“Prima i radicati”? Un criterio incostituzionale per l’accesso a case popolari e asili nido
Non è infrequente che le Regioni impongano l’esistenza di un pregresso rapporto con il territorio per l’accesso ai servizi erogati e in relazione a tali politiche la Corte costituzionale ha delineato i confini dello statuto regionale delle provvidenze sociali. L’occasione per ritornare su questo tema le è stata offerta dal ricorso del Governo avverso due leggi regionali, rispettivamente di Liguria e Veneto, che hanno fondato sulla residenza protratta per un determinato periodo di tempo il criterio privilegiato nell’accesso a prestazioni regionali dalla marcata connotazione assistenziale e particolarmente sentite dalla stessa cittadinanza: l’assegnazione delle case popolari e l’ammissione agli asili nido.
In particolare, la normativa ligure (art. 4, comma 1, l. r. n. 13/2017) ha previsto che, ai fini dell’attribuzione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, il requisito prescritto dalla legge per i cittadini di paesi extracomunitari (ovverosia la titolarità di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno almeno biennale abbinato ad esercizio di attività lavorativa) fosse sostituito dalla regolare residenza «da almeno dieci anni consecutivi nel territorio nazionale». L’art. 1, comma 1, della l. r. Veneto n. 6/2017, invece, ha assegnato titolo di precedenza per l’ammissione all’asilo nido, dopo i bambini portatori di disabilità, ai figli di genitori che risiedono anche in modo non continuativo in Veneto o che vi lavorino ininterrottamente (compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione) da almeno quindici anni.
L’effetto esclusivo discriminatorio di tali normative è il più evidente, anche se non l’unico, vulnus di legittimità: pur nelle differenze (nel primo caso viene in causa la dimensione nazionale della residenza, richiesta non in via generale ma ai soli cittadini extracomunitari) il discorso della Corte declina il canone dell’irragionevolezza della legge in relazione ad una pluralità di parametri.
Nella sent. n. 106/2018, l’incostituzionalità della disposizione ligure è imputata alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per manifesto contrasto con la direttiva 2003/109/CE (come recepita dal d.lgs. n. 3/2007): difatti, la fonte europea riconosce lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che risiedano regolarmente in uno Stato membro da almeno cinque anni e ne prevede l’equiparazione ai cittadini nel godimento dei servizi e prestazioni sociali, tra i quali testualmente rientra l’assegnazione di alloggi di ERP. Il sindacato di ragionevolezza trova comunque un varco là dove la stessa normativa interna di adattamento prevede una possibilità di deroga, in tema di accesso dei soggiornanti di lungo periodo alla procedura di ottenimento di tali alloggi, e richiede a tal fine che «sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale». La Corte ricorda come il radicamento territoriale necessario per i cittadini di paesi terzi non sia in sé incostituzionale, ma debba essere «contenuto entro limiti non arbitrari e irragionevoli»: nel caso di specie, sono la misura – sproporzionata – del periodo di residenza fissato dal legislatore regionale e la sua parametrazione – incoerente – all’intero territorio nazionale a non lasciare scampo alla deroga introdotta dalla Regione, «risolventesi in una forma dissimulata di discriminazione nei confronti degli extracomunitari».
In astratto neutra si presenta, invece, la regola dell’appartenenza territoriale adottata dalla Regione Veneto per l’accesso preferenziale al nido, poiché configurata come criterio a portata generale riguardante tutti i genitori, italiani e non. In realtà, essa cela comunque una discriminazione indiretta a danno dei non cittadini, che la Corte sanziona nella sent. n. 107/2018. La prospettiva adottata dalla Corte in questa seconda decisione, da un lato, si allinea alla giurisprudenza precedente, che non ha escluso la possibilità di differenziare l’accesso alle provvidenze sociali, facendone dipendere la legittimità dalla natura della singola prestazione. L’introduzione di regimi differenziati, infatti, «è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria» (sent. n. 172/2013), che può essere legata alla logica del rapporto stabile con il territorio solo qualora il tipo di servizio non sia intrinsecamente legato ai bisogni della persona (sent. n. 222/2013). In relazione alla disciplina degli asili nido, la Corte individua il criterio rilevante per definirne la ratio legis nella funzione educativa a vantaggio dei bambini e nella funzione socio-assistenziale in favore dei genitori privi di mezzi economici e, soprattutto, dell’accesso delle donne al lavoro. Lo scopo fatto proprio dal legislatore con il criterio di selezione contestato manifesta, allora, la sua irragionevolezza. Anzitutto, perché contraddice lo scopo oggettivo del servizio sociale, prescindendo totalmente dal fattore economico e «favorendo le persone radicate in Veneto da lungo tempo». Inoltre, perché tradisce la vocazione “universalistica” dei servizi sociali: di fatto, tale accesso può essere più facilmente conseguito dagli italiani, determinando una differenziazione in base alla cittadinanza la quale, a fronte del «rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza», deve essere sottoposta a uno scrutinio stretto di costituzionalità.
D’altra parte, nella sent. n. 107/2018 la Corte si espone più fermamente di quanto non avesse fatto in passato a dimostrare la fallacia di altri argomenti addotti dal legislatore regionale: in particolare, di quello relativo al “pregresso contributo” apportato alla comunità di riferimento (secondo il resistente, infatti, la norma impugnata legittimamente avrebbe dato la precedenza «a coloro che abbiano più a lungo contribuito alla realizzazione del contesto sociale ed economico pubblico da cui ha origine il sistema locale di assistenza alla prima infanzia»). I giudici costituzionali rimarcano non solo gli specifici profili di irrazionalità di tale criterio (nulla assicura, infatti, che il genitore residente o occupato abituale abbia pagato tributi in Veneto per un lungo periodo e, a rigore, si dovrebbe preliminarmente verificare il tipo di copertura finanziaria – propria o derivata – adottata per erogare il servizio), ma anche che, a monte, è la stessa Costituzione a escludere che il dovere tributario sia retto dalla logica della controprestazione («mentre esso è una manifestazione del dovere di solidarietà sociale») e a rendere di per sé contraddittoria l’applicazione di tale argomento alle prestazioni sociali («perché porta a limitare l’accesso proprio di coloro che ne hanno più bisogno»).
La dichiarazione di incostituzionalità della legge veneta si fa ancora più forte per l’interconnessione che il giudice delle leggi stabilisce tra il canone della ragionevolezza e altri parametri, che gli permettono di costruire un discorso sulla dimensione nazionale e sovranazionale dei diritti sociali. Gli ostacoli legati alla residenza che si frappongono al godimento delle provvidenze sociali, infatti, pregiudicano in via indiretta l’esercizio di fondamentali libertà riconosciute dalla Carta costituzionale e dai Trattati europei. L’esclusione dal welfare che consegue all’applicazione di tali normative, per un verso, potrebbe trattenere le persone dal trasferirsi da un punto all’altro del territorio nazionale, in violazione dell’art. 120 Cost. (ai sensi del quale «la Regione non può […] adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale»). Il divieto fissato da questa disposizione presuppone un sindacato di ragionevolezza delle leggi regionali incidenti sui diritti da essa garantiti, articolato in più step e volto a verificare se la limitazione prevista sia costituzionalmente tollerabile (sent. n. 51/1991), che la norma veneta non supera, dal momento che non persegue un interesse pubblico meritevole, quanto piuttosto una finalità in violazione dell’art. 3 Cost., e che la durata richiesta per la residenza o l’occupazione continuativa in Veneto è incoerente con l’obiettivo di garantire un legame tra il richiedente e la Regione. Sul versante sovranazionale, la Corte ravvisa nella disposizione impugnata una restrizione alle libertà di circolazione e di soggiorno riconosciute a ogni cittadino dell’Unione dall’art. 21, n. 1, TFUE. In base alla giurisprudenza della Corte di giustizia, una tale limitazione sarebbe giustificabile solo se basata su considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate e se proporzionata allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale: condizioni, queste, del tutto assenti nel caso di specie.
I risvolti di queste ultime considerazioni, che la Corte ha ritenuto di sviluppare in relazione alla controversa politica restrittiva e discriminatoria della Regione Veneto per l’accesso agli asili nido, si riverberano oltre il caso de quo, poiché stanno a significare, più in generale, che all’interno dello Stato e dello spazio europeo lo spostamento di un cittadino non può avere come conseguenza la perdita anche solo temporanea dei diritti. L’uguaglianza e la libertà di circolazione potranno valere, allora, come argini nei confronti di una politica che voglia cavalcare l’idea che la “cittadinanza sociale” possa essere differenziata a livello regionale oltre il limite della ragionevolezza.