Note a proposito della cd. Italian Theory e del suo rilievo per uno studio storico e comparativo del diritto costituzionale

Di “Italian Theory” si ragiona in un libro di Roberto Esposito – Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, 2010 – dedicato a ricostruire una tradizione di pensiero italiana che dall’umanesimo arriva ai giorni nostri. All’interno di questa tradizione di pensiero Esposito riconduce autori anche molto diversi tra loro, filosofi e no (di qui probabilmente la scelta di parlare di ‘pensiero’ nel titolo e di ‘filosofia’ solo nel sottotitolo): Machiavelli, Bruno e Vico (cap. II. Potenza dell’origine); Cuoco, Leopardi e De Sanctis (cap. III. Filosofia/Vita); Croce, Gramsci e Gentile (cap. IV. Pensiero in atto); Tronti, Cacciari, Negri, Del Noce Vattimo, Agamben, e lo stesso Esposito (cap. V. Il ritorno della filosofia italiana).

Il sintagma “Italian Theory” – così si intitola il paragrafo 1 del primo capitolo (La differenza italiana), che costituisce una sorta di premessa alle analisi svolte nei capitoli successivi – contiene in sé un evidente richiamo alla cd. French Theory, ossia al successo che, negli studi critici statunitensi, hanno riscosso a partire dagli anni ‘70 autori quali Foucault, Derrida, Deleuze, Baudrillard, Lyotard, Kristeva, Irigaray, De Beauvoir etc.

Oggi, secondo il filosofo napoletano, quel successo arride alla filosofia italiana. Dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Australia all’America Latina, nei dipartimenti di Humanities più che in quelli di filosofia, ancora dominati dalla tradizione analitica, si organizzano convegni, si pubblicano e si traducono lavori sul tema. Tra gli esempi che lo stesso Esposito porta nel libro ed in un più recente articolo su la Repubblica (Il made in Italy della filosofia, 24 febbraio 2012, p. 53), ricordo il convegno organizzato nell’ottobre 2010 dalla rivista «Diacritics» alla Cornell University (The Common in Contemporary Italian Thought) e quello svoltosi all’università del Massachussets (Italian Social Theory); la pubblicazione del volume collettaneo Italian Difference (Melbourne 2009), della rivista Angelaki (Routledge 2011) su Italian Thought Today, degli Annali di Italianistica 2012 di Chapel Hill su Italian Critical Theory ed il fascicolo 1/2012 di Law, Culture and the Humanities, dedicata in gran parte ad un simposio sul lavoro dello stesso Esposito.

A ben guardare i convegni e le pubblicazioni portate ad esempio, si nota che oggi questo interesse sembra investire in particolare gli esiti più recenti della filosofia italiana, con particolare attenzione al pensiero radicale italiano degli anni ‘70. Attenzione che ha indotto taluno a spiegare questo interesse vedendo nell’del mondo accademico americano in ragione del fatto che “il mondo accademico degli Stati Uniti, in modo specialissimo quello delle Humanities, [è] bulimicamente affamato di «teorie» generali che gli permettano di leggere il mondo in modo per così dire «critico» e «antagonistico»” e dunque l’Italian Theory non sarebbe che un “nuovo combustibile al radicalismo dell’Ivy League”. Così E. Galli Della Loggia, L’anticapitalismo all’Italiana, Corriere della sera, 29.2.12).

Ben più risalente, ed in parte intrecciata all’attenzione per il pensiero critico francese, risulta invece l’attenzione verso autori quali Vico e Gramsci, i quali, a partire dalla riflessione di studiosi quali Edward Said, costituiscono ormai da tempo un riferimento per un nutrito ventaglio di critical studies – gender, cultural, postcolonial e via aggettivando (di Said si veda almeno Culture and Imperialism [1993], la cui traduzione italiana [Roma, 1998] è curata da due importanti studiosi gramsciani: G. Baratta e J. Buttigieg. Tra i più recenti studi americani su Gramsci, v. inoltre J. Francese (ed.), Perspectives on Gramsci. Politics, Culture and Social Theory [2008] e M. Green, Rethinking Gramsci [2011]). Su Vico, peraltro, si registra oltreoceano una crescente attenzione come testimonia la pubblicazione sin dai primi anni ‘80 della rivista New Vico Studies. The Journal of the Institute for Vico Studies (Emory University) e, in campo prettamente giuridico, il fascicolo della Chicago-Kent Law Review vol. 83 n. 3 (2008), curato da Francis J. Mootz III e contenente gli atti del convegno: Recalling Vico’s Lament: the Role of Prudence and Rhetoric in Law and Legal Education.

Le ragioni di questo successo sarebbero riconducibili, per Esposito, alla maggior capacità che mostra oggi la filosofia italiana rispetto ad altre tradizioni di pensiero di “entrare in una relazione analitica e critica, con i tratti dominanti del nostro tempo” (p. 3), e la fecondità di questa riflessione acquista evidenza dinanzi alle difficoltà che le filosofie europee fondate sul primato del linguaggio – analitica anglosassone, ermeneutica tedesca, decostruzionismo francese – oggi incontrano a spiegare il presente (pp. 6-9). Rispetto alla tradizione filosofica europea, di cui la triade Hobbes-Cartesio-Kant potrebbe costituire una sorta di epitome, il pensiero italiano si collocherebbe dunque in posizione eccentrica: rifiutando di quella tradizione le prospettive metafisiche e razionalistiche, ed al contempo, rifiutando di concentrarsi su costituzioni della soggettività e teorie della conoscenza, la tradizione intellettuale italiana ricostruita da Esposito si presenta come “estroflessa”, costruendosi ab origine intorno alle categorie di vita, politica e storia (12).

Le ragioni dell’odierno successo di questa tradizione di pensiero sarebbero dunque riconducibili ad alcuni suoi caratteri generali (pp. 20-33), che lo stesso Esposito ha riassunto nel citato articolo su Il made in Italy della filosofia. Tra essi: A) “Il carattere non nazionale – ed anzi tendenzialmente antinazionale” di questo pensiero. Questo essere un pensiero “civile ma non nazionale”, questo elemento di extraterritorialità, “è stato spesso visto come una forma di ritardo storico rispetto ad altri, più precoci, contesti nazionali. Ma, … allorché la globalizzazione ha ridimensionato pesantemente il rilievo degli Stati nazionali, una filosofia come quella italiana, fin da sempre orientata a pensare la politica prima e oltre lo Stato, si è trovata in una condizione migliore per afferrare le dinamiche contemporanee”. B) La sua peculiare inclinazione verso il non filosofico, verso la contaminazione con altri lessici, che la condurrebbe ad esprimere una dimensione “transdisciplinare”, ossia una “tendenza a rompere gli steccati disciplinari con una inventività semantica assente in altre culture, irrigidite in ambiti specialistici senza contatto reciproco”. C) Il “rapporto tra sapere e potere”, la “relazione tesa e agitata” che molti esponenti di questa tradizione di pensiero hanno intrattenuto con il potere, politico, ecclesiastico e non di rado anche accademico. Quello italiano, ci dice Esposito, “più che del potere, è un pensiero della resistenza”. Un asse paradigmatico di tale tradizione culturale consisterebbe dunque in una “immanentizzazione dell’antagonismo” (Pensiero vivente, 25): da Machiavelli in poi, e in particolare nella rilettura gramsciana di Machiavelli, sarebbe presente in questo linea di pensiero l’idea che “il conflitto sia costitutivo dell’ordine [e] che non sia ipotizzabile, e neanche auspicabile, un ordine escludente il conflitto” pensiero dunque “orientato al conflitto”, e che anzi mette a valore il conflitto stesso. D) il rapporto con il tema dell’origine. Laddove infatti la filosofia moderna tenderebbe variamente a riconoscersi “in un gesto di rottura nei confronti di ciò che la precede, il pensiero italiano non solo non ha mai reciso tale nodo, ma cerca proprio in esso il profilo e il senso della propria attualità”. Questo pensiero sarebbe dunque un pensiero “tutto rivolto alla storia”, ma che al contempo ha “sempre conservato la consapevolezza che qualunque ordine storico non potrà mai cancellare … una falda antropica profonda … destinata ad essere fonte inevitabile di sempre nuovi conflitti e antagonismi”. Pensiero dunque che a differenza della prevalente riflessione europea, appare sempre, e non di rado tragicamente, consapevole dell’irrealizzabilità di ogni cominciamento di una novella istoria; dell’impossibilità di un’origine fondativa della modernità, di un nuovo inizio razionale e artificiale il quale elimini, appunto, il peso dell’origine.

Queste, in estrema sintesi, le tesi che muovono il lavoro di Esposito. Ancora un paio di osservazioni preliminari prima di entrare nel merito delle ragioni che muovono queste pagine e il loro titolo. All’espressione Italian Theory preferisco Italian Thought. Intanto, come abbiamo visto, anche nella recezione transatlantica di questa tradizione intellettuale di frequente si impiega thought in luogo di theory. Inoltre, a parte il paradosso, oltre che il fastidio, di usare termini stranieri per parlare di qualcosa di italiano, anzi di specificamente italiano, nel prosieguo di queste pagine tenderò ad usare pensiero (thought) in luogo di teoria (theory). La teoria chiude, organizza, sistematizza, laddove il pensiero apre, appare ben altrimenti molteplice, suscita relazioni, in primo luogo relazionandosi esso stesso con la pratica.

Inoltre, spero sia chiaro che questa mia sollecitazione a discutere attorno questa linea di pensiero, ed a recuperare questo mos italicus anche in campo giuridico oltre che filosofico, non è dettata da nazionalismo o da sciovinismo metodologico o, peggio, da una sorta di ripiegamento verso un passato che potrebbe apparire (ci vuol poco) migliore del presente.

Ciò su cui volevo richiamare l’attenzione attiene piuttosto al fatto che i caratteri che connotano la linea di pensiero dipanata da Esposito (cfr. § 7) mi appaiono di indubbio rilievo per chi oggi si occupa di diritto costituzionale, per chi soprattutto intende occuparsene in una prospettiva storica e comparativa, e per chi è intenzionato a riflettere sul ruolo sociale del giurista quale interprete della convivenza e della coscienza sociale. Altro, ovviamente, è il discorso per chi intende il giurista come un funzionario o un consigliere del principe.

Quella linea di pensiero che Esposito ricostruisce nei primi quattro capitoli, ed altrettanti varchi, del suo libro non conduce solo agli esiti filosofici che l’autore traccia nel quinto ed ultimo capitolo della sua opera. Intanto, è un pensiero laico quello che Esposito ricostruisce, limitandosi a semplici richiami, eccettuate le pagine su Del Noce (225-231), per quanto concerne invece una tradizione di pensiero cattolica che da Rosmini e Gioberti arriva fino a Severino. Inoltre, il volume appare analogamente elusivo verso quel femminismo italiano della differenza che pure presenta forti correlazioni con la tradizione di pensiero da lui indagata e che viene incontrando anche esso una certa attenzione al di fuori dei confini nazionali. Ma non è tanto questo l’aspetto che mi interessa mettere in luce.

Sono piuttosto tre gli ordini di motivi che mi hanno indotto a mettere su carta queste sollecitazioni. In primo luogo, a chi scrive, come a molti altri frequentatori di questo blog, hanno insegnato che non può studiarsi diritto costituzionale se non muovendo da (e sempre tornando a) storia e filosofia. Sono stanco di sentire parlare di primi capitoli che contengono introduzioni storiche, per poi passare ad affrontare da tecnici un determinato problema.

La seconda ragione attiene piuttosto ad una voglia di discutere criticamente attorno a quella che a me pare una persistente esterofilia della cultura giuridica italiana almeno nelle sue dottrine dominanti, che sono state filofrancesi nell’800, filotedesche nel ‘900 e che appaiono sempre più filoanglosassoni oggi. Ed oggi quella esterofilia sembra tradursi sempre più in una provincialistica recezione di modelli e vettori culturali dominanti, che finisce per svalutare una tradizione culturale importante come la nostra, proprio quando altrove questa viene riscoperta e messa a valore. Un segnale in tal senso mi sembra venga dalla tendenza a concentrare la valutazione della qualità della ricerca nonché i finanziamenti, peraltro in tempo di vacche magrissime, su programmi di internalizzazione che si traducono in indici bibliometrici ed in iniziative volte a diffondere acriticamente la lingua inglese nell’insegnamento universitario, nei corsi specialistici e nelle pubblicazioni delle ricerche, trascurando che l’italiana è “lingua di cultura” – lingua cioè “associata a una lunga storia, una grande tradizione culturale, una vasta reputazione internazionale” (Raffaele Simone, Se l’Università rinuncia all’italiano, La Repubblica, 17 aprile 2012) – e smarrendo la specifica dimensione territoriale che caratterizza alcune aree di ricerca, magari penalizzando in settori come il diritto, la storia e la letteratura gli studi sulla tradizione culturale italiana rispetto a quelli di tradizione anglosassone. Peraltro a richiamare il rischio che simili tendenze si traducano non tanto in un’apertura all’esterno della cultura accademica italiana, ma al contrario in una sua svalutazione non sono solo assemblee di professori enragés, ma istituzioni come l’Accademia Nazionale dei Lincei. Interessante a questo riguardo la mozione, approvata il 20 aprile 2012, dalla Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche dell’Accademia riguardo i “criteri di valutazione della ricerca scientifica nelle Scienze morali con riferimento all’attività dell’ANVUR”, la quale esprime molteplici perplessità riguardo il ricorso ad indicatori bibliometrici che “registrano quasi esclusivamente le pubblicazioni su riviste in lingua inglese, senza tener conto … della natura specifica e dell’oggetto di studio di alcune discipline”. Questi indicatori – peraltro oggetto “di critiche e di profondi ripensamenti” negli stessi Paesi nei quali essi sono stati ormai da tempo adottati – rischiano infatti, se applicati indiscriminatamente in tutti i settori disciplinari: di favorire una “iperspecializzazione … incompatibile con l’esigenza di una interazione tra saperi”, di premiare le opinioni prevalenti, herrschende, rispetto a quelle più eterodosse, squilibrando “la rappresentanza dei molteplici indirizzi e delle varie dottrine”.

La terza, ma forse la più rilevante ragione, attiene alla vicinanza che mi pare di riscontrare tra i caratteri qualificanti la tradizione di pensiero che Esposito ricostruisce e un’idea, un metodo di studio del diritto, e del diritto costituzionale in particolare, che non solo ha profonde radici nella stessa cultura giuridica italiana, ma che oggi appare particolarmente fecondo dinanzi alle dinamiche giuridiche ed istituzionali in atto (idea e metodo che connotano ad esempio la riflessione di Angelo Antonio Cervati, del quale si veda almeno, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, Torino, 2009). Un pensiero filosofico, ma – perché no? – anche giuridico più attrezzato di altre tradizioni di pensiero ad entrare in contatto con alcuni dei tratti dominanti del tempo in cui prende forma, in quanto capace di operare uno “sdoppiamento dello sguardo – puntato insieme sull’attualità più bruciante e su dispositivi di lungo e anche lunghissimo periodo” (Pensiero vivente p. 6). Un pensiero che esprime un carattere, come già detto, civile (Garin), ma non nazionale, (che esprime una sua territorialità senza limitarsi all’interno dei confini, innanzitutto culturali, di uno stato nazione oggi sempre meno capace di spiegare e di regolare le dinamiche in atto). Un pensiero posturalmente comparativo, in senso diacronico e in senso sincronico, ed interdisciplinare (su questi due caratteri, in quanto qualificanti la cultura giuridica italiana, ha richiamato di recente l’attenzione Paolo Ridola, concludendo il ciclo di seminari della cattedra di Diritto pubblico comparato della Facoltà di Giurisprudenza della “Sapienza” (A.A. 2011/2012), sul tema “Società di massa e trasformazioni del costituzionalismo”). Un pensiero critico, che mantenga un rapporto “teso ed agitato” con il potere e che affronti il conflitto non come una patologia da risolvere, possibilmente una volta per tutte, ma come un fattore potenzialmente costruttivo e trasformativo, indicando percorsi di ricostruzione della convivenza all’interno di comunità capaci di modificarsi nella composizione loro e dei loro valori costitutivi (le osservazioni di Esposito sulla positiva valutazione che questa tradizione di pensiero opera riguardo il ruolo dei conflitti richiamano con evidenza le riflessioni di Alessandro Giuliani sul ruolo positivo e sull’attitudine trasformativa che caratterizza il conflitto nella concezione classica di comunità. In essa infatti le situazioni conflittuali anziché tendere alla distruzione della comunità, possono assicurarle vitalità e consistenza, qualora tali situazioni siano riconosciute come una questione controversa, ossia come occasione di discussione ed elaborazione intorno all’importanza ed al valore di una esperienza o fatto sociale. Cfr. ad es. A. Giuliani, Il problema della comunità nella filosofia del diritto, in G. Dalle Fratte (a cura di), La comunità tra cultura e scienza. Il concetto di comunità nelle scienze umane, vol. I, Roma, 1993, pp. 83 ss. Su questo versante della riflessione giulianea sia permesso inoltre segnalare G. Bascherini, F. Cerrone, F. J. Mootz III, S. Niccolai and G. Repetto, Law and Community: Alessandro Giuliani’s Aristotelian Vision, in corso di pubblicazione).
La linea di pensiero ricostruita da Esposito dall’umanesimo ai giorni nostri, quella tradizione culturale, ha, a mio parere, conosciuto importanti e specifici svolgimenti sul terreno della cultura giuridica italiana. C’è un mos italicus della cultura giuridica che in parte coincide con il filo dipanato da Esposito, in parte invece lo integra e presenta altre figure meritevoli di attenzione e di una ripresa degli studi. Vico (ricordo il lavoro di Giorgio Repetto, Il metodo comparativo in Vico e il diritto costituzionale europeo, apparso nella Rivista critica di diritto privato, 2009, pp. 295 ss.) e Cuoco sono esempi di coincidenze tra questi due percorsi, ma credo che, sul piano della cultura giuridica, a questi autori altri potrebbero affiancarsi. Ricordo qui soltanto i nomi di Genovesi, Cattaneo, Romagnosi, tanto per citare quelli per i quali più evidenti sono le ascendenze vichiane. Penso inoltre a tanta parte della costituzionalistica preorlandiana e/o preunitaria, liquidata dalla vulgata dominante come poco scientifica, pregiudicata da una mancanza di purezza, da quella tendenza alla contaminazione con altri saperi che invece nella riflessione espositiana diviene un elemento di forza della cultura italiana. Penso, ancora, e solo per averlo un minimo studiato, a figure come Silvio Trentin, giurista militante che nell’esilio antifascista tornando a riflettere sulla crisi del diritto e dello Stato (come recita il titolo di una sua importante monografia) dichiara esplicitamente di ricominciare partendo da Vico. Meritano inoltre, per quanto riguarda il passante degli anni Venti e Trenta, di essere ripresi e discussi – anche dai costituzionalisti, e non solo dai filosofi e dagli storici – anche autori quali Gentile e Gramsci, facendo una tara (forse per le giovani generazioni di studiosi più facile a farsi di quanto non sia stato per le precedenti generazioni) sulle ipoteche ideologiche, ‘fascio(e)comuniste’, che hanno gravato non senza ragione sui due, riscoprendone invece le complessità e le profondità. Ed ancora, ritengo utile raccogliere il suggerimento espositiano a mescolare pensiero e letteratura (cfr. le pagine dedicate a Leopardi, 111-123, ed a Pasolini, 192-206), approfondendo gli spunti che possono venirne per uno studio anche del diritto quale fenomeno in primo luogo culturale.

Da ultimo, al di là degli esiti ai quali quella corrente di pensiero ha dato corpo, secondo Esposito, a partire dall’ultimo quarto di 900, quel mos italicus ricostruito nei precedenti capitoli del libro ha avuto un’ulteriore corrente di sviluppo che riguarda specificamente la riflessione giuridica. Penso ad una serie di giuristi di diversa posizione, ma accomunati da una forte attenzione agli insegnamenti vichiani, e in particolare al Vico giureconsulto; da un approccio che solo per comodità di etichetta può definirsi realista ed antiformalista, animati al contempo da una forte attenzione alle prospettive dell’esperienza giuridica (oltre al già richiamato Giuliani, mi limito a ricordare i nomi di Betti, Capograssi ed Orestano). E questa corrente di cultura giuridica, peraltro, non è senza legami con gli approdi filosofici che nell’ultimi mezzo secolo connoterebbero, secondo Esposito, il pensiero italiano. Senza voler proporre azzardati accostamenti, è tuttavia difficile negare che l’Antonio Negri filosofo del diritto abbia a lungo dialogato con la cultura giuridica, filosofica e costituzionalistica del tempo, da Opocher – suo “padrone all’università di Padova” e che molto ha riflettuto sul tema dell’esperienza giuridica (v. ad es. E. Opocher, Esperienza giuridica in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, pp. 736 ss.) – a Carlo Esposito – che legge il saggio di Negri Lo Stato dei partiti prima della sua pubblicazione (v. a riguardo Dopo il Novecento: verso le istituzioni del comune. Una conversazione con Antonio Negri, conversazione con Giuseppe Allegri che chiude il volume, curato dallo stesso Allegri, di A. Negri, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti della governance, Verona, 2009, pp. 215 ss.; si veda inoltre la prefazione di G. Allegri, Dallo “Stato dei partiti” ai movimenti della governance, pp. 7 ss.). Analogamente, e per rimanere su questa prospettiva, è difficile negare che la prospettiva dell’esperienza, interrogata da molti dei giuristi prima richiamati (ad es. Betti, Capograssi, Giuliani, Opocher, Orestano), costituisca al contempo oggetto di interrogazione per una parte importante del femminismo italiano (cfr. il volume curato da A. Buttarelli e F. Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Milano, 2008, ed in particolare i saggi in esso contenuti di S. Niccolai, Controversia, disciplina dell’esperienza e D. Sartori, La matrice della convivenza, risp. 265 e 243 ss.).

Mi auguro che altri, e più approfonditi, interventi seguano queste mie note confuse.

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