Pas encore: la Corte costituzionale tunisina in attesa di giudizio
Lo scorso 3 aprile, il Presidente della Repubblica Kaïs Saïed ha rifiutato di “firmare” gli emendamenti alla legge organica n. 2018-39, finalizzati alla modifica e all’integrazione della legge organica n. 2015-50 relativa all’istituzione della Corte costituzionale. Si è parlato di imminente crisi interna, di requiem per la giustizia costituzionale, di stallo politico non arginabile. E, difatti, pare il nocciolo della questione riposi su presupposti di natura squisitamente politica, sebbene il Presidente, nel motivare il rifiuto, abbia addotto giustificazioni giuridiche e costituzionali. Con una certa tensione verso una inedita dottrina “pura” della Costituzione. Stando alle cause di questa occasione mancata, una Corte costituzionale non potrebbe neanche “esserci”, in virtù del dettato costituzionale, che, ex paragrafo 5 dell’art. 148 avrebbe disposto – e secondo Saïed imposto – il suo insediamento entro (i.e. non oltre) il 2015. Una lettura stringente e “letterale” della Carta non è nuova, da parte del Presidente, il quale, di recente, ha respinto il giuramento di nuovi ministri – in seguito a rimpasto – sulla base dell’assenza del suo previo assenso, considerato un parere vincolante e non soltanto consultivo, stando a una interpretazione rigorista della Carta. Alla luce di simili premesse, si proporranno alcune riflessioni intermedie – posto che la querelle è ben lontana dalla ricomposizione – delle valutazioni prospettiche che tengano conto dei trascorsi (non troppo lontani) e di possibili esiti futuri, ancora – pare – “transitori”.
In primo luogo, il dibattito attorno al rifiuto presidenziale è stato polifonico, con sottili bilanciamenti, mediazioni e “transazioni” che ricordano da vicino il processo costituente del 2011-2014 (sul complesso iter) e i suoi costanti trasversali compromessi. Se importanti accadimenti costituzionali richiedono il medesimo amplissimo consenso di quello verificatosi affinché una Costituzione venga ad esistenza, il caso tunisino non fa affatto eccezione. Anche in questo frangente, il partito an-Nahḍa ha mostrato un peso politico decisivo, a fronte di simile gesto “esemplare”, ribadendo l’imperativo di formare un fronte compatto e facendosi promotore della necessità di una Corte costituzionale. In modo non dissimile da quanto avvenuto in seguito alla paralisi dei lavori dell’Assemblea nazionale costituente sulla quarta bozza dell’attuale Carta. L’opposizione laicista, allora decisa a calare la scure della richiesta di scioglimento dell’Assemblea, vide il partito islamista strenuo “garante” della “procedura”: in quel momento, difendendo i risultati elettorali, come espressione incontestabile dei legittimi circuiti democratici di rappresentanza, come in questo, in cui reclama un controllo di costituzionalità delle leggi come step doveroso e chiusura del cerchio. Ulteriori partiti sembrano decisi a procedere, a dispetto del dissenso (per taluni ingiustificato, per talaltri illegittimo) del Presidente: all’unisono hanno parlato il leader di Qalb Tounès e il segretario di Attayar; mentre il partito popolare lo ha avallato come pienamente rientrante tra le prerogative presidenziali, nonché come auspicabile presa di posizione in funzione anti-maggioritaria. Il Presidente, insieme con la già citata assunzione del ruolo di censore privilegiato del rispetto del Testo, in qualità di bilancia(tore) di pesi e contrappesi, ha ulteriormente espresso la preoccupazione che la Corte possa rivelarsi una scatola vuota, ostaggio di interessi particolaristici e pressioni politiche, a vantaggio di sole nomine eterodirette, che ne diluirebbero non poco l’imparzialità. Il qual discorso non appare scevro da un larvato fine affinché la Corte, effettivamente, veda la luce in data da destinarsi, se è vero che le denunce dei sostenitori si fondano su identiche ma diametralmente opposte accuse, secondo cui l’ostruzionismo presidenziale – al netto del termine (perentorio?) fissato in Costituzione – si basa, anch’esso, su presupposti “accentratori” (dell’interpretazione). Come Ben Achour ha efficacemente notato, invero, riconoscere questo potere presidenziale, significherebbe “spalancare le porte all’eccesso di potere” (per un commento, si rimanda qui). Anche servendosi dell’interpretazione costituzionale, appunto, che farebbe della Corte un “orientamento” alternativo, rispetto a quello eventualmente elaborato per via presidenziale. L’interpretazione, se facoltà in capo al Presidente, quale rappresentante dello Stato e della sua unità, in assenza della Corte, non può tradursi in esclusivo potere di decidere cosa la Costituzione disponga caso per caso. Non resta solo sullo sfondo che un Presidente della Repubblica pronunciato, in un regime semipresidenziale “sbilanciato” a favore di una sola testa dell’“aquila”, possano fare da sprone, nel lungo periodo, per distorsioni sostanziali della forma di governo. La scelta verso un esecutivo bicefalo, infatti, è stata pensata per evitare di replicare le precedenti esperienze di presidenzialismi forti, con uno spiccato culto della personalità, come accadde per il bourguibismo o con il “sultanismo” di linziana dottrina, come quello di ben ʿAlī. Nel ruolo di “guardiano” pro tempore della Costituzione, Saïed rischierebbe di non apparire, altrimenti, troppo distante da Bourguiba, che, nel contesto della Tunisia indipendente si erse ad al-Mutjahid al-Akbar, supremo (e ultimo) interprete – non semplicemente “combattente” (Mujāhid) – non solo delle prescrizioni sciaraitiche, ma di ciò che la sharī’a e l’Islām stesso fossero. Cambiano i tempi, rectius le fonti, ma il timore che l’assenza di (auto)controllo renda la leva interpretativa – instaurate determinate “prassi” – un’anticamera dello strapotere, attraverso richiami identitari e sentimenti di appartenenza, permane anche nella Tunisia post-rivoluzione.
Da altro punto di vista – del crinale interpretativo – la spinta di an-Nahḍa sembra (molto più che) interessata, nonché colorata di decise venature di opportunismo. Se, durante la fase costituente, il partito islamista si è inserito nel gioco democratico di interessi in conflitto, con un do ut des, tra rinuncia a uno Stato “del tutto” laico, la permanenza dell’Islām, ma senza i crismi di una confessional clause e l’esclusione della sharī’a, tanto come la fonte, quanto come una fonte, il candidato promosso da an-Nahḍa alla presidenza della Corte, sarebbe un membro dell’Unione mondiale degli Ulema. Il che nulla aggiunge, se non fosse che la definizione della Tunisia come “stato civile” sia categoria, anch’essa, interpretabile. Il timore dei detrattori del partito an-Nahḍa si inquadra, cioè, nella lettera della Costituzione che, come è stato da più parti sottolineato, si esprime solo in negativo, ovvero su ciò che la forma di Stato sicuramente non è: militare (Dawla al-‘askariyya), “teocentrico” (Dawla al-‘ilāhiyya), laico e non semplicemente secolare (Dawla ‘almaniyya). La Tunisia, quindi, è sì uno Stato in cui la sovranità appartiene alla “società civile” (Dawla al-madaniyya), ma secondo gli orientamenti laicisti, questa dizione a maglie larghe, insieme con la lettera “adattata” dell’articolo 2 sul ruolo dell’Islām, potrebbe fungere da clausola di apertura per una applicazione sostanziale, rectius giurisprudenziale, della sharī’a (nel dettaglio, si legga qui). Un esito possibile, qualora, ad esempio, alla Presidenza della Corte vi fosse un membro vicino al partito islamista e la composizione interna della stessa rispecchiasse precisi orientamenti maggioritari. Simile considerazione, altresì, ne impone a cascata delle ulteriori, scaturenti da due generali ordini di ragioni. Anzitutto, appare evidente come, sovente, la presenza della sharī’a tra le fonti appaia un dato eccessivamente sovraccaricato ed enfatizzato, come forma di eccezionalismo, in assenza di valutazioni inerenti ad altri formanti – tra tutti quello giurisprudenziale e politico, come Rule of Politics – o, ancora, alle interazioni tra la forma di governo e le dinamiche partitiche, come la Turchia di Erdoĝan insegna. Indagine, forse, essenziale per comprendere se una sharī’a supremacy clause possa fare la differenza nell’architrave costituzionale complessiva di un sistema. In secondo luogo, può notarsi come l’islamizzazione del contenuto costituzionale e processi di retrogression non procedano necessariamente in parallelo. Elemento dimostrato, a titolo esemplificativo, dall’interpretazione “accentrata” dell’art. 2 della Costituzione egiziana, di una sharī’a “statalizzata” nella figura della Corte, la quale, utilizzando strumenti inerenti al modello (come il neo–ijtihad o il neo-taqlid,), ha inteso neutralizzare le chances di “islamizzazione del basso”. E, se sia possibile aggiungerne una terza, la sharī’a se considerata, genericamente, Rule of Law islamica in senso krygieriano, non anatomico ma teleologico, cioè “principio ordinatore” che fissa i limiti del “potere” costituito e valorizza gli elementi trasformativi interni, potrebbe rivelarsi maggiore garanzia di stabilità, a fronte di una Rule of law (liberale) di mera “facciata”. Anche per queste ragioni, l‘istituzione di una Corte potrebbe dire molto di più su come si atteggino poteri, fonti e forma di governo a livello di “Costituzione-risultato”, restituendo un’immagine senz’altro meno sfocata.
Un’ultima riflessione legata all’attualità. Durante la gestione della pandemia da Covid-19, l’art. 80 della Costituzione, insieme con la legge n. 78 del 1950, è stato invocato (e impiegato) con estrema disinvoltura, stante l’état d’exception (sanitaire), misto a tratti 10.
Lockdown, restrizioni e pericolo imminente hanno favorito un uso massiccio dei poteri normativi dell’esecutivo. A “rigore”, l’articolo 80 richiederebbe che le misure atte a fronteggiare la situazione eccezionale siano predisposte previa consultazione con il Capo del Governo e con il Presidente dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e solo dopo averne informato il Presidente della Corte costituzionale. Il ruolo di quest’ultima, se appare qui marginale, si “riempie” al comma 3 e al 4, i quali dispongono – in modo non troppo dissimile dall’attuale art. 16 della Costituzione francese – che, trascorsi trenta giorni dalla dichiarazione dello Stato di eccezione, in qualsiasi momento e su richiesta del Presidente dell’ARP o di trenta membri dell’Assemblea, la Corte sia adita per verificarne i presupposti di persistenza. Una clausola di salvaguardia non indifferente, quindi: evitare un abuso della decretazione, qualora dovesse cadere in mani incontrollate. Una Corte costituzionale tunisina – in simile contingenza di instabilità internazionale e di incertezze istituzionali su larga scala – risulta, di nuovo, la grande assente.
D’altronde, se operativa, sarebbe un organo legittimato alla destituzione del Presidente della Repubblica, in virtù dell’art.88 della Costituzione. E questo dice molto sul ruolo indispensabile che essa è chiamata a svolgere, soprattutto in casi di asimmetria tra poteri. O, forse, spiega di più quel “non ancora”.