Pensieri sparsi dopo il post scriptum di Antonio Ruggeri su Corte. Cost. n.230/2012.

Ho letto, con il fiato di lavoro, famiglia ed altro che insegue, il post scriptum di Antonio Ruggeri che pure più volte richiama, fra gli altri, le posizioni di  Francesco Viganò.

Vi confesso che, seguendone il finissimo ragionamento, non riesco tuttavia a contestare la soluzione finale di Corte cost.n.230/2012.

Sono infatti portato a ritenere che la soluzione offerta dalla Corte cost.n.230/2012 sia, pur nel solco di orientamenti circa i  rapporti fra CEDU e diritto interno che non condivido,  tutto sommato equilibrata.

In definitiva, di cosa possiamo accusare la Corte costituzionale. Forse di non avere premuto la leva della CEDU fino al punto da trarvi delle conclusioni, in punto di diritto giurisprudenziale, che la stessa Corte europea non sembra avere fin qui espresso in maniera nitida. E sia. Ma cosa doveva fare la Corte di alternativo.


Si dice, forse poteva ridurre la portata delle sue affermazioni e limitare il tiro al caso senza prendere partito sul tema in generale. Ma a parte la difficoltà di siffatte riduzioni, proprio considerando che in gioco era la libertà della persona condannata sulla base di un indirizzo non più considerato corretto dalle S.U. intervenute successivamente e che dunque il caso prospettato, se accolto, avrebbe importato una presa di posizione estremamente traumatica, nutro un dubbio di fondo, non so se corretto o meno, ma provo a prospettarlo.

Se noi evochiamo la protezione dei diritti di matrice convenzionale, dobbiamo- almeno a me così pare- prioritariamente misurarci con i meccanismi e le regole che quel sistema ha.

Se poi vogliamo trovare nicchie di tutela ulteriori “fuori” dalla CEDU e le rintracciamo nella Carta costituzionale, nella Carta di Nizza-Strasburgo benissimo, anzi, ben vengano. Se, dunque, vogliamo realizzare, come pure io penso, un gioco virtuoso fra le Carte e le Corti edificando sul dialogo nuove e più elevate nicchie di tutela, credo possiamo e dobbiamo sforzarci di farlo ma… c’è un però.

Se maneggiamo la CEDU non dobbiamo, a me pare, dimenticare il sistema di protezione che essa offre ed i meccanismi che ne regolano il funzionamento.

Ho sentito, in questi tempi, poco o nulla parlare, dei limiti di ammissibilità temporale dei ricorsi alla Corte di Strasburgo che pure svettano nell’art.35 1^par. CEDU che riporto di seguito:

“La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qual’è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva.”

La Corte, in altri termini, ammette l’esistenza di un corridoio di accesso innanzi a sé con specifici limiti temporali. Il  che val quanto dire che se c’è uno che va alla Corte ed un altro non va, la diseguaglianza di trattamento si produrrà comunque fra i due. E’ ammessa, giustificata, voluta, ovviamente per un coacervo di ragioni sulle quali è inutile qui soffermarsi. L’eventualità, pertanto, che si verifichino violazioni convenzionali non tempestivamente poste all’attenzione della Corte è, comunque, prevista ed accettata.

Ma se così è, possiamo ammettere che la Corte possa sanzionare la condotta di uno Stato che, in  ipotesi in cui la violazione CEDU è stata ritenuta dalla giurisdizione nazionale di ultima istanza (dotata di particolare forza come le S.U.) per casi verificatisi dopo il passaggio in giudicato della sentenza nazionale con la prima contrastante– giudicato considerato dall’ordinamento interno come punto di sbarramento per la tutela di un diritto- che ha definito la vicenda anche se, per ipotesi in modo non convenzionalmente corretto?-

L’agire in prevenzione per evitare condanne della Corte EDU che potrebbero profilarsi in caso di contrasto fra giudicato e successivo mutamento giurisprudenziale del giudice interno non mi pare, lo dico sommessamente, essere un tema che può essere agevolmente accolto dalla Corte. Certo,  è vero il 46 CEDU impone allo Stato di adottare le misure di ordine generale e particolare volte ad eliminare gli effetti di una violazione accertata.  Ma questo non credo possa e voglia dire che la CEDU vuole eliminare gli effetti dei giudicati, se è vero, come ho scritto in altro precedente messaggio, che anche per la Corte il giudicato è un valore rilevante. Ed in ogni caso, le misure generali o speciali sono prese dagli Stati, all’interno delle loro responsabilità nell’ambito del margine di apprezzamento loro riservato.

In Scordino c.Italia (29.3.2006) si chiarì che tra le misure generali che lo Stato può decidere di adottare possono esservi anche soluzioni retroattive- questo disse anche la Corte di giustizia in Carbonari e Gozza(Corte giust. CE 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari e altri, )- ma qui non so se la Corte europea si riferiva anche alle ipotesi dei giudicati già formatisi.

In altri termini, se è vero che il “cuore” del ragionamento del remittente era fondato sulla CEDU- lo dice la stessa Corte costituzionale, parlando di “prima e fondamentale censura”  espresso dal remittente medesimo-  la Corte ha offerto una risposta che ha guardato prioritariamente a quel sistema.

Per confermare che la Corte dei diritti umani giustifichi eventuali disparità di trattamento anche se conseguenti a mutamente giurisprudenziali interni segnalo un caso, noto(a ma non troppo)- quello dei serbi fatti saltare in aria da una bomba scagliata da aereo NATO partito dalla base di Aviano- chi fosse interessato troverà due miei commenti su Corr.giur. (2003 e 2007) e su forum costituzionale nota Randazzo alla sent.CEDU)-. Gli eredi si erano rivolti al giudice italiano per denunziare l’arbitrio -uccisione di civili che si trovavano nella televisione serba, contro ogni norma di ingaggio prevista dalle Convenzioni internazionali che disciplinano gli atti di guerra e contro l’art.15 CEDU, anche.

Nel regolamento di giurisdizione le Sezioni Unite, il 16 settembre 2002(data da non dimenticare riguardando una pagina non bella, a mio avviso, della giurisdizione azionale ritennero che difettava in modo assoluto la giurisdizione, offrendo una lettura retrò della Cedu. Era in discussione un atto politico(atto di guerra)che, sostennero, era intangibile. Non contava, dunque, il crimine di guerra del quale si erano macchiati gli autori del bombardamento. I passaggi motivazionali di quella sentenza ricordano gli anni bui della giurisdizione interna, quando la CEDU era un atto programmatico privo di efficacia se non attuato- già varato il nuovo 117 primo comma Cost.-.

Gli eredi, ad ogni modo,  si rivolsero quindi a Strasburgo.Nel frattempo. Cass.s.u. n.5044/2004 aveva radicalmente (e fortunatamente) modificato il proprio orientamento, ritenendo che si radicava la giurisdizione dello Stato in caso di lesione dei diritti fondamentali connessi a crimini contro l’umanità e su questo mutamento i ricorrenti incentravano, anche, le loro difese.

La Corte di Strasburgo, con una discutibile pronunzia- della quale vanno ricordate sicuramente di più le opinioni dissenzienti del giudice italiano  Wladimiro Zagrebelski- ritenne che non vi era stata lesione del giusto processo- accesso all’autorità giudiziaria(art.6 CEDU).

Rispetto alla tesi dei ricorrenti, i quali avevano evidenziato che “successivamente” la Corte di Cassazione aveva espresso un orientamento diverso da quello delle S.U. della Cassazione del 2002 ed anche per questo assumevano di avere subito un danno per la violazione del 6 la Corte europea, in quell’occasione, non mostrò di considerare rilevante il “mutamento successivo” della giurisprudenza.

In definitiva, non mi pare né che la Corte abbia fin qui sottolineato, a livello generale,  l’esigenza di una garanzia di eguaglianza rispetto a casi coperti da precedente giudicato sulla base delle regole CEDU, né che questo sia stato preteso come dato indefettibile da parte dei singoli ordinamenti.

Allora, può davvero ritenersi che la Corte abbia minato il tronco della giurisprudenza convenzionale ed abbia con la stessa reciso le ragioni del dialogo. Anche a me, altre volte, è parso di dubitare della bontà dell’incedere di Corte cost.n.236/2010-nel cui solco, in definitiva, si inserisce Corte cost.n.230/2012-.

Ma ho francamente l’impressione che la posizione della  230 sia sostanzialmente e prevalentemente “attendista”.

In altri termini, anche qui la Corte si potrebbe dire ferma la lancetta su alcuni principi interni sui quali apare non volere transigere, ma non è detto che “domani” questi principi siano rimeditati proprio in ragione del carattere “mobile” delle fonti.

Come ho già detto nel precedente intervento a me sembra che la Corte cost., difficilmente, potrebbe evocare il 25 Cost. se davvero la Corte dei diritti umani dovesse orientarsi all’equiparazione diritto scritto diritto giurisprudenziale ai fini del 7 CEDU.

Ora, un conto è cercare all’interno del proprio ordinamento eventuali nuovi percorsi.

Ma non credo che si possa oggi far dire alla CEDU ciò che la stessa non dice chiaramente o, almeno, non mi pare mai abbia detto su un terreno così delicato.

Riporto, ancora, Corte dir. uomo  Brumarescu c. Romania, ric. n. 28342/95, su certezza del diritto e giudicato, che mi sembra evidenzi l’atteggiamento della Corte, in definitiva rispettoso delle prerogative dello Stato in materia.

Nella stessa direzione mi sembra muoversi altra pronunzia della Grande Camera della Corte dei diritti umani che riporto di seguito e dal quale, in definitiva, sembra evidenziarsi il ruolo del principio di certezza del diritto e di legalità che la Corte persegue.

Anche in un altro precedente della Corte dei diritti umani -Corte dir. uomo 26 maggio 2011, Legrand c.Francia– nel quale si discuteva dell’applicazione retroattiva di un cambiamento di giurisprudenza ad un procedimento in corso, il giudice di Strasburgo  ritorna su alcuni principi cardine, fra i quali c’è quello della certezza del diritto, già espresso nella sentenza Marckx che avevo indicato nel precedente messaggio.

Un discorso più approfondito meriterebbe il tema del giudice, considerato tanto nella giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, quanto in quello della giurisprudenza della Corte di Giustizia, espressione massima del principio di certezza del diritto. Anche in passato avevamo cercato di porre in evidenza le ipotesi di erosione che tale concetto ha subito soprattutto per mano del giudice di Lussemburgo.

Ma qui, credo, in discussione non vi è un ipotesi di contrasto del giudicato con un diritto di matrice convenzionale, una volta escluso, almeno allo stato,  che l’art.7 comprenda il diritto giurisprudenziale. E se così è, il ragionamento della Corte si muove, almeno così a me pare, sulle coordinate delle altre Alte Corti.

 

In definitiva, le due  personali conclusioni che traggo della giurisprudenza sopra ricordata sono le seguenti.

Per un verso, che la Corte di Strasburgo guarda con particolare deferenza ai sistemi giudiziari dei paesi membri ed alle regole fissate in ciascun ordinamento soprattutto quando in gioco è la certezza del diritto, vista come elemento cardine sul quale la collettività si radica.

Per altro verso, la stessa Corte di Strasburgo non si è incanalata in modo chiaro sul versante volto a riconoscere una parificazione fra diritto scritto e diritto giurisprudenziale. Se ciò farà con riguardo all’art.7 CEDU non credo sia dato saperlo.Ma mi pare di poter dire che questa evoluzione non potrà non passare da un esame comparato dei diversi sistemi giudiziari dei Paesi contraenti.

Entrerà, probabilmente, in campo la “dottrina del consenso” sulla quale mi ha di recente capitato di soffermarmi a proposito di temi etici ma che, probabilmente, anche qui non potrà non giocare un ruolo rilevante.

Per volere qui sintetizzare, la c.d. dottrina del consenso ha l’obiettivo di salvaguardare le tradizioni storico – giuridico – sociali di un Paese aderente alla CEDU al quale viene riconosciuto, anzitutto, il potere di adottare misure limitative di diritti fondamentali, stimando che le autorità nazionali si trovino in una posizione migliore rispetto al giudice europeo per individuare i limiti correlati alla sicurezza nazionale ed alla salute – v. caso Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978 -. Altre volte la stessa viene in gioco quando si presentano questioni di carattere etico, morale o religioso, per le quali non è possibile riscontrare nella legislazione domestica dei vari Paesi contraenti concezioni europee uniformi – si pensi ai casi in tema di moralità, di inizio vita, di rilevanza del consenso alla distruzione di embrione da parte del partner della donna, di fine vita,  di transessuali, di voto ai prigionieri, di adozione sulla base di kàfala vietata in base alla legge di provenienza del minore  e di adozione da parte di omosessuale, di fecondazione eterologa e di matrimonio fra persone dello stesso sesso – e non si riscontra un terreno comune e condiviso nei singoli Paesi.

In definitiva, tale dottrina si spiega evidenziando che al crescere del consenso rispetto ad una questione corrisponde un sindacato estremamente incisivo della Corte dei diritti umani per valutare la compatibilità dell’interferenza introdotta dallo Stato in difformità dalla regolamentazione uniforme raggiunta a livello europeo.

Per converso, l’assenza di tale condivisione sui grandi temi etico -sociali riduce l’ambito di operatività della Corte ad un controllo minimale, espandendo il sindacato delle autorità nazionale – espresso attraverso il loro margine di apprezzamento – e, conseguentemente, l’ambito delle interferenze introdotte a livello statale. Ciò che ha fatto dire che il margine di apprezzamento è complementare al consenso, nel senso che ad un margine di apprezzamento lieve corrisponderà un consenso ampio, e viceversa.

Agli occhi della Corte, il common ground si collega intimamente alla possibilità di dare alla CEDU una lettura evolutiva, sicchè in assenza del consenso tale interpretazione non deve ritenersi possibile.

Esaminando i dati virtuosi di tale dottrina, può dirsi che ad essa è sottesa, per un verso, la consapevolezza che un valore fondamentale vive in funzione dell’epoca nella quale è chiamato ad operare e, dunque, in ragione del consenso che sullo stesso si riscontra, di guisa che l’accresciuta sensibilità rispetto ad un valore finisce col giustificare l’innalzamento del suo livello di protezione anche nei confronti di chi non ha spontaneamente aderito alla manifestazione espressa dalla maggioranza.

Una simile impostazione guarda con favore all’interpretazione evolutiva di un valore fondamentale da parte di chi è chiamato ad individuarne le portata, marginalizzando una visione “fissa” dei valori e del loro grado di protezione.

Essa, d’altra parte, è consapevole che la protezione dei diritti fondamentali non può essere sganciata dal terreno nel quale essa opera. La ricerca comparatistica, peraltro complessa, sembra così dimostrare l’esigenza di collegare direttamente la giurisprudenza europea alle tradizioni culturali dei singoli Paesi, dalle quali la stessa Corte non può fare a meno.

Appaiono evidenti, sul punto, le simmetrie rispetto alla scelta della Corte di Giustizia di estrapolare i diritti fondamentali dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.

Anche in quell’occasione la Corte ha ritenuto di fare ricorso al metodo comparativo per legittimare l’opera – pretoria – di protezione dei diritti fondamentali utilizzando, peraltro, la formula generica in modo sostanzialmente “libero”, senza che alcuno potesse mai dubitare del modo con il quale tale attività per così dire maieutica veniva realizzata. Il consenso che la Corte a volte ricerca è, allo stesso modo, caratterizzato da un certo margine di incertezza che, tuttavia, non riesce a minarne completamente la valenza espansiva che invece possiede.

In definitiva, per tornare al problema che qui si sta affrontando, Corte cost.n.230/2011, esprimendo taluni principi in tema di diritto giurisprudenziale, capacità evolutiva della stessa, forza del giudicato, ha tenuto a precisare che gli stessi erano in qualche modo condivisi da altre tradizioni giuridiche dei paesi occidentali.Così facendo, la Corte ha inteso rivendicare ed esprimere una tradizione costituzionale propria e di altri, peraltro radicata nella giurisprudenza di legittimità.

Questa decisione, pertanto, non potrà non essere considerata dalla Corte dei diritti umani ove questa dovesse essere chiamata a pronunziarsi sui temi sopra tracciati.Sarà allora la Corte a dover verificare se, secondo le coordinate della dottrina del consenso, sia possibile giungere alla soluzione propugnata dalla Corte costituzionale italiana o no, misurando il peso della soluzione espressa e comparandola con quello  di altre tradizioni.

A bocce ferme  la soluzione espressa dalla Corte costituzionale sembra in linea con gli indirizzi espressi  dalle S.U. civili –Cass. n.15144/2011- ed in materia fiscale da Cass. n.22282/2011 tesi  a restringere la portata dell’overrulling.

Ora, l’argomento che con straordinaria passione Ruggeri esprime circa l’idea recessiva della certezza del diritto rispetto alla certezza dei diritti è ai miei occhi straordinariamente vera, convincente, persuasiva, ariosa ma…fino a che punto?

In nome di libertà ed eguaglianza, forse la Corte cost. poteva adottare una soluzione diversa, in ragione dei diritti fondamentali in gioco.Ma, mi chiedo, perchè tale ragionamento per la libertà personale sì e non per l’identità personale, la riservatezza, il rispetto alla vita privata e familiare, l’autodeterminazione, la libertà di espressione, ecc. ecc. Non sono, forse, tutti diritti fondamentali?

Ruggeri evoca, da par suo, il tema del bilanciamento e delle priorità costituzionali(supercostituzionali).

Ma se alla libertà Ruggeri giustamente accosta l’eguaglianza, perché quest’eguaglianza dovrebbe trovare posto ristretto per altri diritti parimenti fondamentali. Si dirà, per un bilanciamento fra valori .Ma può essere l’eguaglianza bilanciata.

In altri termini, se si possono riconoscere diversi livelli di protezione ai diritti fondamentali, è possibile  trattarli in modo diverso al loro stesso interno  fino al punto da ammettere che l’eguaglianza valga per la libertà personale e non per gli altri diritti?

Ma qui, da povero giudice comune, mi fermo e mi sento travolto da un vortice.Pensare che una scelta di “valore” simile possa ricadere su ogni giudice ed anche su di me mi impaurisce. Forse solo perché devo ancora misurarmi compiutamente col nuovo- o meglio con quello di “più nuovo” che già in parte mi ha convintamente coinvolto-. Ed in questo sta, alla fine, credo il messaggio di Ruggeri, volto a considerare la Carta costituzionale uno strumento vivente, in movimento, al pari delle altre Carte dei diritti fondamentali, a buon titolo definite living instruments.

La lista è, dunque, sicuramente un’occasione d’oro per vincere, forse, le paure o comunque per sistematizzarle.