Piattaforme digitali: l’attività di selezione dei contenuti è protected speech. La Corte Suprema USA limita gli interventi di regolazione statale nel settore digitale
Il primo luglio 2024, nel caso Moody v. NetChoice, LLC, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha esaminato la compatibilità con la libertà di espressione delle leggi di due Stati (Florida e Texas) volte a regolare l’attività di moderazione (c.d. content moderation) realizzata dalle piattaforme digitali e, in particolare, dai social networks, sui contenuti caricati dagli utenti. Gli interventi legislativi in esame erano dichiaratamente rivolti a limitare la facoltà delle piattaforme di ‘censurare’ posizioni politiche sgradite, in linea con l’accusa rivolta ai giganti digitali di veicolare idee liberal e marginalizzare le posizioni conservatrici. Tuttavia, la questione esaminata dalla Corte è centrale rispetto alla qualificazione dell’attività svolta dalle piattaforme digitali e l’ammissibilità costituzionale di interventi normativi volti a regolarne il potere, nell’ottica di superare il modello dell’autoregolazione, sin ora assolutamente prevalente. Si tratta di una pronuncia unanime rispetto alla decisione di annullamento con rinvio per motivi processuali delle due sentenze impugnate, tuttavia, come si vedrà, nonostante la natura assorbente delle questioni di rito, l’opinione della maggioranza affronta ampiamente il merito della questione. È proprio su tale ultimo profilo che si registra la spaccatura all’interno della Corte, in particolare nell’opinione concorrente del giudice Alito.
La controversia in esame originava dall’approvazione in Florida e Texas di due provvedimenti legislativi, diversi per ambito di applicazione e per la portata degli obblighi imposti nei confronti degli operatori, ma analoghi nel prevedere limiti al potere delle piattaforme attraverso l’introduzione di divieti di discriminazione (mediante l’eliminazione, la de-prioritizzazione, l’alterazione etc.) del contenuto pubblicato dagli utenti, salvo specifiche ipotesi previste dalla legge. Alla luce di quanto sopra, un’associazione di categoria rappresentativa delle principali piattaforme (come Facebook e YouTube) agiva in giudizio chiedendo che venisse accertata l’incostituzionalità integrale di entrambe le leggi contestate (c.d. facial challenge), con un’azione volta a contestare l’intero contenuto delle leggi impugnate, senza prospettare l’illegittimità rispetto ad alcuni specifici risvolti applicativi (c.d. as applied challenge) ma, al contrario, sostenendo che ogni loro possibile applicazione fosse incostituzionale. Le due Corti di Appello investite in sede cautelare della questione avevano raggiunto conclusioni opposte rispetto alla compatibilità con la costituzione federale della limitazione dell’attività di content moderation delle piattaforme. Nondimeno, la Corte Suprema ha annullato entrambe le decisioni in quanto ha rilevato che la natura delle domande avanzate dal ricorrente imponesse un’analisi più completa, in quanto continuavano a rimanere incerte, tra le altre questioni, l’esatta definizione del perimetro soggettivo ed oggettivo di applicazione delle leggi contestate, come l’applicabilità ai servizi di messaggistica istantanea o di posta elettronica.
In tale contesto, la maggioranza della Corte (Kagan, Roberts, Sotomayor, Kavanaugh, Barrett) ha ritenuto di dover esprimere delle indicazioni – qualificate dalla minoranza come obiter – rispetto alla dirimente questione della qualificazione dell’attività delle piattaforme e del grado di protezione che essa riceve nell’ambito del primo emendamento. Sul punto infatti, la Corte ha inteso espressamente disattendere le conclusioni raggiunte dalla Corte di Appello per il quinto circuito che, con riferimento alla legge texana, aveva stabilito l’irriconducibilità della l’attività realizzata dalle piattaforme digitali alla manifestazione del pensiero, in quanto meramente riproduttiva di quanto realizzato dai singoli utenti. In secondo luogo, la Corte di Appello aveva osservato che anche considerando costituzionalmente protetta l’attività di selezione dei contenuti realizzata dalle piattaforme, l’interesse del Texas ad assicurare il miglior funzionamento del marketplace of ideas avrebbe comunque giustificato una limitazione della libertà di espressione degli operatori privati.
La Corte Suprema ha contestato le conclusioni raggiunte dalla Corte inferiore con un’ampia argomentazione che ruota intorno all’equivalenza tra l’attività di selezione dei contenuti realizzata dai social networks, con specifico riferimento a Facebook e YouTube, e la definizione della linea editoriale da parte del direttore di un quotidiano. Sul punto viene richiamata la pregressa giurisprudenza che aveva escluso l’ammissibilità costituzionale di interventi legislativi idonei a realizzare un’interferenza con la libertà editoriale, ovvero fossero lesivi del diritto di “non dire” qualcosa che non si condivide, come nel caso di una legge statale che aveva imposto ai quotidiani di garantire un diritto di replica per ogni candidato che fosse stato oggetto di critiche da parte del giornale (Miami Herald Publishing Co. v. Tornillo, 1974). Il nodo centrale atteneva alla possibilità di rinvenire l’esercizio della libertà di espressione nell’attività di moderazione, tracciando un’analogia con l’attività di selezione e diffusione delle opinioni di terzi svolta dall’editor di un giornale. In tale ultimo caso, infatti, l’elemento espressivo consiste proprio nella decisione di includere certi contenuti ed escluderne altri, senza che venga in rilievo il grado di maggiore o minore selettività nella selezione effettuata. In altri termini, anche se pochissimi contenuti sono scartati, ciò è sufficiente a rinvenire l’esercizio della libertà di espressione dell’autore della raccolta, al contrario difficilmente invocabile nel caso in cui la selezione manchi del tutto. Sul punto, la Corte richiama la natura costituzionale tutelata del potere degli organizzatori di una parata di escludere alcune associazioni, se portatrici di messaggi ritenuti incompatibili con il contenuto che la manifestazione culturale intendeva veicolare. Tale conclusione era stata raggiunta nonostante le associazioni ammesse a partecipare fossero poi state libere di stabilire in completa autonomia le modalità e il contenuto della loro esibizione (Hurley v. Irish American Gay, 1995). Alla luce di tali precedenti, la Corte Suprema corregge la motivazione resa dalla Corte inferiore ed evidenzia come, salvo gli ulteriori accertamenti istruttori, la legge texana incide illegittimamente sulla libertà delle piattaforme che, nel selezionare i contenuti da proporre agli utenti, stanno manifestando il loro pensiero. Sotto altro profilo, la Corte esclude che l’interesse pubblico a evitare la discriminazione di certe posizioni sgradite (viewpoint discrimination) possa giustificare la limitazione dell’attività dei privati in linea con quanto avviene per l’autorità pubblica, così ribadendo la netta distanza tra soggetti pubblici e privati e l’avversione del costituzionalismo americano per la dimensione orizzontale dei diritti, secondo la state action doctrine.
In aggiunta alle critiche rispetto alla scelta di affrontare il merito della questione nonostante la definizione in rito della vicenda, il giudice Alito nella sua concurring in judgment sottolinea le criticità di un approccio metodologico che riconduca attività inedite per dimensioni e modalità di funzionamento – tra l’altro molto diversificate tra le varie piattaforme – in confronto con la tradizionale attività giornalistica. Sul punto viene evidenziato come la natura massiva ed automatizzata dell’attività di selezione dei contenuti, oltre ad essere assolutamente inedita, non sembra idonea ad esprimere una specifica opinione meritevole di protezione, in quanto determinata da motivazioni variegate, ad esempio nell’ipotesi in cui venga prioritizzato uno specifico contenuto solo in quanto considerato più coerente con le pregresse visualizzazioni dell’utente, specialmente ove tale attività sia realizzata secondo processi esclusivamente automatizzati. Anche la giudice Barrett ha avanzato delle perplessità sulla riconducibilità dell’attività algoritmica di selezione dei contenuti alla libertà di manifestazione del pensiero se realizzata senza la presenza di un human in the loop. Sotto altro profilo, il giudice Alito invita la Corte ad esaminare la questione nella prospettiva della common-carrier doctrine, già prospettata dal giudice Thomas nell’opinione concorrente resa nel caso Knight First Amendment Institute (2021), in base alla quale sarebbe ammissibile l’imposizione di obblighi a contrarre in capo ad operatori commerciali detentori di una posizione privilegiata sul mercato, così aprendo a forme di regolazione pubblicistica delle piattaforme.
In conclusione, l’equiparazione prospettata dalla maggioranza con l’attività editoriale implica almeno due profili problematici. In primo luogo, la questione esaminata incide sulla diversa ma parallela questione dell’applicabilità della Section 230 del Communications Decency Act del 1996 che esime le piattaforme da responsabilità derivante dalla pubblicazione di contenuti illeciti, salvo casi eccezionali, proprio in quanto tali contenuti sono considerati imputabili solo al singolo utente. Invero, in sede di discussione orale, alcuni giudici avevano già evidenziato l’ambivalenza delle difese delle piattaforme che in altri recenti giudizi (come in Gonzalez v. Google LLC, 2023), quando si trattava di valutare la responsabilità risarcitoria per i contenuti pubblicati dagli utenti e valutare l’applicabilità dall’immunità prevista dalla Section 230, avevano qualificato l’attività di moderazione dei contenuti sui loro sistemi come attività puramente neutrale. Al contrario, nella controversia in esame, la medesima attività era stata qualificata dalla difesa delle parti come esercizio di un’attività originale e riconducibile alla manifestazione del pensiero, proprio al fine di invocare la protezione costituzionale come schermo a fronte di tentativi di regolazione statale. Si tratta di posizioni inconciliabili, per cui l’odierna svolta della giurisprudenza sembrerebbe prospettare la futura rimeditazione dell’applicabilità alle piattaforme dell’immunità prevista dalla Section 230. Invero, dopo quasi venti anni dalla sua attuazione, tale disposizione appare sempre meno adeguata in un contesto in cui le piattaforme digitali intervengono attivamente nella manipolazione dei contenuti caricati da terzi ed esercitano funzioni para-pubblicistiche, assumendo un ruolo centrale per l’esercizio della libertà di espressione degli utenti (si veda M.Bassini, G. Finocchiaro e O.Pollicino). In secondo luogo, la nozione espansiva di libertà di espressione accolta nella decisione della Corte, in linea con la giurisprudenza più recente (come nel caso Sorrell, 2011), sembra impedire significative forme di regolazione statale nel settore digitale contribuendo a consolidare una digital Lochner era (si veda N.M. Richards) e realizzare un cyberspazio sempre più nelle mani di pochi grandi giganti privati ‘irresponsabili’. La questione appare particolarmente problematica specialmente se, come pure osservato dai primi commentatori (si veda T.Wu), anche i contenuti prodotti dall’intelligenza artificiale generativa dovessero essere qualificati come attività meritevoli di protezione nell’ambito della libertà di espressione, così impendendo interventi di regolazione anche in tali settori.