Opinione pubblica e funzione della pena. Il caso Riina fra tutela della dignità della persona ed effettività della reazione penale ai crimini feroci
La sentenza 27766/17 della Corte di Cassazione, che resterà certamente nota come “sentenza Riina”, affrontando in diritto temi pratici riguardanti il rapporto esistente – e da salvaguardare – fra dignità del detenuto e questioni di trattamento penitenziario, è tornata ancora una volta a far emergere in tutta la sua complessità il delicatissimo tema della funzione della pena, mettendo in luce quanto sia ancora radicata nell’opinione pubblica l’idea di un’esecuzione penale fondata sulla retribuzione in risposta al reato commesso.
La questione di diritto alla base della vicenda riguarda la rinvenuta carenza e, in parte, contraddittorietà della motivazione con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Bologna – in ragione della sussistenza delle condizioni di trattabilità delle patologie del detenuto in ambiente carcerario, sull’espressa esclusione di qualsiasi superamento «dei limiti inerenti il rispetto del senso d’umanità di cui deve essere connotata la pena e del diritto alla salute» e in assenza di un qualsivoglia quid pluris rappresentante un ingiustificato aggravamento della sofferenza del ristretto – ha rigettato le richieste avanzate dalla difesa del detenuto in materia di differimento dell’esecuzione della pena (art. 147 c.p.) e, in subordine, di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare (art. 47ter L. n. 354/1975).
Il provvedimento, che per effetto del rinvio è tornato nelle competenze dello stesso Tribunale di prima istanza al quale spetta ora una nuova decisione, è frutto di un complesso bilanciamento fra le necessità emergenti dalla situazione sanitaria del richiedente e le altrettanto pregnanti esigenze di garanzia della sicurezza ed incolumità pubblica, le quali rendono necessario un approfondito esame tanto dell’attualità della posizione di vertice ricoperta nell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra” da Totò Riina – rispetto alla quale il ricorrente non ha mai manifestato volontà di dissociazione – quanto di quella della sua pericolosità sociale.
Il provvedimento di rinvio adottata dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna è fondato sostanzialmente sulla rilevazioni di alcune criticità in tre punti, nello specifico: laddove è stata esclusa l’incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute dell’istante e il conseguente superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali volti alla tutela della dignità del detenuto, il Tribunale ha omesso «di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico» tralasciando, inoltre, di affermare «l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente che, proprio in ragione dei citati principi, deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale, il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, deve espressamente motivare»; laddove è stato evidenziato come nella struttura ospitante il ricorrente non fosse in grado di sopperire ad alcune specifiche necessità dello stesso dovute alle proprie condizioni di salute, senza che tali deficienze strutturali fossero considerate rilevanti ai fini della decisione, poiché «il Tribunale ha errato nel ritenere che le deficienze strutturali del luogo di restrizione non siano rilevanti ai fini del decidere sull’istanza del ricorrente avente ad oggetto proprio l’esecuzione della pena in luogo diverso, ed ha errato altresì, nel non rinviare la propria decisione all’esito di un accertamento volto a verificare, in concreto, se e quanto la mancanza di un letto che permetta ad un soggetto molto anziano e gravemente malato, non dotato di autonomia di movimento, di assumere una diversa posizione, incida sul superamento o meno di quel livello di dignità dell’esistenza che anche in carcere deve essere assicurato»; infine laddove non sono stati concretamente specificati i profili di attualità riguardanti la pericolosità sociale del soggetto ricorrente, i quali necessitano di una specifica e particolareggiata menzione proprio «in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico dello stesso».
Orbene, benché le motivazioni della sentenza si riducano a quanto sin qui sinteticamente riassunto, il dibattito pubblico scaturito dalla decisione ha investito l’assai più complesso tema del rapporto esistente fra tutela della dignità dell’uomo in tutte le possibili situazioni nelle quali esso si trovi e la funzione della risposta penale ai crimini commessi del reo, i quali rappresentano nello specifico un caso certamente emblematico, in quanto caratterizzati da una particolare ferocia, gravità e reiterazione.
La convinta e violenta reazione diffusasi nell’opinione pubblica lascia in questo senso emergere una caratterizzazione vendicativa della pena assolutamente lontana da quel complesso di norme da cui, prendendo le mosse dall’art. 27 della Costituzione, si dirama una serie di istituti volti alla tutela della società tramite il rispetto dei valori su cui essa è fondata. Tutelare un detenuto, qualsiasi siano le sue colpe, rende infatti l’esercizio della potestà punitiva – quale principale mezzo di espressione del potere dello Stato ma anche di tutela dell’integrità dell’ordinamento – un luogo in cui possa estrinsecarsi la garanzia della dignità umana, in una delle sue espressioni più alte.
Valutare e decidere quali siano le condizioni nelle quali il detenuto Riina debba scontare le numerose condanne occorse a suo carico nel corso del tempo spetta certamente ed in modo esclusivo al giudice naturale precostituito per legge; non può tuttavia immaginarsi un punto di partenza da cui giungere alla decisione definitiva che escluda la possibilità che la sospensione della pena o la detenzione domiciliare rappresentino una possibile ed idonea modalità di esecuzione delle condanne cui giungere attraverso la ponderazione dei diversi interessi in gioco. In effetti, la pena inframuraria non è certamente l’unica ricompresa dalla Carta costituzionale – la quale è invece aperta a tutte le possibili misure potenzialmente necessarie per garantire il rispetto dell’umanità dell’individuo al di là della sua condotta seppur certamente non esulando del tutto da essa – e a nessun individuo può essere negata tale possibilità alla luce della sua peculiare “storia criminale”, la quale invece può a ben vedere dimostrarsi come la cartina di tornasole della fondamentale differenza esistente fra la concezione criminale che si combatte e le modalità con le quali lo Stato affronta il “nemico”.
Sebbene certamente il caso riguardante Totò Riina sia caratterizzato da una particolare complessità dei fatti all’origine delle condanne e della detenzione del reo e necessita per questo motivo di una particolare attenzione nel bilanciamento dei diversi interessi coinvolti, allo stesso modo permane l’evidenza di quanto, soprattutto in casi di tale gravità e gravosità, si concretizzi il rischio dell’emergere di una lettura della funzione della pena asservita a logiche di vendetta e violenza che non appartengono ad una democrazia fondata su valori quali il rispetto della dignità della persona e i diritti fondamentali. Senza dubbio, infatti, è anche nella tutela di chi ha infranto l’ordinamento che si espande parte del terreno sul quale combattere la battaglia contro la criminalità.
Qualsiasi siano le ragioni che muovono lo Stato nell’affermare la giustizia tramite i mezzi della penalità, è fondamentale rammentare che non si possono mai impugnare le stesse armi di sopraffazione cui si reagisce, impiegare gli stessi mezzi inumani e degradanti davanti cui si inorridisce, dimenticare il valore più profondo dell’essere umano: la sua dignità. Tutelare la persona – non il suo crimine, ma la sua umanità – non rappresenta, infatti, un pericoloso limite all’effettività della giustizia, bensì ne incarna l’estrinsecazione più alta. Ciò, naturalmente, non significa abdicare ai compiti di tutela della società, dell’individuo e della pacifica convivenza dei soggetti, quanto invece rinunciare a rispondere al male con il male, al crimine con un altrettanto grave crimine, ad usare, in sostanza, per punire un atto contrario all’ordinamento le stesse modalità di condotta che si intende perseguire.
Nella tutela di individui riconosciuti colpevoli di condotte quali quelle caratterizzanti la criminalità organizzata di stampo mafioso, proprio alla luce dell’estremo limite al quale essi si sono condotti, si rende evidente il fondamentale confine fra i valori che il nostro ordinamento difende e le condotte che ne sono la negazione: difendere tale confine significa non arrendersi, qualsiasi sia in concreto la definitiva decisione sul caso che giungerà dal rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Bologna.