Nuove cronache costituzionali da Israele, frontiera del costituzionalismo occidentale
Già in queste pagine si è provato a dare conto, anni orsono, dello sviluppo sempre vivido del dibattito israeliano sul ruolo della Corte suprema e sui confini dei poteri di judicial review nel sistema costituzionale del paese.
Le naturali tensioni insite nel ruolo contromaggioritario del giudiziario si acuiscono da decenni in Israele per via di note specificità del sistema: l’aspirazione anfibologica alla costruzione di uno stato al contempo Jewish, connotato identitariamente, e democratic, e dunque inclusivo e che mira alla tutela delle minoranze; l’assenza, insieme contingente e programmatica, di una costituzione unidocumentale e completa, sostituita da un progetto di leggi fondamentali, leggi capitolo, su singole tematiche, di discusso valore parametrico; il continuo stato d’emergenza dichiarato per legge, pure da decenni, dalla Knesset; l’iniziativa della locale Corte suprema degli anni ’90, sotto la guida di Aharon Barak, di arrogarsi ex novo ed in via interpretativa un potere di judicial review of legislation sino a quel momento pressoché sconosciuto nell’ordinamento, in esito all’adozione, però estemporanea, nel 1992 delle prime Basic Laws in materia di diritti umani; l’inclusione successiva nel tessuto di una di dette Basic Laws, ed in particolare della Basic Law: Freedom of Occupation, di una cd. override clause che, sul modello canadese, permettesse al potere legislativo, una volta dichiarata l’incostituzionalità di una certa normativa, di scavalcare, almeno temporaneamente, gli effetti di detto responso votando ancora, a maggioranza assoluta, per la sua permanenza in vigore.
Il dibattito si interessa oggi di alcuni nuovi rilevanti capitoli, sempre declinati nell’ottica del conflitto tra poteri che sembra essere diventato – dopo decenni di ricercata omogeneità culturale e valoriale dopo la fondazione – caratteristica indefettibile del paese.
Il primo capitolo. Si sono succeduti in passato numerosi tentativi di reazione da parte del potere politico locale rispetto alla pretesa espansione dei poteri del giudiziario.
Ad esempio, a più riprese sono stati avanzati tentativi di contenimento dei poteri di judicial review riconosciuti dalla Corte, tra cui spiccano proposte di riforma dei meccanismi di selezione dei giudici e un contestato tentativo di ridefinizione nel 2008 (via legge ordinaria! e supportato dal ministro della giustizia dell’epoca) dell’ambito delle Basic Laws capaci di fungere da parametro in un giudizio di costituzionalità – giacché, tra le varie questioni lasciate aperte dalla fondativa sentenza United Mizrahi Bank del 1995 (la Marbury v. Madison locale, nel cui ambito la Corte suprema scoprì i propri poteri di judicial review) vi era appunto quella di quali leggi fondamentali potessero fondare i nuovi poteri giudiziali, se solo quelle nuove sui diritti umani del 1992 od anche, opportunamente interpretate, anche quelle passate ed eventuali future.
Facendo poi perno sulla menzionata inclusione già dagli anni ’90 di una override clause nel tessuto di una particolare legge fondamentale sui diritti umani (la Basic Law: Freedom of occupation, mentre occorre sottolineare che la Basic Law: Human Dignity and Liberty invece non contiene alcuna clausola di questo tipo, che era presente nell’originario disegno di legge ma non fu approvata), si sono succedute nel tempo numerose proposte per l’istituzione di un generalizzato meccanismo cd. di overturn delle decisioni giudiziarie da parte della Knesset, attraverso il voto di una speciale maggioranza qualificata.
Ciò già accadde, nel 2012, nella proclamata ottica di «ridurre la conflittualità tra il parlamento e il giudiziario», e ancora nel 2014 in esito ad uno di detti numerosi episodi di conflittualità, una sentenza della Corte suprema che dichiarò incostituzionale una normativa in tema di detenzione di richiedenti asilo, sempre col supporto del partito oggi di maggioranza del Likud e dei partiti ebraici ortodossi.
All’epoca la riforma fu semplicemente discussa a livello politico, senza esito; ma negli anni successivi la proposta finì per essere inclusa negli accordi di coalizione tra gli attuali partiti conservatori al governo del paese.
In esito ai recenti nuovi aspri dibattiti in tema di migrazioni dall’Africa, e di opportunità di detenzione degli immigrati, la proposta è oggi però finita per risorgere e ottenere una consacrazione formale nel voto iniziale del Ministerial Committee on Legislation, e dunque l’adesione del Governo in carica.
Fermo un recentissimo richiamo ad un ripensamento in sede di coalizione di maggioranza, probabilmente la proposta farà dunque la sua prima apparizione all’attenzione della Knesset e sarà oggetto di un voto d’approvazione. Nel mentre, si è già scatenato un dibattito, non solo locale, che ha visto veementemente schierarsi contro il progetto di riforma l’attuale e la passata presidente della Corte suprema e l‘Attorney General del paese, un’ampia coorte di accademici locali, oltre che vari partiti d’opposizione.
Il dibattito teorico sul concetto di override/notwithstanding clause quale compromesso e uovo di Colombo per la risoluzione della storica countermajoritarian difficulty, e quale potenziale creatore di un dialogo tra poteri, tende per ora quantomeno a rimanere sullo sfondo: le controversie locali si incentrano in realtà tutte sui temi migratori che hanno funto da innesco per la questione, sulle accuse politiche da parte di alcuni alla Corte suprema di voler fungere da istituzione «sovrana», sulla difesa della Corte da parte di altri da attacchi che mettono in ballo il corretto dispiegamento della separazione tra poteri.
Ciò è in fondo comprensibile: le specificità estreme del paese, il permanente stato d’emergenza per ragioni di sicurezza, le continue tensioni etniche e religiose, la mancanza di stabili tradizioni democratiche fungono da innesco per le proposte di riforma ma sono al contempo, ovviamente, le ragioni di maggiore preoccupazione per ogni proposta che voglia reprimere il controllo giudiziario, ed anzi sono le ragioni di fondo che colorano come strumentali le proposte politiche di contenimento. Salve le suggestioni comparatistiche, ciò è particolarmente vero in un ordinamento monocamerale, ove dunque il sistema di ovverride risulterebbe massimamente centralizzato e passibile di utilizzi distorti, e ove in particolare, lo si rimarca, lo stato di emergenza legislativa è da decenni rinnovato con ovvio potenziale continuo detrimento del rispetto dei diritti umani.
A ciò si lega, come necessaria contestualizzazione, il secondo capitolo di queste brevi cronache.
Dopo una gestazione di anni, ma con esito pressoché contestuale all’emersione del primo tema, la Knesset ha approvato nell’ultimo giorno della propria sessione estiva una nuova Basic Law intitolata «Israel as the Nation State of the Jewish People».
Essa si connota, già ictu oculi, come una ulteriore torsione in tema di equilibri ordinamentali fondamentali, ed in particolare in tema di equilibrio tra le professe velleità israeliane di essere uno stato al contempo Jewish e democratic. Nell’ambito di una legge fondamentale che sembra appuntarsi su aspetti simbolici e puramente formali, la Knesset ha inserito alcune disposizioni di sicura problematicità sul punto: riconoscendo il «diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale» al solo popolo ebraico, e non ad altri; stabilendo l’ebraico quale unica lingua ufficiale, e degradando l’arabo, lingua ampiamente diffusa nel paese, a idioma con un semplice status speciale protetto; e non solo proclamando quale «valore nazionale» la creazione di insediamenti ebraici, ma anche programmaticamente stabilendo che lo stato ne incoraggerà e promuoverà la costituzione.
Ora, è evidente che la nuova Basic Law interviene a gamba tesa su temi lungamente dibattuti nel paese, quale quello dei confini territoriale e quello dell’identità etnico-religiosa; e probabilmente non è un caso se l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu incontrava solo poche ore prima della formale adozione del testo, in visita ufficiale, il presidente ungherese Orbán, dichiarando una ampia consonanza con i paesi del gruppo di Visegràd sui temi identitari.
Ma è ancora più preoccupante notare che questa Basic Law potrà fungere da scudo futuro per misure politiche problematiche; e che la Corte suprema, che si troverà con ogni probabilità a vagliarne la legittimità giacché già si infittiscono le iniziative a ciò tese, si troverà nelle ambasce di dover ineditamente abbracciare, se del caso, la dottrina altrove creata dell’incostituzionalità dell’emendamento costituzionale, e comunque di agire da una posizione istituzionale particolarmente indebolita.