National Conversation. L’Irlanda e il matrimonio egualitario: spunti per una comparazione

Con il 62,1% dei voti favorevoli, gli elettori irlandesi hanno approvato, nel referendum del 22 maggio scorso, l’emendamento costituzionale volto ad inserire nell’art. 41 della Costituzione un paragrafo che riconosce la parità di accesso all’istituto del matrimonio per tutte le coppie, siano esse etero- od omosessuali (“Marriage may be contracted in accordance with law by two persons without distinction as to their sex”). Come conseguenza dell’approvazione dell’emendamento, si attende ora l’approvazione parlamentare di una legge sul matrimonio gender neutral, prevista entro l’autunno, con la celebrazione dei primi matrimoni già alla fine di quest’anno.

Il voto si inserisce nel quadro del procedimento di revisione costituzionale disciplinato dagli artt. 46 e 47, comma 1, della Costituzione irlandese, che prevede, appunto, l’obbligatorietà del passaggio referendario ogni qualvolta le Camere approvino un progetto di revisione costituzionale.

Allo stesso tempo, la proposta di revisione costituzionale oggi approvata è parte di un più vasto processo politico e culturale, che ha le sue origini più remote nel superamento della repressione penale dei comportamenti sessuali tra persone dello stesso sesso (1993), e i suoi passaggi più salienti nel Civil Partnership and Certain Rights and Obligations of Cohabitants Act del 2010 (una forma di unione civile riservata alle coppie omosessuali e modellata, con talune differenze, sul matrimonio) nonché, da ultimo, nell’importante Children and Family Relationship Act 2015 (approvato nel mese di aprile 2015). Attraverso tale ultima legge – relativa peraltro ad una revisione organica della disciplina dei rapporti di filiazione, con riferimento specifico all’accesso ed agli effetti giuridici delle tecniche di procreazione medicalmente assistita – si era provveduto, in particolare, ad estendere ai civil partners la possibilità di accedere all’istituto dell’adozione in condizioni di parità con le coppie eterosessuali, coniugate o no.

L’esito finale del processo di riconoscimento della posizione costituzionale dei diritti e dei doveri delle coppie omosessuali in Irlanda – la scelta, netta e chiara, in favore della piena pari dignità sociale, con la generalizzazione dell’accesso all’istituto del matrimonio – e la forma del suo conseguimento – il voto popolare, seppure inserito nel quadro di un procedimento di revisione costituzionale – sono ricchi di suggestioni per l’osservatore italiano, ed in particolare per chi voglia riflettere sul dibattito attualmente in corso in tema di riconoscimento delle unioni civili attraverso la lente della comparazione costituzionale, non solo approfondendo in maniera puntuale le dinamiche proprie di altre esperienze costituzionali, ma lasciando piuttosto che queste interroghino in profondità gli itinerari giuridici e culturali che caratterizzano l’esperienza costituzionale di partenza.

In quest’ottica, il confronto con l’esperienza irlandese invita a riflettere, in primo luogo, sulla capacità integrativa del processo politico – nella sua dimensione istituzionale come in quella sociale – e sull’attitudine del medesimo a porsi quale strumento aperto di gestione del pluralismo e di integrazione delle posizioni minoritarie anche, ove necessario, ricorrendo al procedimento di revisione costituzionale. L’esperienza irlandese, in altre parole, dimostra che, quando il processo politico riesce ad aprirsi alla partecipazione ed al confronto scevro di pregiudizi tra posizioni diverse, è possibile superare atteggiamenti di inerzia suscitando nello spazio pubblico una vera e propria “conversazione nazionale” (l’espressione National Conversation è stata costantemente al centro del dibattito pubblico irlandese negli ultimi mesi) capace di irrobustire il processo di integrazione della comunità politica attorno a principi e valori condivisi (su tutti, usando un termine proprio della nostra esperienza costituzionale, la pari dignità sociale di tutti i cittadini).

In tal modo, il processo politico – in un’accezione larga, che comprende anche le interazioni tra dimensione istituzionale della rappresentanza e dinamiche socio-culturali – recupera la propria centralità come sede di gestione del pluralismo, rendendo meno urgente la necessità di interventi compensativi da parte del potere giudiziario. Il ruolo della giurisdizione nei processi di riconoscimento e protezione della vita familiare delle coppie omosessuali è, come noto, al centro del dibattito, in Italia e non soltanto, anche e soprattutto sotto il profilo dei rapporti tra giurisdizione e legge nelle dinamiche di protezione delle posizioni minoritarie, lasciate indietro – per così dire – dall’andamento (o, molto più spesso, dall’inerzia) del processo politico: in quest’ottica, semplificando, si discute sulla tenuta della capacità integrativa del processo politico e della legge – in materie nelle quali la considerazione della concreta esperienza di vita di cui si rivendica il riconoscimento e la protezione assume rilevanza centrale – contrapposta alla funzione “contro-maggioritaria” della giurisdizione come sede di gestione del conflitto pluralistico e di protezione delle posizioni minoritarie.

In questa prospettiva, l’esperienza irlandese si pone in continuità con quella di molti altri Paesi europei. In primo luogo, con quella – davvero pionieristica – dei paesi scandinavi, che già a partire dagli anni Ottanta si era caratterizzata per l’ampio ricorso alla consultazione, nel processo di avvicinamento al pieno riconoscimento dei diritti degli omosessuali in materia familiare; ma anche, è bene ricordarlo, con le più recenti esperienze di paesi come la Francia e il Regno Unito – in cui il riconoscimento dei diritti familiari delle coppie omosessuali è avvenuto, in maniera graduale, attraverso lo strumento legislativo – o la Spagna, in cui l’intervento del giudice costituzionale ha seguito (peraltro, di ben sette anni, e dichiarandone la non contrarietà a Costituzione), l’approvazione della legge sul matrimonio egualitario. Tutto al contrario, le esperienze di altri Paesi europei dimostrano che – quando il legislatore resta inerte (come in Italia o in Grecia), ma anche quando procede al riconoscimento solo parziale della dimensione di vita affettiva e familiare delle coppie omosessuali (come in Germania o in Austria) – il ricorso alla giurisdizione (interna – ordinaria o costituzionale – ma anche sovranazionale) si presenta quale passaggio necessario per stimolare il legislatore all’intervento (nel caso di inerzia totale) o per inaugurare un proficuo processo di interazione dialettica, volto al progressivo allargamento delle tutele (come, ad esempio, nel caso tedesco).

Il caso irlandese è fonte di riflessione, tuttavia, non soltanto per la centralità assunta dal processo politico, ma anche – e soprattutto – per il rilievo del tutto inedito (se si eccettua l’esperienza di alcuni stati membri degli USA) assunto dalla deliberazione popolare. Questa, come è stato ampiamente (e da alcuni, criticamente) sottolineato, ha finito per sottoporre al voto della maggioranza, alle oscillazioni aleatorie del consenso, il riconoscimento della parità di diritti e doveri per una “minoranza”. Ora, non si deve dimenticare anzitutto – come accennato – che il voto referendario rappresentava, in Irlanda, un passaggio obbligato del procedimento di revisione costituzionale e, dunque, la decisione di sottoporre al voto popolare la questione non deriva dalla scelta politica di una maggioranza, ma da un imperativo costituzionale: alla sua base non vi sono, in altre parole, ragioni di mera opportunità politica o, quel che è peggio, demagogiche, ma esigenze di carattere costituzionale, attinenti come tali alle stesse ragioni fondanti la convivenza politica. In Irlanda, pertanto, non si è data una “minoranza” in pasto alla “maggioranza”, ma si è chiamato il corpo elettorale a decidere su una modifica della Costituzione e su un allargamento di spazi di libertà, pari dignità ed autodeterminazione riguardanti direttamente la comunità omosessuale ma, indirettamente, l’intera collettività. Non si nega, ovviamente, che venga qui in discussione il rapporto tra democrazia e diritti, e la delicatezza della sottoposizione di un ambito così delicato alle oscillazioni del consenso (un tema che peraltro investe snodi fondamentali nella storia del costituzionalismo, e che non è possibile approfondire adeguatamente in questa sede); allo stesso tempo, tuttavia, pare opportuno sottolineare – ferme restando le considerazioni di sistema sull’obbligatorietà del passaggio referendario nel procedimento per la revisione della Costituzione irlandese – che, almeno in questo caso, la consultazione popolare ha avuto il merito di irrobustire il dibattito pubblico, nel contesto di una società che ha saputo evitare – però – ogni forma di polarizzazione violenta a favore di un confronto sereno e animato da una fortissima mobilitazione, specie giovanile. Resta l’interrogativo se, in altri contesti, la resa del passaggio referendario sarebbe stata la medesima, non solo e non tanto in termini di esito, quanto piuttosto in termini di irrobustimento del dibattito pubblico: l’Irlanda, è scontato sottolinearlo, ha una esperienza consolidata di consultazioni referendarie in tema di modifiche alla Costituzione che, in alcuni casi (si pensi, in particolare, al divorzio) sono stati snodi fondamentali di procedimenti di revisione assai lunghi e complessi, caratterizzati dalla ripetizione del referendum a distanza di molti anni, con esiti diversi.

Un ulteriore spunto di riflessione proviene dallo strumento prescelto in Irlanda per l’estensione dell’accesso al matrimonio alle coppie same-sex, vale a dire la revisione costituzionale: la scelta di tale strumento, in luogo della legge, si iscrive nelle dinamiche proprie dell’ordinamento irlandese ed in particolare è dovuto alla presenza, nel case law delle Corti irlandesi, di un consolidato principio di common law che identificava nel matrimonio l’unione tra un uomo e una donna, ritenuto superabile solo attraverso un intervento sul testo della Costituzione, volto a conferire al matrimonio same-sex una protezione superiore a quella legale, con l’ulteriore obiettivo di mettere la successiva legge sul matrimonio gender neutral al riparo da un eventuale sindacato demolitorio da parte delle Corti.

L’eventuale ricorso alla revisione costituzionale è oggetto di discussione, come noto, anche in Italia, specie da parte di coloro che fanno discendere dalle sentenze nn. 138/2010 e 170/2014 della Corte costituzionale l’impossibilità di introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso per via legislativa, senza una previa modifica dell’art. 29 Cost.: si ritiene, infatti, che la Corte abbia ricompreso il paradigma eterosessuale del matrimonio tra i caratteri dell’istituto costituzionalmente riconosciuto, appunto, all’art. 29, individuando piuttosto nell’art. 2 Cost. l’unica norma costituzionale di riferimento come fonte del riconoscimento e della protezione delle unioni omosessuali. Tale posizione, seppure assai diffusa in dottrina, non sembra valorizzare adeguatamente, tuttavia, almeno due profili della questione.

In primo luogo, infatti, si deve sottolineare che la Corte, nelle due sentenze prima ricordate, ha cura di definire, essenzialmente, i limiti del proprio sindacato additivo e, dunque, le potenzialità della propria opera di interpretazione in assenza di una esplicita presa di posizione sul punto da parte del legislatore, cui resta riservata per contro – come la stessa Corte riconosce – piena discrezionalità nella scelta delle forme più opportune per il riconoscimento delle unioni omosessuali, che può non avvenire “soltanto” nelle forme del matrimonio (sent. n. 138/10, Cons. dir., punto 8). Considerazioni analoghe valgono, peraltro, in relazione alla ben nota affermazione della Corte in merito alla “non omogeneità” delle unioni omosessuali rispetto al matrimonio (sent. n. 138/2010, Cons. dir., punto 9): tale affermazione – che peraltro non impedisce alla Corte di prefigurare, in altro luogo della stessa sentenza n. 138/2010, propri interventi compensativi, in puntuali ipotesi di assenza di tutela in relazione a situazioni concrete, volti ad assicurare alle unioni omosessuali un “trattamento omogeneo” rispetto a quello delle coppie coniugate (Cons. dir., punto 8) – può essere letta nella medesima prospettiva, nel senso cioè che esuli dall’ambito dell’interpretazione riservata alla Corte, spettando piuttosto al legislatore, un simile generale giudizio di omogeneità. Non è detto, in altre parole, che la Corte avrebbe deciso (o deciderà) in termini analoghi di fronte ad un’eventuale estensione in via legislativa dell’accesso al matrimonio alle coppie formate da persone dello stesso sesso.

In secondo luogo, la lettura “rigida” delle sentenze n. 138/2010 e 170/2014 tende ad enfatizzare la stabilità dell’istituto matrimoniale e, di conseguenza, mostra un approccio assai controllato ai rapporti tra interpretazione costituzionale ed esperienza storica, che assumono invece, in materie come questa, una rilevanza centrale. In relazione a tale profilo, se è vero che le due decisioni ricordate si caratterizzano per una posizione venata da tratti di originalismo, si può ricordare, da ultimo, il parere della Commissione Affari costituzionali del Senato della Repubblica in merito ai ddl 14 ed abb. (approvato nella seduta del 12 maggio 2015), in tema di unioni civili tra persone dello stesso sesso. In tale parere, la Commissione, auspicando peraltro un “dialogo fecondo e virtuoso” tra la Corte ed il legislatore, non esclude la possibilità di una “evoluzione interpretativa dell’espressione “società naturale”, contenuta all’articolo 29 della Costituzione”: la stessa potrà essere infatti oggetto “di un’ulteriore indagine ermeneutica, che svincoli il dato normativo dallo stretto richiamo alla voluntas del legislatore costituente, avvinta – per evidenti ragioni di contesto storico e culturale – al paradigma eterosessuale del vincolo affettivo, per aprire ad un’interpretazione evolutiva, che tenga conto delle profonde trasformazioni sociali palesate negli ultimi decenni e delle mutate coordinate culturali alle quali il diritto non può restare insensibile”. La possibilità di una interpretazione evolutiva della garanzia costituzionale dell’istituto del matrimonio discende peraltro secondo la Commissione dal fatto che tale garanzia – riguardando, in ultima analisi, un ambito istituzionale di esercizio dei diritti fondamentali – deve garantire questi ultimi, che pure sono “espressione di un ordinamento libero già realizzatosi ed elementi costitutivi del quadro costituzionale […] anche nella loro dimensione di spazi di esperienza”.

Un ulteriore profilo di interesse ai fini di una comparazione tra la situazione irlandese e quella italiana è rappresentato dalla circostanza che il riconoscimento della vita familiare delle coppie omosessuali fosse già realizzato in Irlanda, dal 2010, nelle forme della Civil Partnership, una unione civile riservata alle coppie formate da persone dello stesso sesso e modellata – con talune differenze – sull’istituto matrimoniale. Si tratta, come noto, di una situazione analoga a quella inglese – nella quale tuttavia, l’istituto della Civil Partnership è rimasto in vigore dal 2004 al 2013 – che dimostra come l’istituto dell’unione civile “riservata” alle coppie omosessuali costituisca di frequente solamente un passaggio intermedio verso il riconoscimento della piena parità di diritti e doveri tra coppie eterosessuali coniugate e coppie omosessuali. Ad oggi, infatti, se si eccettuano i (pochi) Stati dell’Europa orientale che mantengono istituti assimilabili al partenariato civile (peraltro, distinguendoli robustamente dal matrimonio), spesso in presenza di divieti costituzionali espressi all’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, un percorso del tutto simile ha interessato la Francia – che all’istituto del PACS affianca, dal 2013, il matrimonio egualitario – i paesi scandinavi, oltre a Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, ma anche la Spagna e il Portogallo, nei quali tuttavia il matrimonio si è affiancato a previgenti forme di riconoscimento di diritti e doveri derivanti delle unioni di fatto (talora, come in Spagna, previste solo a livello regionale); ciò che più rileva, tuttavia, è che anche nei Paesi in cui l’unione civile è modellata sul matrimonio, come la Germania o l’Austria, essa ha subito una progressiva ridefinizione in sede legislativa e nell’interpretazione delle Corti, nel senso di un notevole ampliamento dei diritti e dei doveri riconosciuti e, con talune eccezioni – specie in tema di filiazione – di una sostanziale equiparazione al matrimonio. Non è dunque forse un caso la recente ripresa, in Germania, di un vivace dibattito sull’opportunità di mantenere in vita un istituto familiare riservato alle coppie omosessuali, formalmente distinto dal matrimonio ma ad esso sempre più simile. Se dunque, da un lato, l’istituto dell’unione civile – come anche le altre forme di riconoscimento delle coppie omosessuali diverse dal matrimonio e meno incisive sul piano delle tutele – sembra aver rappresentato, in numerosi paesi europei, un passaggio necessario per spianare il cammino al riconoscimento della piena parità di diritti e doveri, va sottolineato – e l’Irlanda rappresenta solo l’ultimo caso rilevante in questo senso – che tale carattere temporaneo, provvisorio ed in qualche misura “preparatorio” degli istituti alternativi al matrimonio è stato profondamente avvertito nel dibattito pubblico in tali Paesi: allo stesso modo, laddove l’unione civile era riservata alle coppie formate da persone dello stesso sesso e sostanzialmente modellata sul matrimonio, l’evidenza del carattere irragionevole del trattamento differenziato così realizzato – tale da configurare l’unione civile, al limite, come vera e propria struttura di tolleranza della diversità – è stato sottolineato con forza sempre maggiore. Anche nel caso irlandese, peraltro, si è assistito alla progressiva estensione delle tutele, recentemente culminata – proprio poche settimane prima del referendum – nell’equiparazione della disciplina dei rapporti di filiazione (Children and Family Relationship Act 2015, del 6 aprile).

Tra gli spunti di comparazione sin qui sinteticamente illustrati, merita di essere nuovamente sottolineato, infine, il dato proveniente dalla centralità assunta, in Irlanda, dal processo politico e dal coinvolgimento del corpo elettorale, sotto il profilo del ruolo rivestito – in Irlanda come in Italia – dalla presenza di una significativa tradizione cattolica, seppur recentemente indebolita. Tale circostanza assume rilevanza, sul piano costituzionale, dal punto di vista della rilevanza dei processi culturali (e, in questo caso, di secolarizzazione) nell’articolazione dei percorsi di interpretazione della Costituzione, e getta una luce in parte inedita sul rapporto tra effettività del principio di laicità, autonomia della classe politica rispetto alle posizioni ecclesiali e capacità delle comunità religiose di prendere parte – con una certa serenità, come dimostrato proprio dall’esperienza irlandese, ed in particolare, dalle dichiarazioni rese dall’arcivescovo di Dublino all’indomani del risultato del referendum – al dibattito pubblico. Anche in questo senso, pertanto, la “conversazione nazionale”, quando si ha il coraggio di intraprenderla e la serenità di portarla avanti, ha l’effetto di irrobustire i percorsi di integrazione della comunità politica, consente alle diverse posizioni di confrontarsi senza chiusure pregiudiziali, e apre spazi di solidarietà, esperienza e dialogo funzionali alla maturazione di una più profonda capacità immaginativa ed empatica (“la capacità di prendersi a cuore le vite degli altri”, come scrive Giulia Belardelli su Huffingtonpost.it del 25 maggio 2015, proprio commentando la mobilitazione pubblica a favore del “sì”), che è precondizione per ogni “politica di umanità”.