prioritaria applicazione.
Ripercorsi gl’itinerari del primato così come battuti dalla Corte, deve segnalarsi la conferma dell’approccio value-based già inaugurato con le pronunce sulla tutela della rule of law e portato ad approdi estremi con riguardo alle vicende della Romania – segnate in origine, com’è noto, da un processo di ‘adesione monitorata’ di cui si è appena concretizzato il superamento.
Tale approccio – è la tesi cui vorrebbe qui farsi cenno – condurrebbe verso una trasformazione del concetto stesso di primato e dei suoi strumenti giustificativi.
Seguendo il ragionamento della Corte, infatti, ci si allontana definitivamente dall’idea per cui il diritto dell’Unione s’impone in quanto rispetti la sovranità eguale degli Stati e la tutela di diritti per standard equivalenti – secondo la formula di cui al Trattato di Maastricht – ovvero l’identità nazionale insita nella struttura politico-costituzionale degli Stati, a voce dell’art. 4(2) TUE post-Lisbona. Sia che si leggano queste due norme nel segno di una parziale discontinuità, sia che le si collochi lungo le vie di una continuità di fondo, appare evidente che la Corte si sforzi di sottrarre il primato al campo dei rapporti tra fonti per consegnarlo alla tutela dei valori, sicché il ‘rispetto’ verso questi ultimi – come interpretati dalla Corte stessa – sia l’unico parametro cui il diritto dell’Unione debba sottostare. In altri termini, il primato abbandonerebbe l’art. 4(2) per appoggiarsi interamente all’art. 2 TUE – ad uno soltanto, il quinto, dei suoi lemmi.
La prima differenza tra le due ipotesi è chiara: in quest’ultimo caso, il diritto dell’Unione non conoscerebbe altro limite che quello, ad esso tutto interno, eventualmente imposto dalla Corte di Giustizia. Ma ve n’è un’altra, corollario della prima, che pure merita rilievo. Nel primo caso, al primato si oppone un limite al contempo procedurale e materiale: lesione della sovranità, da un lato, e di un diritto specifico dall’altro. In tal guisa, il diritto dell’Unione conserva un duplice fondamento: volontaristico – la sovranità eguale degli Stati, precipitato del consenso originario e fondata sul conferimento, dunque legata a una base giuridica scritta – e morale, imperniato sulla tutela dei diritti, traduzione giuridica di precetti morali da parte di un ceto di dotti (giudici e giuristi). Per contro, nell’altro caso, il fondamento volontaristico s’assottiglia fino a scomparire, e il diritto dell’Unione resta ancorato al solo ormeggio dell’etica.
Il passaggio merita più attenzione. È noto, infatti, che nello Stato di democrazia pluralista la tutela dei diritti fondamentali apporta, mercé l’opera dei giudici, un elemento etico secolarizzato al diritto che in quello Stato si applica. Un tale elemento, indisponibile all’attività del legislatore, si giustappone al dato positivo che dalla volontà di quest’ultimo scaturisce; legittimandosi, infine, l’uno e l’altro, in virtù del loro reciproco equilibrio, in base al quale la libera auto-determinazione individuale-collettiva non può disgiungersi dall’intangibilità di un nucleo fondamentale di diritti della persona.
Di qui, seguendo il filo delle tradizioni costituzionali comuni, una solida matrice etica permea le formulazioni di cui all’art. 6 del TUE ante Lisbona e all’art. 2 TUE attuale. Là dove quel filo resti, pur sottile, in vita, l’art. 2 non fonda, da sé solo, il diritto applicabile nello spazio europeo, a meno di non dare per avvenuta un’unità politica ancora ben lontana. Al contrario, tale diritto ha da ricondursi a una base giuridica che fissi una competenza per l’Unione o che almeno delimiti l’ambito operativo del diritto ad essa riferibile. Una base giuridica siffatta è traduzione concreta della norma che regola in via generale i rapporti tra Stati e Unione – ad oggi, l’art. 4(2) TUE. Sennonché, se da ‘Stato di diritto’ è fatta derivare in concreto una norma capace di disapplicare il diritto interno in una materia di competenza pacificamente statale, lo spessore del dato positivo tende a rarefarsi: la prevalenza schiacciante dell’elemento morale, rielaborato in via ermeneutica dalla Corte di Giustizia, rende marginale l’art. 4(2) TUE in uno a ogni argomento fondato sul dato positivo e, in generale, sul principio di attribuzione, soppiantati di fatto dal maggior pregio riconosciuto all’art. 2 TUE quale sede di un elemento siffatto – rectius: al quinto dei valori ivi elencati, nondimeno assunto a malintesa Menschenwürde in un’inedita riedizione post-statale della Mitgiftstheorie.
Non poche, né di poco momento, sono le conseguenze di un tale processo; alcune delle quali, peraltro, già rintracciabili negl’itinerari argomentativi battuti dai giudici del Kirchberg. Prima tra queste è il postulato per cui il consenso di uno Stato che abbia aderito all’Unione opera una tantum: una volta prestato, non contribuisce più a formare il diritto applicabile – perché sarebbe la Corte a dire questo diritto, finanche tramutando in regola concreta i valori comuni. Sparirebbe così il confine tra diritto consolidato – a cui gli Stati hanno aderito – e diritto che la Corte crea ex novo; come se l’acquis communautaire si rimodellasse volta per volta attraverso il legame che la Corte rinviene, per ciascun caso di specie, con i valori stessi – la forza ius-generativa dei quali travolgerebbe il dato positivo fino a ingoiarlo, confinando l’argomento che su di esso s’impernia nel cantuccio dell’irrilevanza.
Mediante un tal uso dell’art. 2 TUE – della rule of law, poiché gli altri valori, legati all’auto-determinazione di persone eguali e quindi al filone volontaristico della democrazia pluralista, paiono indisponibili a sostenere questo processo – un diritto dell’Unione in tal guisa moralizzato si farebbe militante: mezzo di legittimazione e presidio di un’egemonia di fatto, e non più argine a simili pretese egemoniche.
Se si segue questa direttrice, deve ammettersi che, ad onta del conclamato principio di ‘non regressione dai valori comuni’ già sostenuto da Lussemburgo, un diritto dell’Unione così fondato compie un passo indietro rispetto all’acquis constitutionnel del secondo Novecento, per il quale la democrazia pluralista vive di un equilibrio tra volontarismo e moralismo, legislatore e giudice, architettura dei poteri fondata sul suffragio universale e limiti meta-positivi al legislatore. Anzi, proprio perché dimentico di quell’acquis, un tal diritto ne lascerebbe cadere la lezione storica: accettando di farsi strumento di legittimazione del più forte, disconoscerebbe il conflitto sociale a tutela dei vincitori di fatto, combattendo il dissenso sul piano interno e internazionale in luogo di proteggerne – in nome della democrazia pluralista – gli spazi di espressione.
A sottile imbragatura contro una siffatta deriva sta la valorizzazione del principio della certezza del diritto. I giudici dell’Unione ancorano tale principio alla rule of law, quindi all’art. 2 TUE che annovera quest’ultima tra i valori comuni. Già innalzata dalla Corte costituzionale romena, e prim’ancora dalla Corte Suprema danese, a parametro di legittima disapplicazione del diritto dell’Unione, la certezza del diritto pare elemento inderogabile per preservarne, in uno all’appiglio testuale – quindi, al perdurante nesso con la volontà dei destinatari – la stabilità nella tutela, parametrando ogni norma alla rispettiva base giuridica. Per tale principio, i giudici del Kirchberg spendono [114-115] parole importanti, ancorché non scevre dal sospetto di situazionistico opportunismo: in varie altre circostanze, pure citate dalla sentenza annotata, la tutela del primato aveva sacrificato al ‘rispetto’ per l’art. 2 TUE la certezza giuridica, ora invece chiamata in causa a sostegno del primato stesso.
Tuttavia, l’asserita consapevolezza della centralità di tale principio per una tutela dello Stato di diritto che non sia meramente strumentale all’affermazione di un primato incondizionato è senza dubbio assai opportuna. Resta da vedere come la Corte di Giustizia la tradurrà in pratica nelle pronunce che seguiranno.